Metaspore di Anicka Yi: Cosa vedere e cosa evitare al Pirelli Hangar Bicocca

Anicka Yi, “Metaspore”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022 Courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Una coppia presenta il green pass: ”Avete prenotato? “ “Si ma siamo un po’ in anticipo”. “Non importa: andate pure. Oggi si può”. E’ primo pomeriggio e al Pirelli Hangar Bicocca c’è ancora poca gente. L’atrio è invaso dalla luce fredda ma già intensa che passa dalle grandi vetrate dell’ingresso, eppure, una volta varcate le porte che separano dallo Sheed (uno degli spazi espositivi ricavati dall’ex-fabbrica milanese in cui un tempo si producevano locomotive), ci si trova avvolti nella penombra. Le opere di Anicka Yi occupano l’intera sala, che sembra fatta apposta per contenerle.

Sono 20 e fanno di Metaspore la più grande mostra mai dedicata all’artista coreano-americana (fino al 24 luglio 2022) che quest’anno ha avuto l’onore di occupare la Turbine Hall della Tate Moderna di Londra con un’installazione site-specific (In Love with the world). Si va dai primi successi nel 2010-11 (infatti, Anicka Yi, si dedica all’arte solo dal 2008) fino a Biologizing the Machine (Spillover zoonotica) creata proprio per quest’esposizione.

Anicka Yi, “Metaspore”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022 Courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Appena entrati sembra di varcare un secondo ingresso mentre si attraversa la galleria composta da quelle che in realtà sono due installazioni più o meno uguali (Effectively Synergizing Backward Overflow e Ice Water in the Veins). Bianche, con sopra stampati quelli che a prima vista possono sembrare pattern decorativi (in realtà batteri al microscopio), ospitano delle piccole vetrine retroilluminate. Nelle teche c’è un po’ di tutto ma senza ricorrere alla guida messa a disposizione dall’Hangar (gratuita ma un po’ piccola per chi soffre anche del minimo problema alla vista) non ci si arriverebbe mai. E’ una delle caratteristiche più spiccate del lavoro di Yi, che si ritrova in buona parte delle opere in mostra: visivamente piacevoli, a volte persino apparentemente preziose, possono essere fatte di materiali improbabili o sgradevoli. Come ci riesca non si sa.

Anicka Yi, Biologizing the Machine (spillover zoonotica), 2022 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022 Commissionata e prodotta da Pirelli HangarBicocca, Milano Courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Ma basta guardare Biologizing the Machine (Spillover zoonotica) (da non confondere con Biologizing the Machine (Terra incognita), presentata alla Biennale di Venezia) per avere una prova incontrovertibile di questa strana trasmutazione alchemica della materia che passa per le mani di Yi e degli esperti cui si affianca (in questo caso gli scienziati del dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra dell’Università degli Studi di Milano). Anche avvicinandosi fin quasi ad appoggiare il naso sulle teche non c’è verso di capire che quelle colorate e raffinate composizioni sono colture di batteri. Anzi, se ci si accosta, si possono scorgere delle piccole cavità nella materia dalle quali fanno capolino dei minuscoli cristalli scuri.

Anicka Yi, “Metaspore”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022 Courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Stesso discorso per Skype Sweater. Già il paracadute militare gonfiato dall’aria a formare degli igloo leggeri e luminosi, fa sfuggire all’osservatore la sua originale funzione. E passi per il parallelepipedo di sapone che ingloba tubi di gomma e rasoi. Ma riuscire a capire che dentro quella borsa Longchamp trasparente ci sono interiora di bovino e gel per capelli è impossibile: si scorgono solo forme poco definite ma aggraziate, sprazi di colore. Per non parlare del sacchetto di plastica fritto in tempura che sembra un materiale prezioso. Forse oro, ma luccica persino di più.

Anicka Yi, “Metaspore”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022 Courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

In confronto le sette vasche trasparenti di Shameplex, riempite di gel per ultrasuoni verde vivo, non hanno segreti. Con i loro spilli che ossidandosi disegnano motivi scuri e più o meno geometrici nella superficie viscosa e ben livellata. Qui Yi cita il Minimalismo storico. L’opera è leggermente disturbante ma quasi non ci se ne rende conto.

Auras, Orgasms and Nervous Peaches, invece, con le sue macchie scure agli angoli di una stanza rivestita di piastrelle bianche, che ricordano i bagni pubblici, lo è molto di più. Fuori, da tre buchi, sgorga un liquido giallastro che sembra urina ma è olio d’oliva. Nell’aria si dovrebbe diffondere l’odore dell’olio ma con la mascherina non è facile dstinguerlo. E’ più probabile non sentire niente.

Tuttavia si può supporre che avvertendolo ci sarebbe un momento di confusione. Ad Anicka Yi, infatti, piace spiazzare il visitatore mettendolo di fronte a paure che non ricorda di avere, a condizionamenti di cui non conosce la forza e dei quali, spesso, non è nemmeno cosciente.

Anicka Yi, “Metaspore”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022 Courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Ma ogni tanto, Yi, ci regala anche momenti piacevoli, come con Releasing the Human from the Human. Malgrado il titolo sinistro (Liberare l’Umano dall’Umano), composta com’è da sei lampade circolari di alga laminaria da cui si irradia una luce calda e dal vorticare di insetti robotici, ricorda le sere d’estate. E’ gradevole, anche la presenza aliena di mosche o falene che siano, non porta fantascientifiche inquietudini, visto che a farle girare è un banale pernetto.

Anicka Yi, Immigrant Caucus, 2017 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022 Courtesy l’artista, 47 Canal, New York, Gladstone Gallery e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

New York’s A Bitch, But Good Forbid the Bitch Divorce You è tutt’un’altra storia. Collocata in fondo alla sala a vedersi è semplicissima: solo una coppia di oblò da lavanderia sulla parete scura. Aprendoli si sentono due distinti odori che l’artista ha creato in collaborazione con il profumiere francese Christophe Laudamiel (tra gli altri ha lavorato con Ralph Lauren, Michael Kors e Tom Ford) e che per lei rappresentano le emozioni contrastanti che accompagnano la fine di una relazione. Ma si insinuano nelle narici in malo modo. E sono persistenti. Uno in particolare riesce a ricordare bitume, polvere e ambienti mal sani insieme ad altre note non meglio definite in un sol colpo.

Non vanno annusati due volte o troppo a lungo. Altrimenti meglio abbandonare l’idea di affrontare incolumi l’installazione olfattiva Immigrant Cucasus. In cui Anicka Yi (questa volta insieme a Barnabé Fillion) ha ibridato il sudore delle donne asiatico-americane con le sostanze emesse dalle formiche carpentiere.

Anicka Yi, Laptop Lap Burn, 2015 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022 Courtesy l’artista, 47 Canal, New York, Gladstone Gallery e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Anicka Yi, Skype Sweater, 2010/2017 (particolare) Paracadute militare in nylon, sapone, resina, tubi di gomma, pigmento, lame di rasoio, vetrini da microscopio, borsa in PVC e pelle, gel per capelli, trippa, ami da pesca, involucro in mylar fritto in tempura, aste di plastica, rete da pesca, plexiglass Dimensioni variabili Veduta dell’installazione, Art Basel Unlimited, Basilea, 2017 Courtesy l’artista, Gladstone Gallery, New York Bruxelles, e 47 Canal, New York Foto Peter Hauck

Anicka Yi, Skype Sweater, 2010/2017 (particolare) Paracadute militare in nylon, sapone, resina, tubi di gomma, pigmento, lame di rasoio, vetrini da microscopio, borsa in PVC e pelle, gel per capelli, trippa, ami da pesca, involucro in mylar fritto in tempura, aste di plastica, rete da pesca, plexiglass Dimensioni variabili Veduta dell’installazione, Art Basel Unlimited, Basilea, 2017 Courtesy l’artista, Gladstone Gallery, New York Bruxelles, e 47 Canal, New York Foto Peter Hauck

Anicka Yi, Shameplex, 2015 (particolare) Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022 The Museum of Modern Art, New York Fund for the Twenty-First Century, 2017 Courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Anicka Yi, “Metaspore”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022 Courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Anicka Yi, “Metaspore”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022 Courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Il Romanticismo black di Kehinde Wiley alla National Gallery di Londra

Kehinde Wiley, 'Prelude (Babacar Mané)', 2021. Courtesy of Stephen Friedman Gallery, London and Galerie Templon, Paris.

L’artista statunitense Kehinde Wiley è da anni impegnato nella rilettura della pittura moderna sostituendo i protagonisti bianchi con neri di varie etnie e nazionalità. Defintivamente consacrato dopo essere stato scelto (primo artista afro americano nella Storia) per ritrarre il Presidente Barack Obama a fine mandato. E’ attualmente in mostra alla National Gallery di Londra. L’esposizione si intitola The Prelude (da una poesia di William Wordsworth) ed è una reinterpretazione della grande pittura romantica.

Dal genere del Ritratto, Wiley si sposta a quello del Paesaggio e lo fa con maestria, riproponendo l’aura di mistero e di teatrale bellezza delle opere cui fa riferimento. Alla Sunley room, nel centro della National Gallery, presenta cinque dipinti e un video digitale a sei canali (In Search of the Miraculous ). L’opera nel suo complesso è pensata per stabilire un rapporto immediato tra il lavoro di Wiley e i paesaggi storici e marini conservati alla National Gallery di artisti come Claude , Friedrich, Turner e Vernet .

Magistrale la rilettura de Il Viandante sul Mare di Nebbia del pittore tedesco Caspar David Friedrich. Wiley, infatti, non si limita a sostituire il viaggiatore biondo dell’originale con il giovane Babacar Mané, originario di Dakar in Senegal, ma modifica in modo, al tempo stesso sottile e sostanziale, il capolavoro romantico. Se il protagonista ottocentesco passava in secondo piano di fronte alla grandezza della natura, Babacar se la gioca alla pari, non possiamo vedere la sua espressione ma la posa sciolta fa pensare a calcolo e sicurezza. Sulla sua schiena, poi, si riflette una luce azzurra innaturale che trova contrappunti e assonanze in una tavolozza più viva e rende cinematico il dipinto, sottolineando ancora una volta che Mané resta il protagonista del suo viaggio.

Ovviamente i dipinti di Wiley parlano di identità, migrazioni e iniquità sociali. Ma non è da meno il suo In Search of the Miraculous, in cui l’artista approfondisce la figura del vagabondo romantico alla ricerca di se stesso e di una nuova spiritualità. Per farlo ha scelto un gruppo di londinesi neri, incontrati nelle strade intorno alla National Gallery, e portati in Norvegia ad esplorare fiordi e paesaggi glaciali.

The Prelude rimarrà alla National Gallery di Londra fino al 18 aprile. Ma Kehinde Wiley dal prossimo 23 aprile (fino al 24 luglio) sarà anche protagonista della mostra Kehinde Wiley: An Archaeology of Silence, organizzata dal Musée d’Orsay alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia, ed inserita tra gli eventi collaterali autorizzati alla Biennale Arte 2022.

Kehinde Wiley, 'Ship of Fools II', 2021. Courtesy of Stephen Friedman Gallery, London and Galerie Templon, Paris.

Kehinde Wiley, 'In Search of the Miraculous (Jasmine Gracout and Robenson St. Firmin)', 2021. Courtesy of Stephen Friedman Gallery, London and Galerie Templon, Paris.

A still from Kehinde Wiley, 'Prelude', 2021. Courtesy of Stephen Friedman Gallery, London and Galerie Templon, Paris.

A Katharina Fritsch e Cecilia Vicuña vanno i Leoni d'oro alla carriera della Biennale Arte 2022

Katharina Fritsch, Rattenkönig / Rat King 1993, Resina poliestere, vernice, 110¼ × 511¾ × 511¾ pollici ; 280 × 1300 × 1300 cm. Image: Matthew Marks Gallery

La Biennale Arte 2022, che quest’anno sarà curata da Cecilia Alemani e si intitolerà Il Latte dei Sogni, con l’attribuzione dei Leoni d’oro alla carriera si conferma sempre più al femminile. I due importanti riconoscimenti, infatti, sono stati attribuiti all’artista tedesca Katharina Fritsch e alla cilena Cecilia Vicuña.

Classe ‘56, Katharina Fritsch vive e lavora tra Wuppertal e Düsseldorf. Conosciuta per le sue grandi e coloratissime sculture, figurative, riconoscibilissime ma anche stranianti e misteriose. Iperrealiste eppure surreali. Vuoi per la grande scala, vuoi per il luogo in cui le colloca o i colori. Le sue opere più famose riproducono animali, conchiglie, statuaria devozionale, oggetti di uso comune e figure umane. Ma nelle mani di Fritch ognuno di questi soggetti perde parte del proprio significato per assumerne uno nuovo e non del tutto chiaro.

Cecilia Alemani di lei ha detto: “La prima volta in cui ho visto un’opera di Katharina Fritsch di persona è stato proprio alla Biennale di Venezia, nell’edizione del 1999, curata da Harald Szeemann, la prima Biennale che ho visitato. L’imponente opera che occupava il salone principale del Padiglione Centrale si intitolava Rattenkönig, il re dei topi, una scultura inquietante in cui un gruppo di topi giganteschi è disposto in cerchio, le code annodate, come in uno strano rituale magico. Da quel momento in poi, a ogni incontro con una scultura di Fritsch, ho provato lo stesso senso di stupore e di attrazione vertiginosa. Il contributo di Fritsch nel campo dell’arte contemporanea e, in particolare, in quello della scultura non ha paragoni. Il suo lavoro si distingue per opere figurative al contempo iperrealistiche e fantastiche: copie di oggetti, animali e persone rese nei più minuscoli dettagli ma trasformate in apparizioni perturbanti. Spesso Fritsch modifica le dimensioni e la scala dei suoi soggetti, miniaturizzandoli o ingigantendoli e avvolgendoli in campiture di colori stranianti: è come trovarsi al cospetto di monumenti di civiltà aliene, o di fronte a reperti esposti in uno strano museo postumano.”

Del tutto diversa l’opera di Cecilia Vicuña, nata nel ‘48 a Santiago (attualmente vive tra New York e la capitale cilena). Centrata sulla precarietà e su un sovrapporsi di vari medium espressivi con il costante obbiettivo di omaggiare la storia e la cultura degli indigeni cileni. Lei oltre a essere un’artista è anche poetessa, cineasta e attvista.

Vicuña è un’artista e poetessa- ha detto Alemani- e ha dedicato anni a preservare le opere letterarie di molti scrittori e scrittrici dell’America Latina, svolgendo un encomiabile lavoro di traduzione e redazione di antologie di poesie sudamericane che, senza il suo intervento, sarebbero andate perdute. Vicuña è anche un’attivista che da anni lotta per i diritti delle popolazioni indigene in America Latina e in Cile. Nel campo delle arti visive si è distinta per un’opera che spazia dalla pittura alla performance, fino alla realizzazione di assemblage complessi. Al centro del suo linguaggio artistico c’è una forte fascinazione per le tradizioni indigene e per le epistemologie non occidentali. Per decenni ha lavorato in disparte, con precisione, umiltà e ostinazione, anticipando molti dibattiti recenti sull’ecologia e il femminismo e immaginando nuove mitologie personali e collettive. La maestria di Vicuña consiste nel trasformare gli oggetti più modesti in snodi di tensioni e forze. Molte delle sue installazioni sono realizzate con materiali trovati e detriti abbandonati che l’artista intesse in delicate composizioni, nelle quali il microscopico e il monumentale sembrano trovare un fragile equilibrio: un’arte precaria, al contempo intima e potente”.

La cerimonia di premiazione si svolgerà il 23 aprile , durante l’inaugurazione della Biennale Arte di Venezia Il Latte dei Sogni.

Hahn/Cock (2013) by Katharina Fritsch on the National Gallery of Art's East Building Roof Terrace; glass fiber reinforced polyester resin fixed on stainless steel supporting structure National Gallery of Art, Washington Gift of Glenstone Foundation Image: National Gallery of Art

Cecilia Vicuña, Skyscraper Quipu (2006), New York, NY image: Cecilia Vicuña