Le monumentali maschere in tessuto di Tau Lewis che mentre incutono timore mettono allegria

Tau Lewis, Vena Cava, 2021 Recycled leather, acrylic paint, coated nylon, steel armature 330 cm × 310 cm × 122 cm All works with the additional support of Stephen Friedman Gallery Thanks to donations to the Canadian Friends Fund of La Biennale, at KBF CANADA 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia

Nata a Toronto nel’93 ma ormai residente a New York , l’artista di origini giamaicano-canadesi Tau Lewis, ultimamente dà vita a delle monumentali maschere fatte di scampoli di tessuto, pelle e pelliccia, che suscitano sentimenti contrastanti. D’altra parte l’opera di Lewis è un’originale fusione di suggestioni che non sembrano nate per stare insieme. Come quando unisce fantascienza, antichi miti, letteratura nigeriana e maschere yoruba alla 59esima Biennale di VeneziaIl latte dei Sogni”.

"Tau Lewis- scrive la guida della Biennale- trasforma tessuti e artefatti di recupero in talismani immaginari ed esseri magici che popolano mondi fantascientifici. "

Le sue maschere, che Lewis, ha creato cucendo a mano stoffa e pelle recuperati nei mercatini dell’usato, giganteggiano sui pannelli bianchi a cui sono appese nelle sale dell’Arsenale. L’effetto è drammatico, vuoi per i colori decisi delle opere, vuoi per i tratti antotropomorfi, per i volti inespressivi, oppure,appunto, per le dimensioni. Chi gli passa accanto non può fare a meno di senire la loro forza e di interrogarsi sul mistero che evocano. Un po’ fanno paura, un po’ simpatia, morbide e cariche di ricordi metropolitani come sono. Tau Lewis, d’altra parte ha detto, che nel riutilizzare merci scartate trasmuta le loro storie ed energie nelle opere. Spesso, nelle interviste, parla anche del "DNA dei materiali". Una sorta di impronta genetica manipolata che incanala storie di ieri, di oggi e domani (del materiale, dell’artista, del suo lavoro) in un unico oggetto.

Lewis ha spiegato anche, che l’uso dei tessuti nelle sue opere, ha a che vedere con il fatto che siano stati più spesso accostati al lavoro femminile e alle pratiche artigianali delle comunità diasporiche.

Secondo la guida della Biennale la sua scultura evoca: "(...) le opere delle trapuntatrici di Gee’s Bend, i quilt di Faith Ringgold, gli assemblage di Betye Saar, e le oniriche 'casette' di Beverly Buchanan (...)".

Ma è anche intessuta di fili di poesia e passione che poco hanno a che fare con la razionalità e con i commenti sociali o politici. Come testimonia il fatto che l’artista, per combattere il sentimento di abbandono che prova quando si separa da un’opera, abbia preso l’abitudine di nascondere qualcosa dentro di essa ( ad esempio un piccolo oggetto o una poesia)

A “Il latte dei Sogni” (a cura di Cecilia Alemani), l’artista presenta una nuova serie intitolata: Divine Giants Tribunal. Coposta da diverse maschere alte 3 metri.

"Ispirandosi alle maschere Yoruba e agli scritti del drammaturgo nigeriano Wole Soyinka, Lewis mette in scena le mitologie mistiche radicate in queste maschere."

Le sculture in tessuto Divine Giants Tribunal di Tau Lewis rimarranno in mostra all’Arsenale fino al 27 novembre quanto si concluderà la 59esima Biennale di Venezia, il Latte dei Sogni. Nella Stessa data finirà anche l’esposizione Black Atlantic, organizzata dal Public Art Fund al Brooklyn Bridge Park di New York, a cui l’artista partecipa però con un lavoro in metallo. Altre monumentali maschere in tessuti riciclati di Tau Lewis, oltre il 27, saranno invece in mostra alla galleria 52 Walker di New York (fino al 3 gennaio 2023), dove la canadese presenta la serie inedita Vox Populi, Vox Dei. Per dare uno sguardo veloce alla sua opera c’è infine il suo account instagram (che Lewis con ironia ha chiamato Apocalypse Tau)

Tau Lewis, Angelus Mortem, 2021 Recycled fur (mink, beaver, fox, rabbit, lamb, and sable), coated nylon, steel armature 330 cm × 355.6 cm × 116.8 cm All works with the additional support of Stephen Friedman Gallery Thanks to donations to the Canadian Friends Fund of La Biennale, at KBF CANADA 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia

Tau Lewis, Angelus Mortem, 2021 Recycled fur (mink, beaver, fox, rabbit, lamb, and sable), coated nylon, steel armature 330 cm × 355.6 cm × 116.8 cm All works with the additional support of Stephen Friedman Gallery Thanks to donations to the Canadian Friends Fund of La Biennale, at KBF CANADA 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia

Tau Lewis, Sol Niger (With my fire, I may destroy everything, by my breath, souls are lifted from putrified earth), 2021 Recycled leather, coated Nylon, steel armature 304.8 cm × 310 cm × 122 cm All works with the additional support of Stephen Friedman Gallery Thanks to donations to the Canadian Friends Fund of La Biennale, at KBF CANADA 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia

Tau Lewis, Sol Niger (With my fire, I may destroy everything, by my breath, souls are lifted from putrified earth), 2021 Recycled leather, coated Nylon, steel armature 304.8 cm × 310 cm × 122 cm All works with the additional support of Stephen Friedman Gallery Thanks to donations to the Canadian Friends Fund of La Biennale, at KBF CANADA 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia

Biennale di Venezia 2022| The Sámi Pavilion, pittura brutale, danze rituali e sculture sospese, il padiglione dei Paesi Nordici parla per la prima volta il sami

Pavilion of NORDIC COUNTRIES, The Sami Pavilion, 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams. Photo by: Marco Cappelletti Courtesy: La Biennale di Venezia

Quest’anno, per la prima volta, i Paesi Nordici (Norvegia, Finlandia e Svezia) hanno ceduto il loro padiglione della Biennale di Venezia al popolo Sami. L’installazione affidata ai tre artisti indigeni Pauliina Feodoroff, Máret Ánne Sara, Anders Sunna si intitola semplicemente The Sámi Pavilion e racconta, sostanzialmente, della difficoltà di mantenere fede a se stessi in un mondo che parla una lingua diversa dalla tua e che, spesso, preferisce far finta di non sentirti. Ma propone anche una prospettiva pacificatoria. Oltre a evocare atmosfere lontane.

I Sami, chiamati erroneamente lapponi, sono l’unica popolazione indigena europea. Occupano una porzione di territorio freddo e vasto che chiamano Sapmi e comprende porzioni di quattro nazioni (Norvegia, Finlandia, Svezia e Russia). Ci sono notizie del loro insediamento fin dal 551 anche se le loro lingue (ne esistono diverse) sono sempre state tramandate oralmente. All’origine erano nomadi. Si dedicavano alla pesca, alla caccia e ad allevare renne. Quest’ultima attività non è venuta meno neppure oggi dopo che hanno smesso di spostarsi. E’ talmente diffusa che tutti e tre gli artisti chiamati a rappresentare i Paesi Nordici hanno familiari che praticano questo mestiere.

Ma allevare renne può non essere per niente facile. I problemi dei Sami sono cominciati con quello che viene definito colonialismo nordico: le loro terre sono state sfruttate mentre i missionari cercavano di convertirli dallo sciamanesimo e dall’animismo che erano le loro tradizionali religioni. La pastorizia nel frattempo è diventata motivo di dissapori. E di cause giudiziarie. Alla base di queste incomprensioni la differenza culturale e la tendenza occidentale a interpretare le dispute con i propri canoni.

The Sámi Pavilion propone “dei modi di guarire, sanare e far rinascere la mentalità Sami oggi” a partire da un modello di curatela molto particolare. Ad occuparsene infatti, è stato un gruppo composto da una studiosa sami (Liisa-Rávná Finbog), dalla direttrice dell'OCA (Office for Contemporary Art Norway) Katya García-Antón e dalla guardiana della terra sami Beaska Niillas. Ma non solo. Seguendo l'usanza Sami di imparare dagli anziani della comunità, gli artisti selezionati hanno anche beneficiato della guida individuale di alcuni di loro.

Nonostante ciò i progetti esposti sono venati d’amarezza, a tratti le opere si fanno persino brutali. Pauliina Feodoroff, Máret Ánne Sara, Anders Sunna, in ogni caso, risolvono il padiglione con equilibrio. Senza che nessuna voce risulti disarmonica. Usando una certa varietà di mezzi espressivi e lasciando respirare i lavori, cullati dalla luce naturale che entra dalle grandi vetrate del padiglione modernista.

Con la performance in tre atti Matriarchy, registrata su video digitali, la regista teatrale Feodoroff parla di deforestazione per sollecitare un cambio di passo. “Il mio lavoro-ha detto- propone modi per proteggere le ultime vecchie foreste rimaste in crescita e lasciare che le aree disboscate abbiano il tempo di guarire. Il nostro messaggio è, per favore, non comprare la nostra terra, compra invece la nostra arte.

Illegal Spirits of Sápmi, dell’unico uomo del gruppo, mette invece insieme tecnica mista, suono e documenti d'archivio, per creare un polittico dolente in cui esperienza personale e di comunità procedono in parallelo. La famiglia di Sunna, infatti, ha una storia di resistenza nei confronti di una legge dello Stato svedese che ha profondamente colpito i pastori. Nel tempo questa disputa si è inasprita “Quando lo stato- spiega il sito del progetto- ha rimosso i segni delle renne Sunna, ereditati da generazioni, trasformandoli in fuorilegge nella loro stessa terra.” Producendo al contempo cumuli di documenti giudiziari e aprendo una ferita insanabile nei protagonisti. L’artista racconta la rabbia e l’impotenza con dei quadri in cui predominano i colori primari e la complessa narrazione scorre con regole proprie, quasi oniriche. L’ultimo l’ha addirittura bruciato.

I toni forti del lavoro di Sunna evaporano nella leggerezza poetica delle sculture di Máret Ánne Sara. Le opere, composte da parti di renne morte di morte naturale (stomaci, tendini, tessuti), piante della tundra essiccate e odori, fluttuano nello spazio come disincarnate. E alludono alla sofferenza ma anche alla memoria, alla cura e ai saperi tradizionali. Oltre ad una spiritualità che non può prescindere dal profondo legame con la natura.

The Sámi Pavilion con le opere di Pauliina Feodoroff, Máret Ánne Sara, Anders Sunna, rimarrà ai Giardini della Biennale di Venezia per tutta la durata della 59. Esposizione Internazionale d’Arte (fino al 27 novembre 2022).

Pavilion of NORDIC COUNTRIES, The Sami Pavilion, 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams. Photo by: Marco Cappelletti Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of NORDIC COUNTRIES, The Sami Pavilion, 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams. Photo by: Marco Cappelletti Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of NORDIC COUNTRIES, The Sami Pavilion, 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams. Photo by: Marco Cappelletti Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of NORDIC COUNTRIES, The Sami Pavilion, 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams. Photo by: Marco Cappelletti Courtesy: La Biennale di Venezia

Biennale di Venezia 2022| "The teaching Tree" il bellissimo mostro di Muhannad Shono per il padiglione Arabia Saudita

Pavilion of SAUDI ARABIA, The Teaching Tree, 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

The Teaching Tree” la scultura cinetica di Muhannad Shono, per il Padilgione Arabia Saudita della 59. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, ha un ché di minaccioso e vibrante. E in effetti l’artista nato a Riyadh voleva dare l’impressione che respirasse. Ma non è affatto mostruosa. Anzi. Composta da centinaia di foglie di palma intrecciate e poi dipinte di nero, sembra fatta di piume.

E’ un’opera enigmatica che affascina e si presta a molte interpretazioni. Parla della forza della Natura, di rinascita, cicli di vita ma soprattutto di una creatività mutevole. Bizzosa ed indipendente, da non sottovalutare, perchè pronta a prendere il sopravvento quando meno te lo aspetti, come un curioso predatore.

Non a caso “The Teaching Tree” parte dall'indagine di Shono sulla linea e sul suo potenziale dicotomico di creazione e distruzione. Che si può sommariamente sintetizzare in inventiva e censura.

The Teaching Tree- ha spiegato l'artista - è una manifestazione dell'irrefrenabile spirito creativo e l'incarnazione di un'immaginazione vivente, che cresce nonostante gli insegnamenti che cercano di abbatterlo. Qualsiasi restrizione alla mente umana crea solo un terreno fertile per forme di espressione più forti e resilienti."

Per idearla, Shono, si è ispirato alla figura di Al-Khidr, chiamato anche 'l’uomo verde'. Stando ad alcune fonti il Profeta stesso gli avrebbe dato questo soprannome: "perché una volta sedeva su una terra arida e bianca, dopo ciò questa terra diventò di un verde lussureggiante di vegetazione". Al-Khidr, appare nel Corano ma è stato poi esportato con una certa fortuna nella letteratura indiana e persiana. Ed è una metafora della ricerca di verità e conoscenza.

Ma Shono ha costruito l’opera anche sulle foglie di palma stesse, che rappresentano il potere traumaturgico e rigenerante della Natura. E poi, nella storia che ci racconta il Padiglione Arabia Saudita, sono il bosco che brucia, il solo capace di innescare una risposta corale forte. Con lieto fine. O così almeno si spera.

"Provano a spostarsi da qualcosa di rigido a qualcosa di fluido- ha detto in un'intervista- È come una foresta dell’immaginazione che viene bruciata dai 'mostri', ma che malgrado la loro volontà diventa un terreno futuro che permette a nuove forme espressive di crescere con più forza".

Tuttavia, nell’opera stessa risiede una forma di forza predatoria. Perchè come ha scritto il critico olandese Nat Muller (che ha collaborato al Padiglione): “Temuti e venerati, i mostri tendono a manifestare forti emozioni. Sono materia di meraviglia, ci disturbano nei nostri sogni e ci perseguitano quando siamo svegli. Si ritiene che appaiano in momenti di transizione (...) Fedele alla forma, il mostro (dal latino monstrum, 'mostrare') funge da presagio (...) I suoi contorni corporei appaiono aberranti e al di fuori del mondo naturale, ma mai così strani da diventare completamente sconosciuti. C'è sempre un po' di noi che risiede ostinatamente nel mostro."

il Padilgione Arabia Saudita di Muhannad Shono, è curato dalla storica dell’arte Reem Fadda. La scultura cinetica “The Teaching Tree”, con la sua ambigua bellezza, continuerà ad occuparlo fino a quando sarà possibile visitare l’intera Biennale di Venezia 2022 (in teoria il 27 novembre ma la maggior parte delle mostre all’Arsenale, compreso appunto questo padiglione, chiuderanno i battenti già il 25 settembre).

Pavilion of SAUDI ARABIA, The Teaching Tree, 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of SAUDI ARABIA, The Teaching Tree, 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of SAUDI ARABIA, The Teaching Tree, 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of SAUDI ARABIA, The Teaching Tree, 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of SAUDI ARABIA, The Teaching Tree, 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia