L’eleganza sfarzosa della neve sull’isola di Hokkaido nelle fotografie di Toshihiko Shibuya al Consolato del Giappone di Milano

Toshihiko Shibuya, Snow Pallet 12. Courtesy: the Artist. © Toshihiko Shibuya

I francesi nel cuore della vecchia Milano sembrano fare di tutto per farsi notare: hanno i militari davanti all’ingresso e un’insegna in ottone con scritto ‘Francia’ a caratteri cubitali. Il Consolato giapponese, letteralmente alla porta accanto, pare aver scelto l’approccio opposto: la targa non si nota quasi mentre si varca la soglia del palazzo discreto ed elegante che li ospita per visitare la mostra di fotografie dell’artista Toshihiko Shibuya.

È una tiepida giornata autunnale quella dell’inaugurazione, in una zona del capoluogo lombardo dove i rappresentanti amministrativi di Paesi europei ed extra-europei abbondano, e Toshihiko Shibuya ha lavorato fin dalla prima mattina per preparare l’esposizione intitolata “Snow Pallet Fotografica” che occuperà l’atrio del Consolato Generale del Giappone fino al 28 di novembre 2025.

Lo spazio non è molto perché gli strumenti necessari ai controlli di sicurezza ne riempiono una gran parte, ma questo non l’ha scoraggiato. Una volta ha detto: “Se l’ambiente è piccolo non è un problema: ci sono tecniche precise di allestimento”. Ed effettivamente la serie di fotografie che documentano e reinterpretano la sua opera più nota, una sorta di saga scultorea minimale con cui da oltre dieci anni a questa parte sottolinea la bellezza transitoria e mutevole dell’inverno nell’estremo nord dell’arcipelago nipponico, conquista questo strano interregno ambiguamente sospeso tra Italia e Giappone in maniera garbata.

Selezionare le immagini dev’essere stata un’impresa titanica vista la mole di materiale accumulatosi nel tempo, ma la cernita ha dato buoni frutti e la stampa arricchisce di sfumature e suggestioni il racconto, congelando istanti fugaci e invitando a guardare più da vicino. Nel dettaglio.

Toshihiko Shibuya, Snow Pallet (particolare dell’installazione). Courtesy: the Artist. © Toshihiko Shibuya

Nato e cresciuto sull’isola di Hokkaido, Toshihiko Shibuya riporta l’incanto di questa terra costiera che dista appena 3,7 chilometri dal confine marittimo con la Russia (e ultimamente ne suggerisce anche la fragilità). In genere, infatti, noi siamo abituati a pensare al Giappone come a un corpo omogeneo mentre l’arcipelago che racchiude è vasto (come una mezza luna allungata punteggiata tutt’attorno da migliaia di minuscole isolette). Il sud ha un clima piuttosto mite anche durante i mesi freddi, mentre il nord è conosciuto per gli sport invernali e le epiche nevicate, con uno sbalzo termico di una decina di gradi tra i due estremi.

È in questo quadro che oltre dieci anni addietro il signor Shibuya mise in scena la prima edizione di “Snow Pallet”. L’idea era quella di rendere visibile a tutti, anche a chi era di corsa o preoccupato, la bellezza quotidiana e prossima della natura, attraverso un intervento minimo da parte dell’artista. Ci riuscì usando dei supporti metallici simili a tavolini o sgabelli a tratti colorati (in genere sotto il piano d’appoggio) con tinte vivaci e zuccherose, capaci di dilatarsi in laghetti dai toni pastello sulla coltre bianca all’accumularsi dei primi fiocchi. L’opera, di cui il signor Shibuya ogni anno ha prodotto almeno una variante (moltiplicando i supporti, variando le altezze degli elementi, cambiando l’ambientazione e l’esposizione alla luce) da allora a oggi, mette in evidenza i volumi, le forme casuali e transitorie create dalle nevicate nel corso della stagione rigida ma nel tempo ha assunto anche la funzione di documentare la trasformazione del clima. Tratteggiando questa narrazione di riferimenti nostalgici, poetici e filosofici (non c’è dubbio che l’antica attitudine orientale ad osservare la volubilità del paesaggio abbia influito), insieme a considerazioni di carattere diverso come una riflessione sul confine che separa architettura e natura, o la ricerca dell’equilibrio tra installazione artistica e contesto.

Toshihiko Shibuya, Snow Pallet 15. Courtesy: the Artist. © Toshihiko Shibuya

A Milano, il signor Shibuya, tuttavia non espone l’opera in sé ma una serie anche piuttosto ristretta di fotografie che la ritraggono. Il che potrebbe scoraggiare chi ha già visto sullo schermo dello smartphone o del computer altre riproduzioni delle installazioni. Stranamente invece le immagini stampate riescono ad alterare il tono della storia quel tanto che basta per modificarla in modo sottile (un po’ come quando si dice la stessa cosa con allegria o serietà). Il messaggio è lo stesso, il soggetto è il medesimo ma i chiaroscuri raffinati restituiti dalle fotografie mentre ombre sobrie ma ben visibili si allungano ai piedi delle sculture o la neve assume forme totemiche, danno un senso di meraviglia completamente diverso all’osservatore. La bellezza minuta della fotografia prende il sopravvento e chi guarda viene guidato verso un istante memorabile all’interno di un lungo processo di trasformazione costante.

Nel contesto del Consolato poi, le opere assumono pure significati diversi da quelli originali che hanno a che fare con il senso d’identità nazionale e personale ma soprattutto su come questi sentimenti si modificano via via che ci allontaniamo da casa. Sulla scoperta dell’alterità e persino sulla globalizzazione.

Snow Pallet Fotografica” distorce un po’ le proporzioni nel momento in cui mette in involontario confronto l’autunno nella Pianura Padana con il rigido inverno di Hokkaido (uno squilibrio a cui una mostra dell’artista alla Gola Gallery di Milano in dicembre porrà rimedio). Poco tempo dopo aver installato la sua piccola personale, mentre il tepore di un pomeriggio soleggiato lasciava il posto a una serata ugualmente mite, Toshihiko Shibuya ha commentato: “Ho sospeso la neve in Consolato”.

Toshihiko Shibuya, Snow Pallet 13. Courtesy: the Artist. © Toshihiko Shibuya

Toshihiko Shibuya, Snow Pallet 4. Courtesy: the Artist. © Toshihiko Shibuya

Toshihiko Shibuya, Snow Pallet 9. Courtesy: the Artist. © Toshihiko Shibuya

Toshihiko Shibuya, Snow Pallet 13. Courtesy: the Artist. © Toshihiko Shibuya

Toshihiko Shibuya, Snow Pallet 2. Courtesy: the Artist. © Toshihiko Shibuya

Due bambine guardano la mostra al Consolato del Giappone di Milano

Toshihiko Shibuya (il primo sulla destra) al Consolato del Giappone di Milano

Psichedelica e bugiarda, la carriera ultrasessantennale di Yayoi Kusama, alla Fondazione Beyeler

Installation view "Yayoi Kusama", Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 Narcissus Garden, 1966/2025 © YAYOI KUSAMA Photo: Matthias Willi

È un gioco di specchi quello che i visitatori della grande retrospettiva di Yayoi Kusama vedono messo in scena nel parco della Fondazione Beyeler di Riehen (Basilea). Ci sono le alte vetrate dell’edificio di Renzo Piano che riflettono i colori delle foglie autunnali, il laghetto e la vastità dei giardini, mentre ai loro piedi l’acqua moltiplica i riverberi e, sopra di essa, le sfere rivestite di metallo che compongono la storica installazione “Narcissus Garden”, galleggiando pigramente, si mostrano a loro volta nel momento in cui assorbono il mondo circostante piegandolo a nuovi miraggi. Tutto è molto stile Kusama: meditativo e onirico, reale però mendace.

Eppure “Narcissus Garden” non è l’opera più psichedelica che l’artista giapponese abbia ideato nella sua lunga carriera (non quanto le zucche almeno), ma anche lei affascina e disorienta un po’ lo spettatore. Di certo produsse questo effetto sui carabinieri quando, nel 1966, chiamati a intervenire alla Biennale di Venezia, dove una giovane partecipante in kimono vendeva sfere specchianti a 1.200 lire l’una, affermarono che non si può «vendere opere d’arte come hot dog o coni gelato». Lei, disorientata, nonostante tutto, lo era molto meno: l’installazione era composta da 1.500 elementi e, se fosse riuscita a venderli tutti, avrebbe messo insieme un bel po’ di soldi, senza contare che l’intervento delle forze dell’ordine attirava la stampa e interessava il pubblico, generando pubblicità gratuita. Anche questo la signora Kusama lo sapeva bene e sarebbe stata una tecnica di marketing estrema di cui avrebbe fatto largo uso durante tutto il suo periodo newyorkese, quando il denaro per lei era un cruccio.

Nonostante oggi, a 96 anni, Yayoi Kusama sia considerata la più importante artista giapponese vivente, capace di muovere folle tanto grandi quanto eterogenee (la scorsa primavera la sua mostra alla National Gallery of Victoria di Melbourne ha distaccato abbondantemente il Gran Premio di Formula 1 per numero di biglietti venduti), cui non a caso la Fondazione Beyeler dedica una corposa retrospettiva che ripercorre una carriera ultrasessantennale (la prima in Svizzera, con oltre 300 opere provenienti da Giappone, Singapore, Paesi Bassi, Germania, Austria, Svezia, Francia e Svizzera), per lei non è sempre stato tutto rose e fiori. Ha anzi dovuto aspettare circa vent’anni perché cominciasse ad essere riconosciuto l’influsso del suo lavoro sulla produzione di famosi colleghi uomini (come Andy Warhol, Claes Oldenburg e Donald Judd), la cui strada lei aveva incrociato.

Anni fa, riguardo ad alcune assonanze delle sue stanze di specchi con quelle del greco-americano Lucas Samaras, ha detto: «Quando le ho viste, la mia reazione è stata: ‘L'ha fatto di nuovo’. Spero che d'ora in poi Lucas segua la strada della creatività e del dolore insiti negli artisti, invece di seguire ciò che ha fatto Kusama».

Installation view «Yayoi Kusama», Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 Infinity Mirrored Room – The Hope of the Polka Dots Buried in Infinity Will Eternally Cover the Universe, 2025 © YAYOI KUSAMA Photo: Mark Niedermann

Nata a Matsumoto (una cittadina ai piedi delle montagne nella prefettura di Nagano) da una famiglia benestante, Yayoi Kusama non ebbe un’infanzia felice. Il padre era un donnaiolo impenitente e la madre, furiosa per le offese e la gelosia, se la prendeva con la figlia minore; più o meno tutte le biografie riportano l’episodio in cui la piccola Yayoi venne mandata a spiare il padre. Così come è noto che, ancora bambina, dovette contribuire allo sforzo bellico del Paese lavorando in una fabbrica di paracaduti, e che l’esperienza non le piacque affatto.

Da questo punto in poi, però, tutto si fa confuso e non perché la signora Kusama si sia dimostrata reticente sull’argomento, anzi. In un articolo del 2012, il giornalista statunitense Arthur Lubow ha scritto: «Kusama racconta versioni diverse della sua vita da così tanto tempo che nessuno, nemmeno lei, può garantire i fatti specifici».

Particolarmente avvolta nel mistero è l’origine della sua malattia mentale. Nella sua autobiografia, pubblicata nei primi anni 2000, la signora Kusama ha fatto risalire le sue prime visioni agli anni della Seconda guerra mondiale, quando un gruppo di violette dal volto umano cominciò a parlarle mentre motivi floreali si propagavano per l’intera stanza. Quando aveva allucinazioni prese l’abitudine di disegnare ciò che le era apparso.

Il significato primigenio e la fonte dei suoi motivi ricorrenti, tuttavia, è di nuovo poco chiaro. Riguardo ai punti che invadono a migliaia, quando non a milioni, quadri e installazioni a sua firma, lei ha parlato di vuoti nello spazio, li ha persino spiegati con il suo desiderio di pace nel mondo e di amore tra le creature, facendone risalire l’intuizione a una delle sue visioni. Ma il gallerista Hidenori Ota, che la rappresenta da tempo, in un’intervista ha affermato: «Sua madre era gelosa e la sua energia si riversava su Kusama-san. La pizzicava forte, e questo le lasciava dei puntini sulla pelle. Kusama-san mi ha detto due volte che era quella l'origine dei puntini».

Sia come sia, su una cosa non ci sono discrepanze: lei la madre non l’ha mai perdonata

Yayoi Kusama, No. N2, 1961 Oil on canvas, 125 x 178 cm, Private collection, deposit YAYOI KUSAMA MUSEUM © YAYOI KUSAMA

Comprensibilmente, la giovane artista, dopo un periodo di studi a Kyoto, se ne andò il più lontano possibile: «Ho lasciato il Giappone — ha detto anni fa — determinata a vivere e morire negli Stati Uniti. Non sarei dovuta tornare in Giappone, nemmeno temporaneamente».

Stavano per iniziare gli anni degli hippy e della controcultura, e la signora Kusama, dopo aver dipinto senza posa in un appartamento freddo e malconcio, li cavalcò inventandosi performance sfacciate e provocatorie chiamate “Orge” (in genere lei se ne stava in disparte, ma in un’occasione venne arrestata). Sempre in quegli anni diede vita alle sculture ricoperte di protuberanze che cuciva lei stessa e alle prime “Infinity Mirrored Room”. Nel frattempo fondò due brand di abbigliamento (uno semplicemente imprimeva i suoi motivi ricorrenti su stoffa, mentre l’altro presentava collezioni bizzarre in cui gli abiti, per esempio, lasciavano scoperti seno o glutei). Continuava ad avere allucinazioni, ma pare che non disdegnasse neppure le visioni indotte dall’LSD. Tuttavia questo non la distoglieva dal lavoro: era abilissima nelle pubbliche relazioni e la sua opera cresceva giorno dopo giorno in qualità e notorietà.

I soldi erano un’altra faccenda; così, quando i suoi genitori, dopo essere venuti a sapere delle performance, decisero di non mandargliene più, se ne tornò in Giappone. Era il 1978, e da allora la signora Kusama ha scelto di vivere in un ospedale psichiatrico. Ha anche un piccolo studio vicino alla clinica, dove tutti i giorni si sposta per dipingere e incontrare i suoi assistenti.

Yayoi Kusama, Infinity Mirrored Room – Illusion Inside the Heart, 2025 Inside view, Mirror-polished stainless steel with glass mirrors and colored acrylic, 300 x 300 x 300 cm, Collection of the artist © YAYOI KUSAMA

L’opera di Yayoi Kusama è stata determinante sia per lo sviluppo della Pop Art sia per quello del Minimalismo, ma non si può dire che questi movimenti abbiano lasciato un segno indelebile in essa. È anzi per sua natura molto intima, più incline a portare dentro di sé il ricordo del Surrealismo (che però usava un linguaggio completamente diverso). L’atmosfera magica e allucinata sembra in qualche modo ispirata a Van Gogh; i puntini richiamano l’Impressionismo e il Divisionismo, ma fanno anche pensare alla griglia luminosa della televisione e ai pixel. Insomma, volendo, i riferimenti alla Storia dell’arte nel lavoro della signora Kusama si sprecherebbero, non fosse che lei ha sempre percorso una strada del tutto singolare e, anche per questo, il pubblico la ama.

Le sue zucche gialle ricoperte da migliaia di pois neri non assomigliano a quelle che i suoi genitori coltivavano nel loro vivaio di Matsumoto, ma si piegano alla visione dell’artista diventando enormi e protettive come caverne, o avvolgenti e vagamente inquietanti come tentacoli, a seconda della necessità. I bambini le adorano e gli appassionati d’arte più alla moda le sfoggiano durante le occasioni speciali, impresse su borse e foulard (la sua collaborazione con il brand Louis Vuitton nel 2013 ha inaugurato una partnership tra artisti e marchi di lusso che negli anni successivi sarebbe diventata un’abitudine). Anche i dipinti dai colori vibranti, spesso in contrasto tra loro ma non tanto da urtare gli occhi, e l’essenzialità compositiva, mettono d’accordo persone per il resto completamente diverse (in Svizzera oltre a quelli della serie "My Eternal Soul" ci sono anche quelli del primo periodo newyorkese e alcuni rari lavori giovanili). Chi vuole farsi un selfie o produrre un contenuto da condividere sui social non riesce a resistere agli ambienti immersivi. Anche se sono le stanze specchianti, con le luci che sembrano moltiplicate all’infinito, a imprimersi nel cuore di tutti indiscriminatamente. La scorsa primavera la National Gallery of Victoria, per permettere a tutti di vedere le “Infinity Mirrored Room della signora Kusama, ha dovuto introdurre un sistema di code e un limite di tempo di 30-40 secondi, tanto era grande la richiesta da parte del pubblico.

La retrospettiva di Yayoi Kusama alla Fondazione Beyeler, curata dal critico indipendente francese Mouna Mekouar insieme alla tedesca associata Charlotte Sarrazin e organizzata in collaborazione con il Museum Ludwig di Colonia e con lo Stedelijk Museum di Amsterdam, resterà aperta fino al 25 gennaio 2026. Inutile dire che si tratta di un successo annunciato.

Installation view "Yayoi Kusama", Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 Narcissus Garden, 1966/2025 © YAYOI KUSAMA Photo: Matthias Willi

Kusama with her installation Narcissus Garden at the 33rd Venice Biennale, 1966 © YAYOI KUSAMA

Installation view «Yayoi Kusama», Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 © YAYOI KUSAMA Photo: Mark Niedermann

Yayoi Kusama, Everything about My Love, 2013from the My Eternal Soul series, 2009–2021, Acrylic on canvas, 194 x 194 cm, Collection of the artist © YAYOI KUSAMA

Yayoi Kusama, Death of My Sorrowful Youth Comes Walking with Resounding Steps, 2017 from the My Eternal Soul series, 2009–2021, Acrylic on canvas, 194 x 194 cm, Collection of the artist © YAYOI KUSAMA

Installation view «Yayoi Kusama», Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 Infinity Mirrored Room – The Hope of the Polka Dots Buried in Infinity Will Eternally Cover the Universe, 2025 © YAYOI KUSAMA Photo: Mark Niedermann

Installation view «Yayoi Kusama», Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 Infinity Mirrored Room – The Hope of the Polka Dots Buried in Infinity Will Eternally Cover the Universe, 2025 © YAYOI KUSAMA Photo: Mark Niedermann

Yayoi Kusama in her studio in New York in 1971 photographed by Tom Haar Photo: Tom Haar © YAYOI KUSAMA

Installation view «Yayoi Kusama», Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 © YAYOI KUSAMA Photo: Mark Niedermann

Yayoi Kusama, Untitled (Chair), 1963. Stuhl, genähter und gefüllter Stoff und Farbe, 81 x 93 x 92 cm, Collection of the artist © YAYOI KUSAMA

Yayoi Kusama, Pumpkin, 1991. Acrylic on canvas, 91 x 116.7 cm, Collection of the artist © YAYOI KUSAMA

KUSAMA with YELLOW TREE / Living Room at the Aichi Triennale, 2010 © YAYOI KUSAMA, Courtesy of Ota Fine Arts, Victoria Miro, David Zwirner

Rigore e caso giocano a dadi nella pittura di Gerhard Richter. Alla Fondation Louis Vuitton di Parigi con una monumentale retrospettiva

 Gerhard Richter, Lesende, 1994 (CR 804) : Gerhard Richter Lesende, 1994 (CR 804) [Femme lisant] Huile sur toile / Oil on canvas 72 x 102 cm Collection San Francisco Museum of Modern Art. Purchase through the gifts of Mimi and Peter Haas and Helen and Charles Schwab, and the Accessions Committee Fund: Barbara and Gerson Bakar, Collectors Forum, Evelyn D. Haas, Elaine McKeon, Byron R. Meyer, Modern Art Council, Christine and Michael Murray, Nancy and Steven Oliver, Leanne B. Roberts, Madeleine H. Russell, Danielle and Brooks Walker, Jr., Phyllis C. Wattis, and Pat and Bill Wilson © Gerhard Richter 2025 (18102025)

E’ il 1966, una giovane donna scende le scale, è nuda, tuttavia la scena non trasmette erotismo (lei sembra anzi molto concentrata a non inciampare durante la discesa nel chiaro scuro della sera), ai lati il dipinto è sfocato fin quasi a dissolversi. L’immagine, infatti, moderata eppure vibrante, ha le caratteristiche e il realismo di un’istantanea ma è un ritratto che Gerhard Richter fece all’allora moglie Marianne Eufinger (detta Ema). L’opera, attualmente in mostra alla Fondation Louis Vuitton di Parigi, che è insieme una prima esplorazione del colore da parte di un artista che fino a quel momento si era dedicato al bianco e nero, un omaggio a Marcel Duchamp e una celebrazione della gravidanza appena scoperta di Ema, oltre cinquant’anni dopo sarebbe stata al centro di un film, lo avrebbe fatto stringere amicizia e poi litigare con un regista premio-oscar e avrebbe riportato alla luce uno scherzo del destino, oltre ad una tragedia familiare sepolta.

D’altra parte la biografia del signor Richter è piena di drammi. Così come il caso (che lo ha portato dalle miserie del Nazismo a quelle del Comunismo, dall’essere un rispettabile insegnante d’Accademia a uno degli uomini più ricchi della Germania), sembra avervi avuto un ruolo. Lui, l’intervento di eventi fortuiti, lo ha spesso cercato durante il suo lavoro, ma sul fatto che da anni sia considerato come uno degli artisti più influenti a livello mondiale, il fato nulla ha potuto. Quella è stata una questione di talento, disciplina e dedizione incrollabile.

Gerhard Richter, che adesso ha 93 anni, ne sta dando prova per l’ennesima volta alla Fondation Louis Vuitton di Parigi, dove dallo scorso 17 aprile è in corso una sua monumentale mostra personale. Descritta dal museo come una “retrospettiva eccezionale, senza pari sia per dimensioni che per ampiezza cronologica” conta un totale di 257 opere tra dipinti a olio, sculture in vetro e acciaio, disegni a matita e inchiostro, acquerelli e fotografie sovradipinte datate dal ’62 in avanti. Come già quella dedicata a David Hockney la scorsa primavera, l’esposizione, occupa interamente le undici gallerie dell’edificio progettato dall’archistar canadese-americano, Frank Gehry (le sale in totale sono invece 34) e comprende pezzi cardine della sua carriera ultra sessantennale, arrivati apposta da musei e istituzioni in tutto il mondo (non c’è tutto quel che ha prodotto, ma quasi).

La retrospettiva curata da Sir Nicholas Serota (attuale presidente dell'Arts Council England ed ex direttore della Tate Modern di Londra dove aveva già organizzato una mostra del signor Richter) in collaborazione con lo svizzero Dieter Schwarz (che è invece reputato il maggior esperto della sua opera) è stata definita “uno spettacolo di elettrizzante genialità” dal critico Adrian Searle su The Guardian e prosegue la serie di “mostre monografiche epocali- ha invece scritto la fondazione stessa- dedicate a figure di spicco dell'arte del XX e XXI secolo, tra cui Jean-Michel Basquiat, Joan Mitchell, Mark Rothko e David Hockney”.

Per quanto il signor Richter abbia smesso di dipingere nel 2017 (in merito a questa scelta, sebbene rilasci rare interviste, ha fatto varie dichiarazioni come: “Avevo detto che a 88 anni avrei smesso di dipingere e così ho fatto”; anche se sono state la difficoltà del processo con l’avanzare dell’età a motivarlo), non ha mai abbandonato il lavoro. Da allora prevalentemente disegna ma si dedica pure ad altri media meno impegnativi dal punto di vista fisico della pittura. Il gallerista David Zwirner (attuale rappresentante del signor Richter dopo la chiacchierata rottura con la sua storica mercante newyorkese, Marian Goodman), che ospita nella sua sede parigina una personale dell’artista tedesco proprio in parallelo alla retrospettiva al Bois de Boulogne, ha detto: “C'è un'aura enorme attorno a lui a livello internazionale, ma poi lo incontri in studio e lo vedi semplicemente seduto in una stanza, a creare qualcosa dal nulla. È molto umile. È un uomo straordinariamente serio e umile". Anche le opere più recenti sono in mostra alla Fondation Louis Vuitton.

Gerhard Richter, Venedig (Treppe) [Venezia (staircase)], 1985 (CR 586-3) Gerhard Richter, Venedig (Treppe) [Venezia (staircase)], 1985 (CR 586-3) Oil on canvas, 51,4 x 71,8 cm The Art Institute of Chicago. Gift of Edlis Neeson Collection © Gerhard Richter 2025 (18102025)

Il signor Richter, che non dipinge mai direttamente il soggetto rappresentato ma lo filtra attraverso una fotografia o un disegno (gli schizzi sono sempre suoi, mentre le fotografie a volte sono state scattate da lui altre provengono da fonti varie, come riviste o quotidiani, tanto che anni fa le ordinò e le usò per comporre un atlante visivo), nel tempo ha esplorato tutti i generi pittorici tradizionali: ritratto, occasionalmente autoritratto, paesaggio, natura morta, dipinti storici e rappresentazioni religiose. Ha anche adottato uno stile eterogeneo durante il medesimo corso (che è stato descritto come “una rottura di stile come principio stilistico”): pittura in bianco e nero o a colori, composizioni freddamente iperrealiste o romanticamente evocative, astrattismo informale o concreto. Per poi ritornare sull’uno o sull’altro metodo a scadenza ciclica. Dal punto di vista tecnico a farlo conoscere sono state le sfocature (in pratica, prima copiava un soggetto con la massima ricchezza di sfumature, chiaroscuri e dettagli, dopo, mentre il colore era ancora fresco, vi passava sopra un pennello pulito e piatto spostando letteralmente parti dell’immagine qua e là) che in seguito avrebbe eseguito più visceralmente con raschietti di varie dimensioni. Tanto che si può dire che buona parte di quanto sia possibile fare con la pittura lui l’abbia fatto.

Gerhard Richter, Ema (Akt auf einer Treppe) [Ema (Nude on a Staircase)], 1966 (CR 134) Gerhard Richter, Ema (Akt auf einer Treppe) [Ema (Nude on a Staircase)], 1966 (CR 134) Oil on canvas, 200 x 130 cm Museum Ludwig, Cologne / Donation Ludwig Collection 1976 © Gerhard Richter 2025 (18102025)

Gerhard Richter è nato a Dresda (in quella che in seguito sarebbe diventata la Germania dell’Est) il 9 febbraio del ’32, figlio di un insegnante e di una libraia che suonava il piano per passione. Quando era ancora un bambino il padre (che non aveva mai espresso apprezzamento per il nazionalsocialismo ma in quanto impiegato pubblico aveva dovuto tesserarsi) partì per il fronte e il piccolo Gerhard insieme a quel che rimaneva della famiglia si trasferì in campagna. Per quanto la guerra da dove stava apparisse lontana, il dolore che portava con sé non mancò di travolgerlo: due suoi zii morirono al fronte (negli anni ’90 dichiarò di sentire ancora le urla delle donne dopo averlo saputo; uno di loro il signor Richter lo avrebbe poi dipinto in bianco e nero con la sua divisa militare e un sorriso goffamente dolce stampato in volto) e la sorella di sua madre a cui era stata diagnosticata la schizofrenia venne prima sterilizzata e poi “letteralmente lasciata morire di fame” in un ospedale psichiatrico parte di un programma di omicidio medico nazista (avrebbe poi ritratto pure lei: giovanissima, quasi una bambina, con Gerhard neonato in braccio, nel quadro appare bella e sorridente ma il suo sguardo sfuggente di fronte all’obbiettivo e le sfocature che ne cancellano parte del volto, fa percepire una vaga ed inquietante cupezza incombente all’osservatore). Il padre dopo la guerra, invece, tornò a casa, ma come reduce del terzo reich non potè più fare l’insegnante (in seguito si sarebbe suicidato).

La famiglia era molto più povera di prima e i Comunisti esercitavano attraverso la Stasi un controllo opprimente sulla vita di chiunque. Il signor Richter frequentò l’accademia di Belle Arti di Dresda, si fidanzò e poi sposò con la figlia di uno stimato ginecologo, Marianne Eufinger (Ema, appunto). Per un po' visse a casa dei genitori di lei, e in quel periodo ritrasse il suocero, ma quando cominciarono a costruire il muro lui e la moglie scapparono ad ovest. Il signor Richter portò con sé solo delle foto di una famiglia che non avrebbe mai più rivisto e che alcuni anni dopo gli sarebbero servite per dipingere gran parte delle opere ora esposte a Parigi nella Prima Galleria.  

Gerhard Richter, Onkel Rudi [Uncle Rudi], 1965 (CR 85)  Gerhard Richter, Onkel Rudi [Uncle Rudi], 1965 (CR 85) Huile sur toile, 87 x 50 cm Collection Lidice Memorial, Czech Republic © Gerhard Richter 2025 (18102025)

In Occidente frequentò Accademia d'arte di Düsseldorf e più avanti vi insegnò. Il matrimonio con Ema finì e lui si risposò. Nel frattempo il suo nome era sempre più conosciuto e le quotazioni delle sue opere esplosero. Proprio mentre il mercato gli si inchinava (all’asta il suo lavoro in genere arriva alle decine di milioni) incontrò quella che sarebbe diventata la sua terza moglie.

Nei primi anni duemila un giornalista investigativo del quotidiano berlinese, Tagesspiegel, si interessò della storia personale del Signor Richter e scoprì il tragico destino di sua zia Marianne, ma anche che il suo primo suocero era stato tra i responsabili del programma di sterilizzazione forzata cui venne sottoposta. Lui non ne sapeva niente.

Nel 2019 tutta questa vicenda, che fino ad allora era stata dibattuta nella sola Germania, attirò l’attenzione del mondo intero, quando un regista hollywoodiano di origine tedesca (rimasto particolarmente colpito dal ritratto di Ema) presentò un film ad essa ispirato. Il signor Richter che si è sempre sforzato di proteggere la propria vita privata si arrabbiò moltissimo.

 Série Birkenau de Gerhard Richter lors de l'exposition "Gerhard Richter. Neupräsentation im Albertinum" en 2015 Vue d'installation de la série Birkenau de Gerhard Richter lors de l'exposition "Gerhard Richter. Neupräsentation im Albertinum", de février à septembre 2015 à la Staatliche Kunstsammlungen Dresden Gerhard Richter Birkenau, 2014 Huile sur toile / Oil on canvas 260 x 200 cm chacun / each Neue Nationalgalerie, Stiftung Preußischer Kulturbesitz, Berlin, prêt de la / loan from Gerhard Richter Art Foundation Photographe : David Brandt © Gerhard Richter 2025 (18102025)

Nonostante lui abbia spesso tratto ispirazione da fatti d’attualità destinati a passare alla Storia (ha, ad esempio, effigiato i volti delle otto infermiere uccise dal serial killer Richard Speck e l’attacco alle torri gemelle) quando non dalla Storia stessa, una serie di quattro opere in particolare appartenenti a questo filone è considerata un capolavoro indiscusso. Intitolato “Birkenau”, il ciclo del 2014, riproduce alcune fotografie che un prigioniero era riuscito a scattare all’interno del campo di sterminio di Auschwitz. E lo fa in stile iperrealista con pittura ad olio in bianco e nero minuziosamente applicata. Tuttavia, noi non possiamo vedere l’abilità dell’artista, perché il signor Richter dopo è intervenuto sui dipinti finiti: li ha coperti con numerosi strati di pigmento, che a tratti ha spostato con i raschietti e dipinto ancora, trasformandoli in composizioni astratte. Così gli orrori storici impressi sulla tela come gli eventi che catturano sono vivi sotto la superficie ma celati agli occhi del presente.

Esposti prima in Germania, poi in Inghilterra e in occasione della retrospettiva dell'artista al Metropolitan Museum of Art di New York nel 2020, i dipinti di Birkenau sono attualmente nella Galleria 10 insieme ad altri capolavori astratti dello stesso periodo.

La retrospettiva dedicata all’opera di Gerhard Richter alla Fondation Louis Vuitton tuttavia non si limita a questo: ci sono paesaggi che riattualizzano e smorzano le emozioni forti dei romantici tedeschi; una serie di ritratti in bianco e nero di personaggi illustri (“48 Ritratti”) con cui ha rappresentato la Germania alla Biennale di Venezia del 1972 (il Leone d’oro alla carriera gli è stato invece assegnato nel 2003); una galleria è dedicata interamente ai lavori su carta; un’altra ricostruisce la storia della realizzazione della vetrata composta da “11.500 quadrati di vetro antico soffiato a bocca in 72 colori diversi” accostati casualmente, che ha creato per il Duomo di Colonia (città in cui vive).  L’esposizione resterà a Parigi fino al 2 marzo 2026.

Gerhard Richter, Gudrun, 1987 (CR 633) Gerhard Richter, Gudrun, 1987 (CR 633) Oil on canvas, 250 x 250 cm Fondation Louis Vuitton, Paris © Gerhard Richter 2025 (18102025)

Gerhard Richter, Kerze [Candle], 1982 (CR 511-1) Gerhard Richter, Kerze [Candle], 1982 (CR 511-1) Oil on canvas, 95 x 90 cm Collection Institut d'art contemporain, Villeurbanne/Rhône-Alpesm © Gerhard Richter 2025 (18102025)

Gerhard Richter, Gegenüberstellung 2, 1988 (CR 671-2) : Gerhard Richter Gegenüberstellung 2, 1988 (CR 671-2) [Confrontation 2] Huile sur toile / Oil on canvas 112 x 102 cm The Museum of Modern Art, New York. The Sidney and Harriet Janis Collection, gift of Philip Johnson, and acquired through the Lillie P. Bliss Bequest (all by exchange); Enid A. Haupt Fund; Nina and Gordon Bunshaft Bequest Fund; and gift of Emily Rauh Pulitzer, 1995 © Gerhard Richter 2025 (18102025)

Gerhard Richter, Verkündigung nach Tizian, 1973 (CR 343-1) Gerhard Richter Verkündigung nach Tizian, 1973 (CR 343-1) [Annonciation d’après le Titien] Huile sur toile / Oil on canvas 125 x 200 cm Hirshhorn Museum and Sculpture Garden, Smithsonian Institution, Washington DC, Joseph H. Hirshhorn Purchase Fund, 1994 © Gerhard Richter 2025 (18102025)

Gerhard Richter, Birkenau, 2014 (CR 937-4) Gerhard Richter Birkenau, 2014 (CR 937-4) Huile sur toile / Oil on canvas 260 x 200 cm Neue Nationalgalerie, Stiftung Preußischer Kulturbesitz, Berlin, prêt de la / loan from Gerhard Richter Art Foundation © Gerhard Richter 2025 (18102025)

Gerhard Richter, Apfelbäume [Appletree], 1987 (CR 650-1) Gerhard Richter, Apfelbäume [Appletree], 1987 (CR 650-1) Oil on canvas, 67 x 92 cm Private collection © Gerhard Richter 2025 (18102025)

Gerhard Richter, Strip, 2011 (CR 921-2) Gerhard Richter Strip, 2011 (CR 921-2) Impression numérique sur papier entre aluminium et Perspex (Diasec) / Digital print on paper between aluminium and Perspex (Diasec) 200 x 440 cm Fondation Louis Vuitton, Paris Photographe : Louis Bourjac © Gerhard Richter 2025 (18102025)

 Gerhard Richter, Selbstportrait, 1996 (CR 836-1) Gerhard Richter Selbstportrait, 1996 (CR 836-1) [Autoportrait] Huile sur lin / Oil on linen 51 x 46 cm The Museum of Modern Art, New York. Gift of Jo Carole and Ronald S. Lauder and Committee on Painting and Sculpture Funds, 1996 © Gerhard Richter 2025 (18102025)