Psichedelica e bugiarda, la carriera ultrasessantennale di Yayoi Kusama, alla Fondazione Beyeler

Installation view "Yayoi Kusama", Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 Narcissus Garden, 1966/2025 © YAYOI KUSAMA Photo: Matthias Willi

È un gioco di specchi quello che i visitatori della grande retrospettiva di Yayoi Kusama vedono messo in scena nel parco della Fondazione Beyeler di Riehen (Basilea). Ci sono le alte vetrate dell’edificio di Renzo Piano che riflettono i colori delle foglie autunnali, il laghetto e la vastità dei giardini, mentre ai loro piedi l’acqua moltiplica i riverberi e, sopra di essa, le sfere rivestite di metallo che compongono la storica installazione “Narcissus Garden”, galleggiando pigramente, si mostrano a loro volta nel momento in cui assorbono il mondo circostante piegandolo a nuovi miraggi. Tutto è molto stile Kusama: meditativo e onirico, reale però mendace.

Eppure “Narcissus Garden” non è l’opera più psichedelica che l’artista giapponese abbia ideato nella sua lunga carriera (non quanto le zucche almeno), ma anche lei affascina e disorienta un po’ lo spettatore. Di certo produsse questo effetto sui carabinieri quando, nel 1966, chiamati a intervenire alla Biennale di Venezia, dove una giovane partecipante in kimono vendeva sfere specchianti a 1.200 lire l’una, affermarono che non si può «vendere opere d’arte come hot dog o coni gelato». Lei, disorientata, nonostante tutto, lo era molto meno: l’installazione era composta da 1.500 elementi e, se fosse riuscita a venderli tutti, avrebbe messo insieme un bel po’ di soldi, senza contare che l’intervento delle forze dell’ordine attirava la stampa e interessava il pubblico, generando pubblicità gratuita. Anche questo la signora Kusama lo sapeva bene e sarebbe stata una tecnica di marketing estrema di cui avrebbe fatto largo uso durante tutto il suo periodo newyorkese, quando il denaro per lei era un cruccio.

Nonostante oggi, a 96 anni, Yayoi Kusama sia considerata la più importante artista giapponese vivente, capace di muovere folle tanto grandi quanto eterogenee (la scorsa primavera la sua mostra alla National Gallery of Victoria di Melbourne ha distaccato abbondantemente il Gran Premio di Formula 1 per numero di biglietti venduti), cui non a caso la Fondazione Beyeler dedica una corposa retrospettiva che ripercorre una carriera ultrasessantennale (la prima in Svizzera, con oltre 300 opere provenienti da Giappone, Singapore, Paesi Bassi, Germania, Austria, Svezia, Francia e Svizzera), per lei non è sempre stato tutto rose e fiori. Ha anzi dovuto aspettare circa vent’anni perché cominciasse ad essere riconosciuto l’influsso del suo lavoro sulla produzione di famosi colleghi uomini (come Andy Warhol, Claes Oldenburg e Donald Judd), la cui strada lei aveva incrociato.

Anni fa, riguardo ad alcune assonanze delle sue stanze di specchi con quelle del greco-americano Lucas Samaras, ha detto: «Quando le ho viste, la mia reazione è stata: ‘L'ha fatto di nuovo’. Spero che d'ora in poi Lucas segua la strada della creatività e del dolore insiti negli artisti, invece di seguire ciò che ha fatto Kusama».

Installation view «Yayoi Kusama», Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 Infinity Mirrored Room – The Hope of the Polka Dots Buried in Infinity Will Eternally Cover the Universe, 2025 © YAYOI KUSAMA Photo: Mark Niedermann

Nata a Matsumoto (una cittadina ai piedi delle montagne nella prefettura di Nagano) da una famiglia benestante, Yayoi Kusama non ebbe un’infanzia felice. Il padre era un donnaiolo impenitente e la madre, furiosa per le offese e la gelosia, se la prendeva con la figlia minore; più o meno tutte le biografie riportano l’episodio in cui la piccola Yayoi venne mandata a spiare il padre. Così come è noto che, ancora bambina, dovette contribuire allo sforzo bellico del Paese lavorando in una fabbrica di paracaduti, e che l’esperienza non le piacque affatto.

Da questo punto in poi, però, tutto si fa confuso e non perché la signora Kusama si sia dimostrata reticente sull’argomento, anzi. In un articolo del 2012, il giornalista statunitense Arthur Lubow ha scritto: «Kusama racconta versioni diverse della sua vita da così tanto tempo che nessuno, nemmeno lei, può garantire i fatti specifici».

Particolarmente avvolta nel mistero è l’origine della sua malattia mentale. Nella sua autobiografia, pubblicata nei primi anni 2000, la signora Kusama ha fatto risalire le sue prime visioni agli anni della Seconda guerra mondiale, quando un gruppo di violette dal volto umano cominciò a parlarle mentre motivi floreali si propagavano per l’intera stanza. Quando aveva allucinazioni prese l’abitudine di disegnare ciò che le era apparso.

Il significato primigenio e la fonte dei suoi motivi ricorrenti, tuttavia, è di nuovo poco chiaro. Riguardo ai punti che invadono a migliaia, quando non a milioni, quadri e installazioni a sua firma, lei ha parlato di vuoti nello spazio, li ha persino spiegati con il suo desiderio di pace nel mondo e di amore tra le creature, facendone risalire l’intuizione a una delle sue visioni. Ma il gallerista Hidenori Ota, che la rappresenta da tempo, in un’intervista ha affermato: «Sua madre era gelosa e la sua energia si riversava su Kusama-san. La pizzicava forte, e questo le lasciava dei puntini sulla pelle. Kusama-san mi ha detto due volte che era quella l'origine dei puntini».

Sia come sia, su una cosa non ci sono discrepanze: lei la madre non l’ha mai perdonata

Yayoi Kusama, No. N2, 1961 Oil on canvas, 125 x 178 cm, Private collection, deposit YAYOI KUSAMA MUSEUM © YAYOI KUSAMA

Comprensibilmente, la giovane artista, dopo un periodo di studi a Kyoto, se ne andò il più lontano possibile: «Ho lasciato il Giappone — ha detto anni fa — determinata a vivere e morire negli Stati Uniti. Non sarei dovuta tornare in Giappone, nemmeno temporaneamente».

Stavano per iniziare gli anni degli hippy e della controcultura, e la signora Kusama, dopo aver dipinto senza posa in un appartamento freddo e malconcio, li cavalcò inventandosi performance sfacciate e provocatorie chiamate “Orge” (in genere lei se ne stava in disparte, ma in un’occasione venne arrestata). Sempre in quegli anni diede vita alle sculture ricoperte di protuberanze che cuciva lei stessa e alle prime “Infinity Mirrored Room”. Nel frattempo fondò due brand di abbigliamento (uno semplicemente imprimeva i suoi motivi ricorrenti su stoffa, mentre l’altro presentava collezioni bizzarre in cui gli abiti, per esempio, lasciavano scoperti seno o glutei). Continuava ad avere allucinazioni, ma pare che non disdegnasse neppure le visioni indotte dall’LSD. Tuttavia questo non la distoglieva dal lavoro: era abilissima nelle pubbliche relazioni e la sua opera cresceva giorno dopo giorno in qualità e notorietà.

I soldi erano un’altra faccenda; così, quando i suoi genitori, dopo essere venuti a sapere delle performance, decisero di non mandargliene più, se ne tornò in Giappone. Era il 1978, e da allora la signora Kusama ha scelto di vivere in un ospedale psichiatrico. Ha anche un piccolo studio vicino alla clinica, dove tutti i giorni si sposta per dipingere e incontrare i suoi assistenti.

Yayoi Kusama, Infinity Mirrored Room – Illusion Inside the Heart, 2025 Inside view, Mirror-polished stainless steel with glass mirrors and colored acrylic, 300 x 300 x 300 cm, Collection of the artist © YAYOI KUSAMA

L’opera di Yayoi Kusama è stata determinante sia per lo sviluppo della Pop Art sia per quello del Minimalismo, ma non si può dire che questi movimenti abbiano lasciato un segno indelebile in essa. È anzi per sua natura molto intima, più incline a portare dentro di sé il ricordo del Surrealismo (che però usava un linguaggio completamente diverso). L’atmosfera magica e allucinata sembra in qualche modo ispirata a Van Gogh; i puntini richiamano l’Impressionismo e il Divisionismo, ma fanno anche pensare alla griglia luminosa della televisione e ai pixel. Insomma, volendo, i riferimenti alla Storia dell’arte nel lavoro della signora Kusama si sprecherebbero, non fosse che lei ha sempre percorso una strada del tutto singolare e, anche per questo, il pubblico la ama.

Le sue zucche gialle ricoperte da migliaia di pois neri non assomigliano a quelle che i suoi genitori coltivavano nel loro vivaio di Matsumoto, ma si piegano alla visione dell’artista diventando enormi e protettive come caverne, o avvolgenti e vagamente inquietanti come tentacoli, a seconda della necessità. I bambini le adorano e gli appassionati d’arte più alla moda le sfoggiano durante le occasioni speciali, impresse su borse e foulard (la sua collaborazione con il brand Louis Vuitton nel 2013 ha inaugurato una partnership tra artisti e marchi di lusso che negli anni successivi sarebbe diventata un’abitudine). Anche i dipinti dai colori vibranti, spesso in contrasto tra loro ma non tanto da urtare gli occhi, e l’essenzialità compositiva, mettono d’accordo persone per il resto completamente diverse (in Svizzera oltre a quelli della serie "My Eternal Soul" ci sono anche quelli del primo periodo newyorkese e alcuni rari lavori giovanili). Chi vuole farsi un selfie o produrre un contenuto da condividere sui social non riesce a resistere agli ambienti immersivi. Anche se sono le stanze specchianti, con le luci che sembrano moltiplicate all’infinito, a imprimersi nel cuore di tutti indiscriminatamente. La scorsa primavera la National Gallery of Victoria, per permettere a tutti di vedere le “Infinity Mirrored Room della signora Kusama, ha dovuto introdurre un sistema di code e un limite di tempo di 30-40 secondi, tanto era grande la richiesta da parte del pubblico.

La retrospettiva di Yayoi Kusama alla Fondazione Beyeler, curata dal critico indipendente francese Mouna Mekouar insieme alla tedesca associata Charlotte Sarrazin e organizzata in collaborazione con il Museum Ludwig di Colonia e con lo Stedelijk Museum di Amsterdam, resterà aperta fino al 25 gennaio 2026. Inutile dire che si tratta di un successo annunciato.

Installation view "Yayoi Kusama", Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 Narcissus Garden, 1966/2025 © YAYOI KUSAMA Photo: Matthias Willi

Kusama with her installation Narcissus Garden at the 33rd Venice Biennale, 1966 © YAYOI KUSAMA

Installation view «Yayoi Kusama», Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 © YAYOI KUSAMA Photo: Mark Niedermann

Yayoi Kusama, Everything about My Love, 2013from the My Eternal Soul series, 2009–2021, Acrylic on canvas, 194 x 194 cm, Collection of the artist © YAYOI KUSAMA

Yayoi Kusama, Death of My Sorrowful Youth Comes Walking with Resounding Steps, 2017 from the My Eternal Soul series, 2009–2021, Acrylic on canvas, 194 x 194 cm, Collection of the artist © YAYOI KUSAMA

Installation view «Yayoi Kusama», Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 Infinity Mirrored Room – The Hope of the Polka Dots Buried in Infinity Will Eternally Cover the Universe, 2025 © YAYOI KUSAMA Photo: Mark Niedermann

Installation view «Yayoi Kusama», Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 Infinity Mirrored Room – The Hope of the Polka Dots Buried in Infinity Will Eternally Cover the Universe, 2025 © YAYOI KUSAMA Photo: Mark Niedermann

Yayoi Kusama in her studio in New York in 1971 photographed by Tom Haar Photo: Tom Haar © YAYOI KUSAMA

Installation view «Yayoi Kusama», Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 © YAYOI KUSAMA Photo: Mark Niedermann

Yayoi Kusama, Untitled (Chair), 1963. Stuhl, genähter und gefüllter Stoff und Farbe, 81 x 93 x 92 cm, Collection of the artist © YAYOI KUSAMA

Yayoi Kusama, Pumpkin, 1991. Acrylic on canvas, 91 x 116.7 cm, Collection of the artist © YAYOI KUSAMA

KUSAMA with YELLOW TREE / Living Room at the Aichi Triennale, 2010 © YAYOI KUSAMA, Courtesy of Ota Fine Arts, Victoria Miro, David Zwirner

I settant’anni del grande Thomas Schütte in tre mostre:

Installation view of Thomas Schütte, on view at The Museum of Modern Art, New York from September 29, 2024 through January 18, 2025. Photo: Jonathan Dorado.

Nell’estate del 1972, Thomas Schütte, che allora aveva 17 anni ed era in procinto di scegliere cosa avrebbe fatto da grande, visitò due volte di fila Documenta (un’importante manifestazione d’arte contemporanea che si tiene a scadenza quadriennale nella cittadina di Kassel, in Germania) e rimase folgorato. Aveva preso la sua decisione. In seguito disse: “A Kassel, ho visto per la prima volta tutta la varietà di possibilità nel mondo dell'arte”. Ed oggi, tanti anni dopo, quegli orizzonti sconfinati di opzioni, fatte le debite proporzioni, sono diventati la cifra distintiva dell’opera di Schütte. Amata e odiata per una eterogeneità che contribuisce a renderla difficile da cogliere a pieno. Che ne fa anzi un universo misterioso, non necessariamente benevolo, a tratti imperscrutabile.

Ma un luogo in cui vale la pena entrare e che va celebrato. Lo ha fatto lui stesso aprendo un museo di 700 metri quadri nei pressi di Düsseldorf (città in cui vive e lavora) che ha anche disegnato (inaugurato nel 2016 espone pure altri artisti). Lo ha fatto la Biennale di Venezia, che, già nel 2005, gli ha conferito il Leone d’Oro. E in occasione del suo settantesimo compleanno (che cade il 16 del mese prossimo) lo stanno facendo alcuni tra i più prestigiosi musei del mondo.

La Beyeler Foundation di Riehen (Basilea) ha inserito il suo lavoro nella collettiva “Daughter of Freedom” (che propone un riallestimento di modernisti e contemporanei di loro proprietà) destinando alla scultura del tedesco una sala dedicata. Ma soprattutto lo ha fatto il Museum of Modern Art di New York (il famoso MoMa) con una retrospettiva che ripercorre cinquant’anni di carriera di Thomas Schütte attraverso sculture, disegni, stampe, esperimenti di architettura e che occupa l’intero sesto piano dell’edificio. Organizzata da Paulina Pobocha (curatrice senior di Robert Soros presso l'Hammer Museum di Los Angeles ed ex curatrice associata del MoMA) e da Caitlin Chaisson (assistente curatrice del Dipartimento di pittura e scultura del MoMA), è la sua prima mostra nella Grande Mela da oltre vent’anni.

La prossima primavera, invece, sarà la volta del Museo di Punta della Dogana a Venezia. Anche in questo caso si tratterà di un grande show con opere che dagli esordi porteranno ai giorni nostri.

Installation view of Thomas Schütte, on view at The Museum of Modern Art, New York from September 29, 2024 through January 18, 2025. Photo: Jonathan Dorado.

Nato nel ’54 ad Oldemburg (una cittadina a nord-est della Germania), Thomas Schütte, non ha vissuto il periodo della guerra, se non attraverso i racconti degli altri. Il padre (come tutti i tedeschi del resto) aveva combattuto per Hitler e, secondo quanto riportato dal figlio, forse perché tenente, alla fine del conflitto era stato deportato in Unione Sovietica dove aveva scontato una pena di 5 anni ai lavori forzati, ma non ne aveva mai voluto parlare. Mentre è stato testimone diretto degli anni delle due germanie e di quelli del crollo del muro di Berlino. Intorno la metà degli anni ’70 frequentò l’Accademia d'arte di Düsseldorf che, in quel periodo, contava tra i propri insegnanti il pittore Gerhard Richter (oggi ha 92 anni ed è considerato uno dei più grandi artisti della nostra epoca), oltre ai coniugi Bernd e Hilla Becher, pionieri della fotografia concettuale. Tra gli altri studenti, invece, c’erano nomi che negli anni successivi tutti avrebbero imparato a conoscere (come: Katharina Fritsch, Isa Genzken, Andreas Gursky e Thomas Struth). Schütte si avvicinò molto a Richter mentre cercava la sua strada, ma guardò anche ad altri, come all’americano Richard Serra (la cui opera aveva avuto occasione di vedere dal vivo).

A quel tempo si fece notare per l’acume concettuale. Ne è un’esempio “Amerika”: un grande supporto bianco, su cui l’artista, con forza e precisione, ha tracciato migliaia di segni di grafite fino a renderlo quasi completamente nero (il nome dell’opera fa riferimento alle matite a basso costo con cui era stato eseguito il disegno, ma anche al fatto che con i soldi guadagnati da un eventuale vendita sarebbe andato negli Stati Uniti). Ma anche “Große Mauer” (“Large Wall”, 1977), cioè un’opera composta da piccole tele astratte affiancate in maniera da farle sembrare un muro di mattoni. Per realizzare questo pezzo che cita diversi movimenti artistici, Schütte, che nell’estate di quell’anno stava lavorando in una residenza per anziani, aveva esplorato tutti i cantieri e gli edifici abbandonati della zona per riprodurne i colori. I riquadri (tanto per fare un dispetto ai minimalisti con la loro ossessione per l’ordine) erano appesi un po’storti.

Installation view of Thomas Schütte, on view at The Museum of Modern Art, New York from September 29, 2024 through January 18, 2025. Photo: Jonathan Dorado

Ad ogni modo, Schütte, che già allora dava l’impressione di essere un bastian contrario (la curatrice Lynne Cooke, che ha lavorato con lui più volte ha recentemente affermato: “Thomas è un arcicontrario. Se dici sinistra, lui dirà destra”), non voleva ripercorrere i passi di Richter ma neppure dedicarsi all’Arte Concettuale o al Minimalismo (ai tempi in gran voga).

Sarebbe poi diventato famoso per una rilettura espressionista e del tutto personale della scultura classica. Anche se in un certo periodo era stato ossessionato dai piani orizzontali; fissazione curata dall’amore per l’architettura, che si sarebbe tradotto in modelli e veri e propri edifici. Al Moma ci sono tanti esempi di questo filone del suo lavoro, compreso una sorta di rifugio antiatomico a grandezza naturale dall’aria inquietante e inospitale (“Schutzraum” in inglese “Shelter” che significa, proprio, riparo; 1986).

Le sue più note sculture, invece, (sovente figure umane dai volti caricaturali o abbozzati) sono animate da un’inquietudine costante che si riflette nelle forme caotiche e dinamiche. a momenti sul punto di liquefarsi, mentre i personaggi effigiati osservano coi loro occhi vuoti chi gli passa di fronte. Schütte usa i materiali classici della scultura (acciaio, ceramica laccata, persino bronzo), il più delle volte rievocando i monumenti degli antichi o statuette e busti commemorativi che nei secoli passati finivano nelle case della gente. Naturalmente però, il suo approccio all’opera è opposto: i soggetti sono frutto di innesti tra la storia dell’arte, la tradizione farsesca, la scenografia cinematografica, i teatri dei burattini e persino i reperti conservati in formalina nei musei di storia naturale.

Thomas Schütte. United Enemies, 1994. Two figures of modeling clay, fabric, string, and wood on plastic pedestal with glass bell jar. 74 × 9 13/16 × 9 13/16″ (188 × 25 × 25 cm). De Pont Museum, Tilburg, Netherlands. Photo: Peter Cox. © 2024 Thomas Schütte / Artists Rights Society (ARS), New York / VG Bild-Kunst, Bonn

Un esempio piuttosto chiaro del suo punto di vista sulla scultura monumentale, ce lo da’ “Zeichnung für Alain Colas” (“Disegno per Alain Colas” del 1989). Alain Colas era un velista francese che tentò di attraversare l’Atlantico da solo in motoscafo, l’aveva già fatto e, primo al mondo, era arrivato in America, ma quella volta qualcosa andò storto e né lui né la sua barca vennero mai ritrovati. Era il 16 novembre del 1978, il giorno del compleanno di Schütte. Una decina di anni dopo, Clamecy (città natale di Colas), chiese proprio all’artista tedesco un monumento per commemorare la scomparsa del velista. E lui progettò un busto figurativo su un alto basamento, da ancorare alla baia come fosse una boa, perché ogni giorno l’alta marea lo sommergesse. Ovviamente l’opera non sarebbe mai stata realizzata.

All’inizio degli anni ’90 Schütte venne in Italia; era stato ammesso a una residenza riservata agli artisti tedeschi a Villa Massimo a Roma. Fu per lui l’occasione di vedere le sculture degli antichi, che lo ispirarono. Così nacquero gli “United Enemies”, una serie di sculture in teche di vetro, in cui compaiono due figure in argilla legate l’una all’altra con volti caricaturali affiancati e corpi composti da ritagli di vestiti e altri materiali di recupero. Il susseguirsi di personaggi della serie regala all’opera una dimensione narrativa che fa pensare al cinema: primo amore di Schütte (prima di iscriversi al corso d’arte all’università, aveva preso in considerazione solo quello di cinema, di cui sarebbe rimasto un appassionato spettatore). “United Enemies”, tuttavia, ha una carica trasgressiva che travalica tutto questo. Un critico ci vide le due germanie finamente riunite, e per nulla felici di esserlo. Schütte non si trovò d’accordo. D’altra parte, pare che lui raramente condivida un’interpretazione. E poi i protagonisti delle sue opere sono riflessi di un’ansia, situata in uno spazio e in un tempo indefinito, che in definitiva ognuno può leggere a modo proprio.

Il critico d’arte statunitense Blake Gopnik, in un recente articolo ha scritto (riferendosi a varie sculture del tedesco): “Tali opere rappresentano un ripudio della tradizione modernista in cui Schütte era stato istruito. Rappresentano anche l'intransigenza che è tipica dello Schütte classico”.

Schütte stesso, invece, ha detto: “Cerco di vedere una cosa da cinque punti di vista e continuo a muovermi, lavorando attorno a un punto centrale. Ma cosa sia non lo so. Non appena lo definisci, è finito”.

Daughter of Freedom”, con la sua saletta di sole sculture di Schütte, rimarrà alla Beyeler Foundation fino al 5 gennaio. La grande retrospettiva del Moma si chiuderà più tardi (il 18 gennaio 2025). Mentre la mostra che Punta della Dogana di Venezia dedicherà a Thomas Schütte si inaugurerà il 6 aprile per concludersi il 23 novembre del 2025.

Thomas Schütte. Vater Staat (Father State), 2010 (detail). Patinated bronze. 149 5/8 × 61 × 55″ (380 × 155 × 139.7 cm). Collection Anne Dias Griffin Photo: Steven E. Gross. © 2024 Thomas Schütte / Artists Rights Society (ARS), New York / VG Bild-Kunst, Bonn

nstallation view of Thomas Schütte, on view at The Museum of Modern Art, New York from September 29, 2024 through January 18, 2025. Photo: Jonathan Dorado.

Thomas Schütte. Bronzefrau Nr. 17 (Bronze Woman No. 17), 2006. Patinated bronze on steel table. 80 3/8 × 49 1/4 × 98 1/2″ (204 × 125 × 250 cm). The Art Institute of Chicago. Through prior gifts or bequests of Leo S. Guthman, Fowler McCormick, Albert A. Robin, Marguerita S. Ritman, Emily Crane Chadbourne, Florence S. McCormick, and Judith Neisser; purchased with funds provided by Per Skarstedt; 20th Century Purchase and Robert and Marlene Baumgarten funds. Photo: The Art Institute of Chicago / Art Resource, New York. © 2024 Thomas Schütte / Artists Rights Society (ARS), New York / VG Bild-Kunst, Bonn

Installation view of Thomas Schütte, on view at The Museum of Modern Art, New York from September 29, 2024 through January 18, 2025. Photo: Jonathan Dorado.

Thomas Schütte. Selbstportrait. 30/31.5.75 (Self-portrait: 5/30–31/75), 1975. Oil on nettle cloth. 23 5/8 × 17 11/16″ (60 × 45 cm). Collection the artist, Düsseldorf. Photo: Luise Heuter © 2024 Artists Rights Society (ARS), New York / VG Bild-Kunst, Bonn. © 2024 Thomas Schütte / Artists Rights Society (ARS), New York / VG Bild-Kunst, Bonn

“Dance with Daemons” alla Fondazione Beyeler, per dormire su un letto-robot di Höller con gli occhi al firmamento dell’arte contemporanea

INSTALLATION VIEW Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2024 Philippe Parreno, Membrane, 2023, cybernetic structure with sensorimotor capabilities and generative language processing; courtesy of the artist © Philippe Parreno; Fujiko Nakaya, Untitled, 2024, Potable water, 600 Meefog nozzles, High pressure pump motor system, Courtesy of the artist, © Fujiko Nakaya photo: Mark Niedermann

Fino all’11 agosto i visitatori della Fondazione Beyeler di Riehen (a una manciata di chilometri da Basilea, nella Svizzera tedesca) avranno la possibilità di vedere un museo del tutto trasformato, all’interno di un’esposizione temporanea concepita come “un organismo vivente” che si “evolve e muta nel tempo”. E poi potranno dormire in un’opera dell’artista tedesco Carsten Höller che, insieme al giovane (ma già molto affermato) scienziato Adam Haar, com’è sua abitudine, coglierà l’occasione per studiarli. Perché nell’opera “Dream Hotel Room 1: Dreaming Flying with Flying Fly Agarics” il letto del pubblico è un robot che rileva l’attività onirica delle persone e si muove di conseguenza.

L’esposizione, realizzata in collaborazione con la Luma Foundation di Zurigo, ha un titolo grintoso ed evocativo come “Dance with Daemons”, che ben si adatta ai concerti di musica elettronica che si terranno nel parco del museo per celebrare ed ammirare i tramonti d’estate con la giusta atmosfera. Ma soprattutto, sperimentale e (a suo modo) egualitaria, la mostra mette insieme un firmamento di stelle dell’arte contemporanea ma anche di molti altri campi. Gli organizzatori hanno, infatti, chiamato un gruppo di artisti e curatori (Sam Keller, Mouna Mekouar, Isabela Mora, Hans Ulrich Obrist, Precious Okoyomon, Philippe Parreno e Tino Sehgal) che, oltre ad ideare l’esposizione, a loro volta hanno chiesto di partecipare ad artisti, poeti, architetti, designer, musicisti, compositori, filosofi e ricercatori. “A tutti loro- ha scritto la fondazione svizzera- è stata data licenza di trasformare gli spazi della Fondation Beyeler, siano essi le sale, i giardini, le terrazze, ma anche gli ambienti non convenzionali come la biglietteria, la ‘green room’, lo shop, il foyer e il giardino d’inverno. Per il pubblico è un’opportunità imperdibile di riscoprire in modo inaspettato le sale espositive esistenti e di esplorare le aree meno abituali del museo”.

L’elenco completo comprende trenta nomi di diverse nazionalità (anche se sono molti gli statunitensi e diversi i francesi) e discipline (ma tutti almeno un po’ famosi, alcuni molto). Ci sono: l’artista britannico- keniota, Michael Armitage, la poetessa statunitense, Anne Boyer, il filosofo italiano, Federico Campagna, l’artista statunitense, Ian Cheng, il musicista e poeta statunitense, Chuquimamani-Condor, il musicista statunitense di origine indigena, Joshua Chuquimia Crampton, la pittrice sudafricana, Marlene Dumas, l’architetto messicana, Frida Escobedo, l’artista svizzero, Peter Fischli, l’artista francese, Cyprien Gaillard, il pittore rumeno, Victor Man, l’artista francese, Dominique Gonzalez-Foerster, l’artista statunitense, Wade Guyton, , Carsten Höller con Adam Haar appunto, l’artista francese, Pierre Huyghe, l’artista e cineasta statunitense, Arthur Jafa, l’artista coreana, Koo Jeong A (che quest’anno rappresenta la Corea alla Biennale di Venezia), l’artista statunitense, Dozie Kanu, l’artista brasiliano, Cildo Meireles, l’artista brasiliano, Jota Mombaça, l’artista giapponese, Fujiko Nakaya, la poetessa statunitense, Alice Notley, l’artista e poetessa nigeriano-americana, Precious Okoyomon, l’artista francese, Philippe Parreno, l’artista statunitense, Rachel Rose, l’artista tedesco- indiano, Tino Sehgal, l’artista di origine tailandese ed argentina (ora vive tra NYC, Berlino e Chiangmai), Rirkrit Tiravanija, l’artista franco-marocchino, Ramdane Touhami e lo sculture argentino, Adrián Villar Rojas.

Ad ogni modo gli ideatori, probabilmente prendendo spunto dalla struttura della scorsa edizione di Documenta (lì è stato un mezzo disastro, ma si trattava di collettivi del sud del mondo animati da uno spirito piuttosto sessantottino), hanno deciso di puntare sullo “scambio interdisciplinare e la responsabilità collettiva”. In sostanza si sono consultati a vicenda ma nell’ottica di un’organizzazione orizzontale.

Insieme hanno scelto di costruire la mostra come “un organismo vivente”, cioè di lavorare su un palinsesto dinamico. Sia nel senso che in ogni fase si si sono consultati tra loro, sia che l’hanno riempita con un ricco programma di eventi (mostre, momenti sociali, performance, concerti, letture di poesie, conferenze e attività svolte in comune), che non sono paralleli all’esposizione ma parte di essa e cambiano a seconda dell’ora del giorno in cui si entri nella Beyeler Foundation.

Una proposta dinamica più che statica- hanno spiegato con un linguaggio tutt’altro che chiaro, Parreno e Okoyomon- un progetto ontologico che si evolve e riflette la complessità e molteplicità insite nell’incontro di voci artistiche differenti sotto uno stesso tetto”.

Per tutta la durata dell’esposizione l’artista tedesco Carsten Höller presenterà “Dream Bed”, il suo ultimo progetto realizzato in collaborazione con lo scienziato cognitivo esperto di sonno e sogni, Adam Haar (co-inventore del dispositivo Dormio e della tecnica Targeted Dream Incubation che aiuta le persone a modificare i propri sogni, sta attualmente costruendo strumenti per il trattamento degli incubi). L’opera, che per esteso si chiama “Dream Hotel Room 1: Dreaming Flying with Flying Fly Agarics”, è una camera d’hotel posta all’interno del museo svizzero in cui i visitatori potranno schiacciare un pisolino durante il giorno al prezzo del biglietto, oppure dove potranno trascorrere un’intera notte di sonno (tra il venerdì e il sabato). Chi deciderà di provare l’opera di Höller diventerà, come sempre accade nel suo lavoro, una cavia da laboratorio. Il “Dream bed”, infatti, è un letto-robot che si muove in sincronia con l’attività onirica di chi lo usa, capace di rilevare i sogni attraverso sensori nel materasso (che misurano la frequenza cardiaca, la respirazione e i movimenti). Inoltre, quando l’ospite dell’opera sarà sul punto di addormentarsi o di svegliarsi, sopra la sua testa comincerà a ruotare la riproduzione di un fungo dai riflessi rossi.

Per dormire per davvero nella stanza con letto- robot di Höller bisogna prenotare online. I prezzi dovrebbero essere variabili per adattarsi a tutte le tasche ma, a parte la notte destinata agli studenti (già prenotata), non si possono dire molto abbordabili (mentre questo articolo viene redatto la camera è in vendita tra i 600 e i 2mila franchi svizzeri). Tuttavia, a pochi giorni dell’inaugurazione, oltre la metà delle date disponibili sono già andate esaurite.

Dance with Daemons” alla Beyeler Foundation di Riehen (Basilea) è stata inaugurata il 19 maggio scorso e durerà fino all’11 agosto 2024. “Nel corso della sua durata- promettono gli organizzatori- la mostra di gruppo interdisciplinare si evolverà e cambierà, proprio come un organismo vivente”. Di certo l’esposizione si trasformerà drasticamente, in seguito, quando verrà presentata ad Arles e in altre sedi della Luma Foundation.

INSTALLATION VIEW Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2024 © Gerhard Richter; Marlene Dumas; 2024, ProLitteris, Zurich photo: Mark Niedermann

INSTALLATION VIEW Wade Guyton, Untitled, 2023-24, Twenty-six paintings, all Epson UltraChrome HDX inkjet on linen Each painting: 213.4 x 175.3 cm Installation view photo: Courtesy der Künstler

INSTALLATION VIEW Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2024 Thomas Schütte, Hase, 2013, Patinated bronze; Fujiko Nakaya, Untitled, 2024, Potable water, 600 Meefog nozzles, High pressure pump motor system, Courtesy of the artist © 2024, ProLitteris, Zurich photo: Mark Niedermann

INSTALLATION VIEW Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2024 © Roni Horn; Josef Albers and Anni Albers Foundation; Mondrian/Holtzman Trust c/o HCR International Warrenton, VA USA; Ellsworth Kelly; 2024, ProLitteris, Zurich Photo: Mark Niedermann

INSTALLATION VIEW Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2024 Dominique Gonzalez-Foerster, Untitled (nuage), 2024, LED screen, courtesy of the artist © Dominique Gonzalez-Foerster photo: Mark Niedermann

RACHEL ROSE, WHAT TIME IS HEAVEN, 2024 © Rachel Rose

INSTALLATION VIEW Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2024 Adrián Villar Rojas, The End of Imagination VI, 2024, live simulations of active digital ecologies, and layered composites of organic, inorganic, human and machine-made matter, courtesy the artist © Adrián Villar Rojas photo: Mark Niedermann

INSTALLATION VIEW Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2024 Philippe Parreno, Membrane, 2023, cybernetic structure with sensorimotor capabilities and generative language processing; courtesy of the artist © Philippe Parreno; Fujiko Nakaya, Untitled, 2024, Potable water, 600 Meefog nozzles, High pressure pump motor system, Courtesy of the artist, © Fujiko Nakaya photo: Mark Niedermann