La grande ed attesa retrospettiva di Jack Whitten al Moma sta per concludersi. Ma quando sarà possibile ammirare le sue opere in Europa?

“9.11.01” installato in una sala del Moma. Installation view of Jack Whitten: The Messenger, on view at The Museum of Modern Art, New York, from March 23 through August 2, 2025. Photo: Jonathan Dorado.

L’ 11 settembre del 2001, Jack Whitten era di fronte al suo palazzo a Lispenard (nel quartiere di Tribeca a New York), che aveva ristrutturato da solo dopo un incendio e che stava vendendo. Era alle prese con i pompieri e una fuga di gas, quando un aereo basso e dalla traiettoria instabile sfrecciò sopra la sua testa. Quel giorno insieme a loro c’era anche un uomo con una telecamera, che stava girando un documentario sui vigili del fuoco, così, quando tutti alzarono gli occhi al cielo e videro il primo aereo schiantarsi sul World Trade Center (poco lontano), il signor Whitten rimase nell’inquadratura che venne trasmessa nei notiziari di tutto il mondo. In seguito, tutto ciò che caratterizza quelle iniziali immagini dell’attacco (il cielo di porcellana, i riflessi di vetro e acciaio nella luce viva di fine estate, le ombre scure, il fumo, le fiamme, la polvere, il nero della tragedia) confluirono nel suo maestoso “9.11.01”. Tre metri per sei di dipinto, realizzato a mosaico con tessere di colore acrilico tagliate e riassemblate a mano, oltre ad altri materiali improbabili e pionieristici (come ceneri dell’attentato stesso e sangue).

Adesso “9.11.01” è esposto insieme ad altre oltre 175 opere dell’artista afroamericano allo Steven and Alexandra Cohen Center for Special Exhibitions del Museum of Modern Art di New York. La mostra, intitolata “Jack Whitten: the Messenger”, si dipana tra gli esordi (negli anni ’60) fin quasi alla sua morte (arriva al 2010 mentre il signor Whitten è mancato nel 2018). Presentando, oltre ai dipinti, anche sculture, lavori su carta e materiali d’archivio. Quella del Moma è la prima retrospettiva importante a lui dedicata ed era davvero molto attesa. Tanto che il New York Times l’ha inserita nell’elenco delle migliori mostre del 2025 (secondo loro undici in tutto, comprese quelle di Caravaggio, Caspar David Friedrich e Piet Mondrian).

9.11.01” è uno dei capolavori dell’esposizione. Del resto l’evento lo colpì talmente che, quando venne a sapere che i pompieri con cui aveva parlato alla mattina (poi corsi sul luogo del disastro) erano sopravvissuti, scoppiò a piangere. Tuttavia quello non è stato l’unico cambiamento epocale a cui aveva assistito nella sua non lunghissima vita.

Jack Whitten. Atopolis: For Édouard Glissant. 2014. Acrylic on canvas, 8 panels, overall 124 1/2 × 248 1/2″ (316.2 × 631.2 cm). The Museum of Modern Art, New York. Acquired through the generosity of Sid R. Bass, Lonti Ebers, Agnes Gund, Henry and Marie-Josée Kravis, Jerry Speyer and Katherine Farley, and Daniel and Brett Sundheim. © 2025 The Museum of Modern Art, New York, Photo by Jonathan Muzikar.

Nato nel ’39 a Bessemer in Alabama, proprio nel cuore del sud segregazionista degli Stati Uniti di allora, Jack Whitten, ebbe modo di vedere fin troppe violenze ed ingiustizie durante l’infanzia. In merito ha, ad esempio, raccontato: “Per tutto il liceo e le medie (scuole con insegnanti di colore e alunni di colore ndr), quando ci portavano in gita scolastica, non ci portavano mai al museo perché era off-limits per i neri. Ci portavano alle acciaierie e alle miniere di carbone, ma mai ai musei”. Oppure: “in Alabama, l'estate era calda, umida, disgustosamente calda. Una delle cose più difficili per noi bambini era passare davanti alla piscina, di proprietà comunale, pagata con i soldi dei contribuenti, e vedere ragazzi bianchi che nuotavano, mentre noi non potevamo entrare. Era dura. Era dura. Persino il parco pubblico (la piccola area ombreggiata con gli alberi, con una fontana al centro) potevamo attraversarlo a piedi, ma non ci si poteva sedere all’ombra e Dio non voglia che si andasse alla fontana”.

Forse per questo, dopo essersi iscritto a medicina nel college di Tuskegee in Alabama (in quel periodo aveva anche sentito parlare Marthin Luther King) e aver lasciato per studiare arte alla Southern University di Baton Rouge in Luisiana (entrambe università per soli neri), fu tra gli organizzatori di una delle prime marce per i diritti civili degli afroamericani. Evento che, avrebbe detto in seguito, per lui fu uno spartiacque: “Per me c’è stato un prima e un dopo”. Infatti, nonostante credesse fermamente nelle proteste non violente, l’atteggiamento della gente che aveva assistito a quella manifestazione era stato talmente aggressivo (“buttavano di tutto dalle finestre-ha ricordato una volta- la gente imprecava, ti picchiava”) da spingerlo a tagliare i ponti con il passato e trasferirsi a New York (dove continuò i suoi studi d’arte alla Cooper Union; un’università finalmente rivolta a tutti).

Lì il signor Whitten, prima da studente e poi da giovane esordiente, fece di tutto per mantenersi (dal manovale all’insegnante) mentre frequentava jazz clubs ed entrava in contatto con la vivace scena artistica newyorkese degli anni ’60 (tra gli altri conobbe: Wayne Thiebaud, Andy Wharol, che non gli era simpatico, Roy Lichtenstein, che invece stimava, e poi gli astrattisti della prima generazione come Willem de Kooning, Franz Kline, Barney Newman e Mark Rotko, oltre ai neri Romare Bearden, Jacob Lawrence e Norman Lewis; anni dopo avrebbe frequentato anche altri artisti molto diversi da lui come Jean Michael Basquiat, Nam June Paik e David Hockney).

Jack Whitten. Birmingham 1964. 1964. Aluminum foil, newsprint, stocking and oil on board, 16 5/8 x 16″ (42.2 x 40.6 cm). Collection of Joel Wachs. © Photo by John Berens, Courtesy the Jack Whitten Estate and Hauser & Wirth.

Stilisticamente (dopo l’amore per il Rinascimento italiano), sulle prime coltivò soprattutto l’affinità con Gorky e de Kooning. Faceva cose che lui stesso ha descritto come “un espressionismo figurativo astratto”, ma non ci mise molto a dedicarsi completamente all’astrattismo. Il suo però era un linguaggio diverso da quello dei suoi predecessori bianchi o neri che fossero, pionieristico e sperimentale. Sempre artigianale, perché credeva nella “trasmigrazione dello spirito” dall’artista alla materia. Caratterizzato da una ricerca incessante sui colori e gli strumenti, che a livello concettuale si tingeva di mille sfaccettature (tante quante i suoi interessi; che andavano dalla scienza, alla tecnologia, alla letteratura, alla filosofia, fino all’attualità e alla musica, in particolare il Jazz).

Il Moma nel presentare la sua mostra ha scritto: è “una storia rivelatrice dell'esplorazione dell'artista su razza, tecnologia, jazz, amore e guerra”.

Ma non ebbe vita facile: gli altri gli facevano pressione affinchè abbracciasse la figurazione come forma di attivismo. Però non desistette. Anzi, praticamente ad ogni decennio d’attività del signor Whitten, corrisponde una nuova tecnica (ma sempre astratta). Usava ogni volta l’acrilico di cui divenne un esperto (allora erano colori utilizzati in arte da poco tempo).

Detail of Jack Whitten. Four Wheel Drive. 1970. Acrylic on canvas, 98 1/4 × 98 1/4″ (249.6 × 249.6 cm). Private collection. © Jack Whitten Estate. Courtesy the Estate and Hauser & Wirth, Photo by Genevieve Hanson.

Negli anni ’70 stendeva spessi strati di pittura che sovrapponeva; in alcune colate ritardava più o meno l’asciugatura delle vernici; e poi con un grande strumento a T (che si era fatto da solo) raschiava tutto in un unico gesto. Si trattava di un processo immediato, tuttavia, lui disponeva strategicamente sotto la tela oggetti dalla diversa grana, forma e peso, in modo da controllare la quantità di pigmento che sarebbe stata portata via in un punto o nell’altro.

Ma Jack Whitten era anche capace di fare colori da zero usando polveri di ogni tipo e un legante acrilico. A volte mischiava tutto con un mixer da cucina, altre stendeva strani prodotti concepiti per usi industriali che non permettevano a niente di attaccarsi.

Detail of Jack Whitten. Atopolis: For Édouard Glissant. 2014. Acrylic on canvas, 8 panels, overall 124 1/2 × 248 1/2″ (316.2 × 631.2 cm). The Museum of Modern Art, New York. Acquired through the generosity of Sid R. Bass, Lonti Ebers, Agnes Gund, Henry and Marie-Josée Kravis, Jerry Speyer and Katherine Farley, and Daniel and Brett Sundheim. © 2025 The Museum of Modern Art, New York, Photo by Jonathan Muzikar.

Sua moglie era di origine greca e, durante un viaggio nelle isole elleniche in cui lei cercava le proprie radici e lui un albero che aveva visto in sogno, scoprì i mosaici. Per tutti gli anni ’90 ne avrebbe fatti incessantemente, usando però tessere di colore acrilico invece che di pietra (spesso per frantumarlo meglio prima lo congelava, se doveva riutilizzare le rimanenze lo polverizzava con un mortaio). Le sue tessere, disposte in modi sempre diversi, a volte richiamano dei pixel, altre frazioni di materia, altre un caos armonico, altre ancora costellazioni.

Aveva un debole per i memoriali, che dedicò a persone di colore ma anche bianche, o più raramente ad eventi storici (è il caso di “9.11.01”).

Jack Whitten. The Afro American Thunderbolt. 1983/1984. Black mulberry wood with copper plate and nails, 25 × 9 × 10″ (63.5 × 22.9 × 25.4 cm). Jack Whitten Estate. Courtesy the Estate and Hauser & Wirth. © Jack Whitten Estate. Courtesy the Estate and Hauser & Wirth, Photo by Genevieve Hanson.

Nel frattempo, quando durante l’estate si trasferiva nello studio che aveva comprato a Creta (dopo quel primo viaggio in cui erano approdati proprio lì, e dove lui aveva davvero trovato l’albero del suo sogno, la famiglia Whitten aveva continuato ad andarci), creava sculture che coniugavano l’arte dell’antico Mediterraneo a quella africana, oltre a servirsi di materiali bizzarri (come vecchi chip per computer).

Per quanto Jack Whitten abbia influenzato artisti molto noti in Europa, ha una storia espositiva principalmente centrata negli Stati Uniti e non sembra che la cosa sia destinata a cambiare a breve. La grande retrospettiva a lui dedicata, “Jack Whitten: the Messenger”, curata da Michelle Kuo (curatrice capo ed editor del Dipartimento di pittura e scultura) al Moma di New York, si concluderà il 2 agosto 2025.

Jack Whitten. Siberian Salt Grinder. 1974. Acrylic on canvas, 6’8″ x 50″ (203.2 x 127 cm). The Museum of Modern Art, New York. Nina and Gordon Bunshaft Fund and The Friends of Education of The Museum of Modern Art. © 2025 The Museum of Modern Art, New York, Photo by John Wronn.


Jack Whitten. Mirsinaki Blue. 1974. Acrylic on canvas, 62 1/8 × 72 1/8″ (157.8 × 183.2 cm). Collection of the Herbert F. Johnson Museum of Art, Cornell University. Gift of Leonard and Ruth Bocour. © 2024 Herbert F. Johnson Museum of Art, Cornell University.

Jack Whitten. Liquid Space I. 1976. Acrylic slip on paper, 20 5/8 x 20 5/8″ (52.4 x 52.4 cm). The Museum of Modern Art, New York. Purchased with funds provided by Dian Woodner in honor of The Friends of Education of The Museum of Modern Art. © 2025 The Museum of Modern Art, New York, Photo by Peter Butler.

Installation view of Jack Whitten: The Messenger, on view at The Museum of Modern Art, New York, from March 23 through August 2, 2025. Photo: Jonathan Dorado.

Installation view of Jack Whitten: The Messenger, on view at The Museum of Modern Art, New York, from March 23 through August 2, 2025. Photo: Jonathan Dorado.

Portrait of Jack Whitten with Pink Psyche Queen (1973), ca. 1975 © Jack Whitten Estate. Courtesy the Estate and Hauser & Wirth.

I settant’anni del grande Thomas Schütte in tre mostre:

Installation view of Thomas Schütte, on view at The Museum of Modern Art, New York from September 29, 2024 through January 18, 2025. Photo: Jonathan Dorado.

Nell’estate del 1972, Thomas Schütte, che allora aveva 17 anni ed era in procinto di scegliere cosa avrebbe fatto da grande, visitò due volte di fila Documenta (un’importante manifestazione d’arte contemporanea che si tiene a scadenza quadriennale nella cittadina di Kassel, in Germania) e rimase folgorato. Aveva preso la sua decisione. In seguito disse: “A Kassel, ho visto per la prima volta tutta la varietà di possibilità nel mondo dell'arte”. Ed oggi, tanti anni dopo, quegli orizzonti sconfinati di opzioni, fatte le debite proporzioni, sono diventati la cifra distintiva dell’opera di Schütte. Amata e odiata per una eterogeneità che contribuisce a renderla difficile da cogliere a pieno. Che ne fa anzi un universo misterioso, non necessariamente benevolo, a tratti imperscrutabile.

Ma un luogo in cui vale la pena entrare e che va celebrato. Lo ha fatto lui stesso aprendo un museo di 700 metri quadri nei pressi di Düsseldorf (città in cui vive e lavora) che ha anche disegnato (inaugurato nel 2016 espone pure altri artisti). Lo ha fatto la Biennale di Venezia, che, già nel 2005, gli ha conferito il Leone d’Oro. E in occasione del suo settantesimo compleanno (che cade il 16 del mese prossimo) lo stanno facendo alcuni tra i più prestigiosi musei del mondo.

La Beyeler Foundation di Riehen (Basilea) ha inserito il suo lavoro nella collettiva “Daughter of Freedom” (che propone un riallestimento di modernisti e contemporanei di loro proprietà) destinando alla scultura del tedesco una sala dedicata. Ma soprattutto lo ha fatto il Museum of Modern Art di New York (il famoso MoMa) con una retrospettiva che ripercorre cinquant’anni di carriera di Thomas Schütte attraverso sculture, disegni, stampe, esperimenti di architettura e che occupa l’intero sesto piano dell’edificio. Organizzata da Paulina Pobocha (curatrice senior di Robert Soros presso l'Hammer Museum di Los Angeles ed ex curatrice associata del MoMA) e da Caitlin Chaisson (assistente curatrice del Dipartimento di pittura e scultura del MoMA), è la sua prima mostra nella Grande Mela da oltre vent’anni.

La prossima primavera, invece, sarà la volta del Museo di Punta della Dogana a Venezia. Anche in questo caso si tratterà di un grande show con opere che dagli esordi porteranno ai giorni nostri.

Installation view of Thomas Schütte, on view at The Museum of Modern Art, New York from September 29, 2024 through January 18, 2025. Photo: Jonathan Dorado.

Nato nel ’54 ad Oldemburg (una cittadina a nord-est della Germania), Thomas Schütte, non ha vissuto il periodo della guerra, se non attraverso i racconti degli altri. Il padre (come tutti i tedeschi del resto) aveva combattuto per Hitler e, secondo quanto riportato dal figlio, forse perché tenente, alla fine del conflitto era stato deportato in Unione Sovietica dove aveva scontato una pena di 5 anni ai lavori forzati, ma non ne aveva mai voluto parlare. Mentre è stato testimone diretto degli anni delle due germanie e di quelli del crollo del muro di Berlino. Intorno la metà degli anni ’70 frequentò l’Accademia d'arte di Düsseldorf che, in quel periodo, contava tra i propri insegnanti il pittore Gerhard Richter (oggi ha 92 anni ed è considerato uno dei più grandi artisti della nostra epoca), oltre ai coniugi Bernd e Hilla Becher, pionieri della fotografia concettuale. Tra gli altri studenti, invece, c’erano nomi che negli anni successivi tutti avrebbero imparato a conoscere (come: Katharina Fritsch, Isa Genzken, Andreas Gursky e Thomas Struth). Schütte si avvicinò molto a Richter mentre cercava la sua strada, ma guardò anche ad altri, come all’americano Richard Serra (la cui opera aveva avuto occasione di vedere dal vivo).

A quel tempo si fece notare per l’acume concettuale. Ne è un’esempio “Amerika”: un grande supporto bianco, su cui l’artista, con forza e precisione, ha tracciato migliaia di segni di grafite fino a renderlo quasi completamente nero (il nome dell’opera fa riferimento alle matite a basso costo con cui era stato eseguito il disegno, ma anche al fatto che con i soldi guadagnati da un eventuale vendita sarebbe andato negli Stati Uniti). Ma anche “Große Mauer” (“Large Wall”, 1977), cioè un’opera composta da piccole tele astratte affiancate in maniera da farle sembrare un muro di mattoni. Per realizzare questo pezzo che cita diversi movimenti artistici, Schütte, che nell’estate di quell’anno stava lavorando in una residenza per anziani, aveva esplorato tutti i cantieri e gli edifici abbandonati della zona per riprodurne i colori. I riquadri (tanto per fare un dispetto ai minimalisti con la loro ossessione per l’ordine) erano appesi un po’storti.

Installation view of Thomas Schütte, on view at The Museum of Modern Art, New York from September 29, 2024 through January 18, 2025. Photo: Jonathan Dorado

Ad ogni modo, Schütte, che già allora dava l’impressione di essere un bastian contrario (la curatrice Lynne Cooke, che ha lavorato con lui più volte ha recentemente affermato: “Thomas è un arcicontrario. Se dici sinistra, lui dirà destra”), non voleva ripercorrere i passi di Richter ma neppure dedicarsi all’Arte Concettuale o al Minimalismo (ai tempi in gran voga).

Sarebbe poi diventato famoso per una rilettura espressionista e del tutto personale della scultura classica. Anche se in un certo periodo era stato ossessionato dai piani orizzontali; fissazione curata dall’amore per l’architettura, che si sarebbe tradotto in modelli e veri e propri edifici. Al Moma ci sono tanti esempi di questo filone del suo lavoro, compreso una sorta di rifugio antiatomico a grandezza naturale dall’aria inquietante e inospitale (“Schutzraum” in inglese “Shelter” che significa, proprio, riparo; 1986).

Le sue più note sculture, invece, (sovente figure umane dai volti caricaturali o abbozzati) sono animate da un’inquietudine costante che si riflette nelle forme caotiche e dinamiche. a momenti sul punto di liquefarsi, mentre i personaggi effigiati osservano coi loro occhi vuoti chi gli passa di fronte. Schütte usa i materiali classici della scultura (acciaio, ceramica laccata, persino bronzo), il più delle volte rievocando i monumenti degli antichi o statuette e busti commemorativi che nei secoli passati finivano nelle case della gente. Naturalmente però, il suo approccio all’opera è opposto: i soggetti sono frutto di innesti tra la storia dell’arte, la tradizione farsesca, la scenografia cinematografica, i teatri dei burattini e persino i reperti conservati in formalina nei musei di storia naturale.

Thomas Schütte. United Enemies, 1994. Two figures of modeling clay, fabric, string, and wood on plastic pedestal with glass bell jar. 74 × 9 13/16 × 9 13/16″ (188 × 25 × 25 cm). De Pont Museum, Tilburg, Netherlands. Photo: Peter Cox. © 2024 Thomas Schütte / Artists Rights Society (ARS), New York / VG Bild-Kunst, Bonn

Un esempio piuttosto chiaro del suo punto di vista sulla scultura monumentale, ce lo da’ “Zeichnung für Alain Colas” (“Disegno per Alain Colas” del 1989). Alain Colas era un velista francese che tentò di attraversare l’Atlantico da solo in motoscafo, l’aveva già fatto e, primo al mondo, era arrivato in America, ma quella volta qualcosa andò storto e né lui né la sua barca vennero mai ritrovati. Era il 16 novembre del 1978, il giorno del compleanno di Schütte. Una decina di anni dopo, Clamecy (città natale di Colas), chiese proprio all’artista tedesco un monumento per commemorare la scomparsa del velista. E lui progettò un busto figurativo su un alto basamento, da ancorare alla baia come fosse una boa, perché ogni giorno l’alta marea lo sommergesse. Ovviamente l’opera non sarebbe mai stata realizzata.

All’inizio degli anni ’90 Schütte venne in Italia; era stato ammesso a una residenza riservata agli artisti tedeschi a Villa Massimo a Roma. Fu per lui l’occasione di vedere le sculture degli antichi, che lo ispirarono. Così nacquero gli “United Enemies”, una serie di sculture in teche di vetro, in cui compaiono due figure in argilla legate l’una all’altra con volti caricaturali affiancati e corpi composti da ritagli di vestiti e altri materiali di recupero. Il susseguirsi di personaggi della serie regala all’opera una dimensione narrativa che fa pensare al cinema: primo amore di Schütte (prima di iscriversi al corso d’arte all’università, aveva preso in considerazione solo quello di cinema, di cui sarebbe rimasto un appassionato spettatore). “United Enemies”, tuttavia, ha una carica trasgressiva che travalica tutto questo. Un critico ci vide le due germanie finamente riunite, e per nulla felici di esserlo. Schütte non si trovò d’accordo. D’altra parte, pare che lui raramente condivida un’interpretazione. E poi i protagonisti delle sue opere sono riflessi di un’ansia, situata in uno spazio e in un tempo indefinito, che in definitiva ognuno può leggere a modo proprio.

Il critico d’arte statunitense Blake Gopnik, in un recente articolo ha scritto (riferendosi a varie sculture del tedesco): “Tali opere rappresentano un ripudio della tradizione modernista in cui Schütte era stato istruito. Rappresentano anche l'intransigenza che è tipica dello Schütte classico”.

Schütte stesso, invece, ha detto: “Cerco di vedere una cosa da cinque punti di vista e continuo a muovermi, lavorando attorno a un punto centrale. Ma cosa sia non lo so. Non appena lo definisci, è finito”.

Daughter of Freedom”, con la sua saletta di sole sculture di Schütte, rimarrà alla Beyeler Foundation fino al 5 gennaio. La grande retrospettiva del Moma si chiuderà più tardi (il 18 gennaio 2025). Mentre la mostra che Punta della Dogana di Venezia dedicherà a Thomas Schütte si inaugurerà il 6 aprile per concludersi il 23 novembre del 2025.

Thomas Schütte. Vater Staat (Father State), 2010 (detail). Patinated bronze. 149 5/8 × 61 × 55″ (380 × 155 × 139.7 cm). Collection Anne Dias Griffin Photo: Steven E. Gross. © 2024 Thomas Schütte / Artists Rights Society (ARS), New York / VG Bild-Kunst, Bonn

nstallation view of Thomas Schütte, on view at The Museum of Modern Art, New York from September 29, 2024 through January 18, 2025. Photo: Jonathan Dorado.

Thomas Schütte. Bronzefrau Nr. 17 (Bronze Woman No. 17), 2006. Patinated bronze on steel table. 80 3/8 × 49 1/4 × 98 1/2″ (204 × 125 × 250 cm). The Art Institute of Chicago. Through prior gifts or bequests of Leo S. Guthman, Fowler McCormick, Albert A. Robin, Marguerita S. Ritman, Emily Crane Chadbourne, Florence S. McCormick, and Judith Neisser; purchased with funds provided by Per Skarstedt; 20th Century Purchase and Robert and Marlene Baumgarten funds. Photo: The Art Institute of Chicago / Art Resource, New York. © 2024 Thomas Schütte / Artists Rights Society (ARS), New York / VG Bild-Kunst, Bonn

Installation view of Thomas Schütte, on view at The Museum of Modern Art, New York from September 29, 2024 through January 18, 2025. Photo: Jonathan Dorado.

Thomas Schütte. Selbstportrait. 30/31.5.75 (Self-portrait: 5/30–31/75), 1975. Oil on nettle cloth. 23 5/8 × 17 11/16″ (60 × 45 cm). Collection the artist, Düsseldorf. Photo: Luise Heuter © 2024 Artists Rights Society (ARS), New York / VG Bild-Kunst, Bonn. © 2024 Thomas Schütte / Artists Rights Society (ARS), New York / VG Bild-Kunst, Bonn

I variopinti dipinti di Pacita Abad che mixavano pittura, quilting, lustrini e arte globale

Pacita Abad. You Have to Blend In, before You Stand Out . 1995. Olio, tela dipinta, paillettes, bottoni su tela cucita e imbottita. Per gentile concessione di Pacita Abad Art Estate

Conosciuta per i suoi “trapuntos”, opere d’arte concepite per essere trasportate in cui i confini tra pittura e quilting si fondono, l’artista filippino-americana, Pacita Abad, dopo essere stata a lungo dimenticata, sta conoscendo una crescente fama postuma. Non solo le sue quotazioni nelle aste di Sotherby’s e Christi’s in Asia, da qualche anno a questa parte, superano le attese, ma Abad, dopo essere stata protagonista lo scorso anno di un’importante retrospettiva al Walker Art Center di Minneapolis (in Minnesota), verrà celebrata dal MoMA PS1 di New York, mentre Adriano Pedrosa ha incluso il suo lavoro in “Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere” la 60esima Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia. Del resto già nel 2020 Google l’aveva commemorata con uno dei suoi Doodles.

Non che, Pacita Abad, nata nel ’46 nelle isole Batanes al nord delle Filippine da una famiglia di politici Ivatan (un gruppo etno-linguistico specifico della zona e diverso rispetto al resto del Paese) e in seguito diventata cittadina degli Stati Uniti, in vita sia stata completamente ignorata. Ha fatto anzi mostre in tutto il mondo ed è stata la prima donna ad aggiudicarsi un importante premio assegnato agli artisti nelle Filippine (il TOYM Award), Tuttavia la fama vera non è mai arrivata e dopo la prematura morte (è mancata nel 2004, a soli 58 anni, per un tumore ai polmoni) l’artista fu dimenticata. Eppure Abad, che ha lasciato ben 4mila e 500 opere, per lo più di grandi dimensioni, non ha mai smesso di sperimentare. I “trapuntos”, che lei creava imbottendo e trapuntando la tela (anziché fissarla ad un telaio) per poi dipingerla con colori vivaci e accostamenti cromatici allegri, oltre a inserire perline, paillettes, conchiglie, elementi di bigiotteria e sovrapporre tessuti, sono le sue opere più note, ma l’artista ha spaziato dall’uso della carta alla lavorazione della ceramica e del vetro, fino ai costumi. A Singapore c’è persino un ponte da lei dipinto.

Abad, che immediatamente dopo il suo arrivo negli Stati Uniti (nel ’71) è stata sposata per un breve periodo con il pittore George Kleinmen (il suo lavoro in qualche modo risentirà anche di questo rapporto) si sarebbe presto legata all’economista dello sviluppo, Jack Garrity, e, insieme a lui, avrebbe viaggiato e vissuto in 60 Paesi nel mondo, incorporando nella sua pratica artistica quello che, di volta in volta, imparava dalle popolazioni locali. Tra le altre cose: ricami a specchio del Rajasthan, ornamenti di conchiglie di ciprea papuasi, pittura coreana con pennello a inchiostro e batik indonesiano.

Uno sforzo che non poteva portarle, però, il riconoscimento del mondo dell’arte: "In un certo senso- ha detto Garrity a New York Times lo scorso anno- era come una corrispondente estera, che diceva alla gente, questo è quello che sta succedendo in questi posti". Lei la chiamava “vita ai margini”. Niente di più distante dal gusto dell’epoca in occidente che tra gli anni ’80 e ’90 disdegnava il ricamo ed era dominato da un’estetica minimale.

Quando le chiesero cosa il suo lavoro avesse portato agli Stati Uniti, rispose: “Il colore”. E sono proprio i colori (tanti, pulsanti e tropicali), concentrati nelle grandi composizioni insieme a una moltitudine di segni diversi, il filo conduttore della sua produzione, che altrimenti spazia senza scomporsi dalla figurazione all’astrattismo, dalle profondità sottomarine animati da pesci e coralli ai volti dei migranti, da ammassi di frutti variopinti alle maschere rituali, da composizioni fatte da migliaia di punti, o pennellate similia a liane, a divinità dall’incerta origine.

La sua pratica artistica onnivora e innovativa ha fatto nascere la leggenda che Abad fosse una professionista ingenua, quasi un’autodidatta sotto acculturata. In realtà, si era laureata in scienze politiche nelle Filippine dove aveva cominciato anche giurisprudenza, sia suo padre che sua madre avevano ricoperto ruoli politici importanti (la sua famiglia si era presto trasferita a Manila), una volta negli Stati Uniti aveva conseguito un master in storia asiatica e le era anche stata offerta una borsa di studio per il corso di legge a Berkeley. Quando poi aveva deciso di dedicarsi all’arte a tempo pieno aveva preso lezioni di pittura sia alla Corcoran School of Art che alla Art Students League di New York. Ma è vero pure, che Abad, in ogni viaggio che compiva, si faceva insegnare tecniche artistiche ed artigiane tradizionali dalla gente del luogo oltre ad apprendere tratti della cultura locale.

La retrospettiva dedicata a Pacita Abad del MoMa Ps1 di New York ripercorrerà 32 anni di carriera dell’artista attraverso oltre 50 opere (la maggior parte delle quali mai esposte al pubblico), provenienti da collezioni private e pubbliche d’Asia, Europa e Stati Uniti. Si inaugurerà il prossimo 4 aprile (fino al 2 settembre 2024). “Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere” la Biennale d’Arte di Adriano Pedrosa, in cui si potranno ammirare le creazioni di Abad (all’Arsenale) insieme a quelle di molti altri artisti indigeni ed, in generale, originari del sud del mondo, si terrà invece a Venezia tra il 20 aprile e il 22 novembre 2024.

Pacita Abad. LA Libertà. 1992. Acrilico, filo di cotone, bottoni di plastica, specchi, filo d'oro, tela dipinta su tela cucita e imbottita. Collezione Walker Art Center, Minneapolis; TB Walker Acquisition Fund, 2022. Per gentile concessione di Pacita Abad Art Estate e Spike Island, Bristol. foto: Max McClure

Pacita Abad. Spring is Coming . 2001. Olio, tela dipinta su tela cucita. Per gentile concessione di Pacita Abad Art Estate

Veduta dell'installazione di Pacita Abad: A Million Things to Say al Museum of Contemporary Art and Design, Manila, De La Salle-College of Saint Benilde, 2018. Courtesy Pacita Abad Art Estate e MCAD Manila. Foto: presso Maculangan/PioneerStudio

Pacita Abad. European Mask . 1990. Acrilico, serigrafia, filo su tela. Per gentile concessione di Pacita Abad Art Estate e Tate. Foto: A Maculangan/Pioneer Studios

Pacita Abad. Cross-cultural Dressing (Julia, Amina, Maya, and Sammy) . 1993. Olio, stoffa, bottoni in plastica su tela cucita e imbottita. Per gentile concessione di Pacita Abad Art Estate e Spike Island, Bristol. Foto: Max McClure

Pacita Abad con Bacongo I (1983) nel suo studio di Washington, DC. 1986. Per gentile concessione di Pacita Abad Art Estate