"America" di Cattelan che va a una catena di musei delle bizzarrie per 12 milioni e tutti i record delle aste di novembre

Lo scorso martedì “Ritratto di Elisabeth Lederer” di Gustav Klimt è diventato il secondo dipinto più costoso mai venduto all’asta, capace di oscurare con i suoi 236,4 milioni di dollari ogni precedente quotazione dell’artista austriaco. Più o meno nelle stesse ore “America”, il water d’oro di Maurizio Cattelan, entrava a far parte della collezione del popolare marchio americano di intrattenimento per famiglie “Ripley's Believe It or Not!” per 12,1 milioni di dollari. Ma ci sono stati altri momenti memorabili come gli oltre 9 milioni raggiunti da “High Society” della pittrice britannica Cecily Brown nel corso di una gara di offerte combattutissima da Sotheby’s. Giovedì infine è stato un autoritratto di Frida Kahlo a raggiungere i 55 milioni e a segnare un record per la surrealista messicana.

C’era molta attesa per questo appuntamento nella nuova sede newyorkese di Sotheby’s dopo un periodo di contrazione del mercato dell’arte (il 12 percento lo scorso anno, secondo l'ultimo rapporto sul collezionismo globale condotto da Art Basel e UBS) e i risultati sono stati positivi: la sera le aste hanno fruttato 706 milioni di dollari in totale, il doppio dello scorso anno. “Ritratto di Elisabeth Lederer” è stato la star ma, complice una carrellata di capolavori, altre opere hanno raggiunto quotazioni ragguardevoli. Le aste serali (quelle in cui vengono messe in vendita quelle più desiderate e costose) sia di moderno che contemporaneo sono state per lo più un successo e gli appuntamenti pomeridiani hanno tenuto il punto. Qualche lotto è rimasto invenduto, certo, e qualche pezzo stimato nell’ordine dei milioni di dollari ha deluso le aspettative ma quasi sempre le opere di qualità sono state accolte con entusiasmo e senza badare troppo al portafoglio.

Frida Kahlo, El sueño (La cama), 1940. Ha raggiunto il record di 55 milioni di dollari Image: Sotheby's

I record di “Il sogno (Il letto)” e “Ritratto di Elisabeth Lederer”:

Proveniente dalla collezione del miliardario filantropo e collezionista d’arte, Leonard A. Lauder, erede insieme al fratello Ronald (che gli sopravvive) della fortuna accumulata con il marchio cosmetico Estée Lauder e scomparso lo scorso giugno a 91 anni, “Ritratto di Elisabeth Lederer” era stimato circa 150 milioni.

Varie testimonianza raccontano che il signor Lauder tenesse il dipinto nella cucina del suo appartamento sulla Fifth Avenue con il tavolo accanto per poter mangiare guardandolo; rappresenta una bella ragazza ventenne vestita in maniera stravagante eppure raffinata, con le guance rosee, il colorito pallido e lo sguardo fieramente rivolto verso lo spettatore. La giovane ritratta da Klimt era appunto Elisabeth Lederer, figlia dell’industriale ebreo August Lederer e della moglie Serena, entrambi i genitori erano mecenati del pittore viennese. Un particolare che salvò la vita alla ragazza e le permise di rimanere in Austria durante gli anni bui del regime nazista. Elisabeth, infatti, con la complicità della madre e un pezzo di carta firmato dall'artista, si finse sua figlia illegittima (quindi non ebrea). Prima di ottenere quel documento però, il ritratto insieme ad altre opere di proprietà dei Lederer venne sequestrato dai soldati e rischiò di andare perduto in un incendio. Alla fine della guerra venne restituito allo zio di Elisabeth che lo conservò fino a quando decise di venderlo a Lauder.

Si ritiene che “Ritratto di Elisabeth Lederer” sia uno dei due soli ritratti di Klimt a rimanere in mani private ed è a tutti gli effetti un capolavoro. Ma non è stato solo questo a fargli superare la massima quotazione mai raggiunta dal simbolista morto alla fine della prima guerra mondiale e a farne la seconda opera più pagata di sempre (prima di lui solo “Salvator Mundi” di Leonardo da Vinci che è andato in Arabia Saudita nel 2017 per 450,3 milioni di dollari). Altri fattori fondamentali sono stati la provenienza specchiata, l’esiguo numero di mani in cui è passato, la stima di cui godeva lo scomparso Lauder ma soprattutto un particolare raro per le opere appartenute a collezionisti ebrei in quegli anni: non si porta dietro né il rischio di costose e incerte cause legali né l’onta di una storia ambigua. In quel periodo, infatti, anche quando non venivano confiscati, non era raro che i dipinti venissero venduti a prezzi irrisori per racimolare il denaro necessario a fuggire negli Stati Uniti.

Tutte le opere di Klimt andate all’asta a inizio settimana hanno raggiunto buoni risultati. Tra loro uno splendido paesaggio del 1908 (sempre appartenuto a Leonard A. Lauder) è arrivato a 86 milioni.

Gustav Klimt, Blumenwiese (Blooming Meadow) circa 1908. Anche questo dipinto di Klimt appartenuto a Lauder è arrivato ad 86 milioni.

Il discorso per “El sueño (La cama)” (“Il sogno (Il letto)” dipinto da Frida Kahlo nel 1940 è leggermente più complesso. Infatti, nonostante abbia fatto toccare all’artista scomparsa nel ’54 il suo record d’asta (il precedente per “Diego and I” del ’49 era di 34,9 milioni) e si sia attestato come lavoro di una latinoamericana più pagato di sempre, si è comunque fermato intorno alla media della forbice di stima.

Il fatto che la tribolata esistenza di Frida Kahlo sia entrata a far parte della cultura pop già fa capire quanto una sua opera possa essere desiderabile per un collezionista e il numero limitatissimo di pezzi sul mercato ha cooperato a rafforzare l’attesa intorno al dipinto venduto giovedì scorso. In Messico i quadri di Kahlo sono considerati patrimonio nazionale dal ’84 e non possono essere venduti né esportati; “Il sogno (Il letto)”, che dall’80 era nelle mani del produttore discografico turco-statunitense Nesuhi Ertegun (Atlantic Records), era uno dei pochi commercializzati prima che queste restrizioni entrassero in vigore (si dice che l’abbia comprato per soli 51 mila dollari ma in merito non esistono certezze).

Ci si sarebbe anche potuti aspettare quindi che l’opera arrivasse a una cifra ancora maggiore. Una persona informata però ha spiegato al New York Times: "Se una tela di queste dimensioni fosse stata riempita con un ritratto completo di Frida, ingrandito, la stima sarebbe stata probabilmente di 80-100 milioni di dollari, oltre. E credo che il mercato avrebbe risposto in un batter d'occhio". A conferma di questa dichiarazione va detto che l’asta per aggiudicarsi l’autoritratto è stata combattutissima.

 Maurizio Cattelan, America, 2016. Il wc in oro 18 carati è stato venduto per 12 milioni a “Ripley’s Belive it or not!” via Stheby’s

“America” di Maurizio Cattelan va da "Ripley's Belive It or Not" e "High Society" fa il botto:

Il traguardo raggiunto da “America”, il wc in oro zecchino che riproduce fedelmente la toilette del Guggenheim Museum di New York e cita apertamente l’iconico orinatoio di Marcel Duchamp, non è stato ugualmente entusiasmante. Stimato 10 milioni di dollari (la casa d’aste aveva deciso di stabilirne il valore solo in base al peso dell’oro necessario per realizzarlo), se n’è andato per lo stesso prezzo più commissioni per un totale di poco più di 12 milioni di dollari. I media hanno di fatti riferito di una certa delusione filtrata dopo l’evento.

Il signor Cattelan era l’unico artista italiano vivente presente con un’opera a questo importante appuntamento e resta uno dei pochi artisti-star nel mondo, tuttavia, insieme ad altri colleghi diventati famosi già qualche decennio fa, potrebbe scontare un leggero cambiamento del gusto e una minor propensione alla speculazione del mercato (l’abilità nel mestiere, la collocabilità dei pezzi e persino l’artigianalità sembrano oggi spesso prevalere sul colpo di genio). Ma “America” è una questione a sé stante.

Certo ha fatto il suo bravo show (con file di persone in strada che aspettavano di entrare per potersi fare un selfie vicino all’opulento wc) contribuendo a mantenere alto l’interesse intorno all’artista e al mercato dell’arte ma non è un capolavoro. La questione l’ha ben sintetizzata il consulente d’arte Tod Levin in un’intervista: "Il problema per me è che Cattelan usa materiali semplici e non raggiunge un obiettivo importante". Resta lontano insomma dalla complessità giocosa e provocatoria eppure fulmineamente comprensibile di “Him” (l’Hitler col corpo da bambino inginocchiato in preghiera) che stabilì il suo record di 17,2 milioni nel 2016.

Anche la collocazione dell’unica versione attualmente in circolazione di “America” (l’altra è stata rubata durante una mostra nel Regno Unito e probabilmente fusa) potrebbe non essere considerata delle migliori. Acquistata dal franchise americano di stranezze all’apparenza incredibili “Ripley's Believe It or Not!”, la scultura in oro probabilmente verrà esposta in uno dei loro musei (ne hanno moltissimi, un po’ in tutto il mondo, inclusi Europa e Regno Unito).

Cecily Brown, High Society, 1997-98. via Sotheby's

Il contemporaneo comunque in generale se l’è cavata bene con alcuni risultati degni di nota. È il caso dello splendido dipinto realizzato tra il ’97 e ’98 “High Society” della britannica Cecily Brown che alla fine di una lunga battaglia di offerte è stato portato a casa da un collezionista (di cui non è noto il nome), per 9 milioni e 800 mila: oltre 2 milioni più della stima massima e un record per la signora Brown.

A inizio settimana sono andati all’asta anche parecchi paesaggi di David Hockney: tutti, nessuno escluso, sono stati venduti per cifre al di sopra della loro valutazione massima.

Sorprendente, infine, il risultato di “Alvorada - Música Incidental Black Bird” del brasiliano quarantaduenne Antonio Obá: stimato da Sotheby’s tra i 100 e i 150mila dollari è arrivato a superare il milione.

Antonio Obá Alvorada, Música Incidental Black Bird via Stheby’s

La grande ed attesa retrospettiva di Jack Whitten al Moma sta per concludersi. Ma quando sarà possibile ammirare le sue opere in Europa?

“9.11.01” installato in una sala del Moma. Installation view of Jack Whitten: The Messenger, on view at The Museum of Modern Art, New York, from March 23 through August 2, 2025. Photo: Jonathan Dorado.

L’ 11 settembre del 2001, Jack Whitten era di fronte al suo palazzo a Lispenard (nel quartiere di Tribeca a New York), che aveva ristrutturato da solo dopo un incendio e che stava vendendo. Era alle prese con i pompieri e una fuga di gas, quando un aereo basso e dalla traiettoria instabile sfrecciò sopra la sua testa. Quel giorno insieme a loro c’era anche un uomo con una telecamera, che stava girando un documentario sui vigili del fuoco, così, quando tutti alzarono gli occhi al cielo e videro il primo aereo schiantarsi sul World Trade Center (poco lontano), il signor Whitten rimase nell’inquadratura che venne trasmessa nei notiziari di tutto il mondo. In seguito, tutto ciò che caratterizza quelle iniziali immagini dell’attacco (il cielo di porcellana, i riflessi di vetro e acciaio nella luce viva di fine estate, le ombre scure, il fumo, le fiamme, la polvere, il nero della tragedia) confluirono nel suo maestoso “9.11.01”. Tre metri per sei di dipinto, realizzato a mosaico con tessere di colore acrilico tagliate e riassemblate a mano, oltre ad altri materiali improbabili e pionieristici (come ceneri dell’attentato stesso e sangue).

Adesso “9.11.01” è esposto insieme ad altre oltre 175 opere dell’artista afroamericano allo Steven and Alexandra Cohen Center for Special Exhibitions del Museum of Modern Art di New York. La mostra, intitolata “Jack Whitten: the Messenger”, si dipana tra gli esordi (negli anni ’60) fin quasi alla sua morte (arriva al 2010 mentre il signor Whitten è mancato nel 2018). Presentando, oltre ai dipinti, anche sculture, lavori su carta e materiali d’archivio. Quella del Moma è la prima retrospettiva importante a lui dedicata ed era davvero molto attesa. Tanto che il New York Times l’ha inserita nell’elenco delle migliori mostre del 2025 (secondo loro undici in tutto, comprese quelle di Caravaggio, Caspar David Friedrich e Piet Mondrian).

9.11.01” è uno dei capolavori dell’esposizione. Del resto l’evento lo colpì talmente che, quando venne a sapere che i pompieri con cui aveva parlato alla mattina (poi corsi sul luogo del disastro) erano sopravvissuti, scoppiò a piangere. Tuttavia quello non è stato l’unico cambiamento epocale a cui aveva assistito nella sua non lunghissima vita.

Jack Whitten. Atopolis: For Édouard Glissant. 2014. Acrylic on canvas, 8 panels, overall 124 1/2 × 248 1/2″ (316.2 × 631.2 cm). The Museum of Modern Art, New York. Acquired through the generosity of Sid R. Bass, Lonti Ebers, Agnes Gund, Henry and Marie-Josée Kravis, Jerry Speyer and Katherine Farley, and Daniel and Brett Sundheim. © 2025 The Museum of Modern Art, New York, Photo by Jonathan Muzikar.

Nato nel ’39 a Bessemer in Alabama, proprio nel cuore del sud segregazionista degli Stati Uniti di allora, Jack Whitten, ebbe modo di vedere fin troppe violenze ed ingiustizie durante l’infanzia. In merito ha, ad esempio, raccontato: “Per tutto il liceo e le medie (scuole con insegnanti di colore e alunni di colore ndr), quando ci portavano in gita scolastica, non ci portavano mai al museo perché era off-limits per i neri. Ci portavano alle acciaierie e alle miniere di carbone, ma mai ai musei”. Oppure: “in Alabama, l'estate era calda, umida, disgustosamente calda. Una delle cose più difficili per noi bambini era passare davanti alla piscina, di proprietà comunale, pagata con i soldi dei contribuenti, e vedere ragazzi bianchi che nuotavano, mentre noi non potevamo entrare. Era dura. Era dura. Persino il parco pubblico (la piccola area ombreggiata con gli alberi, con una fontana al centro) potevamo attraversarlo a piedi, ma non ci si poteva sedere all’ombra e Dio non voglia che si andasse alla fontana”.

Forse per questo, dopo essersi iscritto a medicina nel college di Tuskegee in Alabama (in quel periodo aveva anche sentito parlare Marthin Luther King) e aver lasciato per studiare arte alla Southern University di Baton Rouge in Luisiana (entrambe università per soli neri), fu tra gli organizzatori di una delle prime marce per i diritti civili degli afroamericani. Evento che, avrebbe detto in seguito, per lui fu uno spartiacque: “Per me c’è stato un prima e un dopo”. Infatti, nonostante credesse fermamente nelle proteste non violente, l’atteggiamento della gente che aveva assistito a quella manifestazione era stato talmente aggressivo (“buttavano di tutto dalle finestre-ha ricordato una volta- la gente imprecava, ti picchiava”) da spingerlo a tagliare i ponti con il passato e trasferirsi a New York (dove continuò i suoi studi d’arte alla Cooper Union; un’università finalmente rivolta a tutti).

Lì il signor Whitten, prima da studente e poi da giovane esordiente, fece di tutto per mantenersi (dal manovale all’insegnante) mentre frequentava jazz clubs ed entrava in contatto con la vivace scena artistica newyorkese degli anni ’60 (tra gli altri conobbe: Wayne Thiebaud, Andy Wharol, che non gli era simpatico, Roy Lichtenstein, che invece stimava, e poi gli astrattisti della prima generazione come Willem de Kooning, Franz Kline, Barney Newman e Mark Rotko, oltre ai neri Romare Bearden, Jacob Lawrence e Norman Lewis; anni dopo avrebbe frequentato anche altri artisti molto diversi da lui come Jean Michael Basquiat, Nam June Paik e David Hockney).

Jack Whitten. Birmingham 1964. 1964. Aluminum foil, newsprint, stocking and oil on board, 16 5/8 x 16″ (42.2 x 40.6 cm). Collection of Joel Wachs. © Photo by John Berens, Courtesy the Jack Whitten Estate and Hauser & Wirth.

Stilisticamente (dopo l’amore per il Rinascimento italiano), sulle prime coltivò soprattutto l’affinità con Gorky e de Kooning. Faceva cose che lui stesso ha descritto come “un espressionismo figurativo astratto”, ma non ci mise molto a dedicarsi completamente all’astrattismo. Il suo però era un linguaggio diverso da quello dei suoi predecessori bianchi o neri che fossero, pionieristico e sperimentale. Sempre artigianale, perché credeva nella “trasmigrazione dello spirito” dall’artista alla materia. Caratterizzato da una ricerca incessante sui colori e gli strumenti, che a livello concettuale si tingeva di mille sfaccettature (tante quante i suoi interessi; che andavano dalla scienza, alla tecnologia, alla letteratura, alla filosofia, fino all’attualità e alla musica, in particolare il Jazz).

Il Moma nel presentare la sua mostra ha scritto: è “una storia rivelatrice dell'esplorazione dell'artista su razza, tecnologia, jazz, amore e guerra”.

Ma non ebbe vita facile: gli altri gli facevano pressione affinchè abbracciasse la figurazione come forma di attivismo. Però non desistette. Anzi, praticamente ad ogni decennio d’attività del signor Whitten, corrisponde una nuova tecnica (ma sempre astratta). Usava ogni volta l’acrilico di cui divenne un esperto (allora erano colori utilizzati in arte da poco tempo).

Detail of Jack Whitten. Four Wheel Drive. 1970. Acrylic on canvas, 98 1/4 × 98 1/4″ (249.6 × 249.6 cm). Private collection. © Jack Whitten Estate. Courtesy the Estate and Hauser & Wirth, Photo by Genevieve Hanson.

Negli anni ’70 stendeva spessi strati di pittura che sovrapponeva; in alcune colate ritardava più o meno l’asciugatura delle vernici; e poi con un grande strumento a T (che si era fatto da solo) raschiava tutto in un unico gesto. Si trattava di un processo immediato, tuttavia, lui disponeva strategicamente sotto la tela oggetti dalla diversa grana, forma e peso, in modo da controllare la quantità di pigmento che sarebbe stata portata via in un punto o nell’altro.

Ma Jack Whitten era anche capace di fare colori da zero usando polveri di ogni tipo e un legante acrilico. A volte mischiava tutto con un mixer da cucina, altre stendeva strani prodotti concepiti per usi industriali che non permettevano a niente di attaccarsi.

Detail of Jack Whitten. Atopolis: For Édouard Glissant. 2014. Acrylic on canvas, 8 panels, overall 124 1/2 × 248 1/2″ (316.2 × 631.2 cm). The Museum of Modern Art, New York. Acquired through the generosity of Sid R. Bass, Lonti Ebers, Agnes Gund, Henry and Marie-Josée Kravis, Jerry Speyer and Katherine Farley, and Daniel and Brett Sundheim. © 2025 The Museum of Modern Art, New York, Photo by Jonathan Muzikar.

Sua moglie era di origine greca e, durante un viaggio nelle isole elleniche in cui lei cercava le proprie radici e lui un albero che aveva visto in sogno, scoprì i mosaici. Per tutti gli anni ’90 ne avrebbe fatti incessantemente, usando però tessere di colore acrilico invece che di pietra (spesso per frantumarlo meglio prima lo congelava, se doveva riutilizzare le rimanenze lo polverizzava con un mortaio). Le sue tessere, disposte in modi sempre diversi, a volte richiamano dei pixel, altre frazioni di materia, altre un caos armonico, altre ancora costellazioni.

Aveva un debole per i memoriali, che dedicò a persone di colore ma anche bianche, o più raramente ad eventi storici (è il caso di “9.11.01”).

Jack Whitten. The Afro American Thunderbolt. 1983/1984. Black mulberry wood with copper plate and nails, 25 × 9 × 10″ (63.5 × 22.9 × 25.4 cm). Jack Whitten Estate. Courtesy the Estate and Hauser & Wirth. © Jack Whitten Estate. Courtesy the Estate and Hauser & Wirth, Photo by Genevieve Hanson.

Nel frattempo, quando durante l’estate si trasferiva nello studio che aveva comprato a Creta (dopo quel primo viaggio in cui erano approdati proprio lì, e dove lui aveva davvero trovato l’albero del suo sogno, la famiglia Whitten aveva continuato ad andarci), creava sculture che coniugavano l’arte dell’antico Mediterraneo a quella africana, oltre a servirsi di materiali bizzarri (come vecchi chip per computer).

Per quanto Jack Whitten abbia influenzato artisti molto noti in Europa, ha una storia espositiva principalmente centrata negli Stati Uniti e non sembra che la cosa sia destinata a cambiare a breve. La grande retrospettiva a lui dedicata, “Jack Whitten: the Messenger”, curata da Michelle Kuo (curatrice capo ed editor del Dipartimento di pittura e scultura) al Moma di New York, si concluderà il 2 agosto 2025.

Jack Whitten. Siberian Salt Grinder. 1974. Acrylic on canvas, 6’8″ x 50″ (203.2 x 127 cm). The Museum of Modern Art, New York. Nina and Gordon Bunshaft Fund and The Friends of Education of The Museum of Modern Art. © 2025 The Museum of Modern Art, New York, Photo by John Wronn.


Jack Whitten. Mirsinaki Blue. 1974. Acrylic on canvas, 62 1/8 × 72 1/8″ (157.8 × 183.2 cm). Collection of the Herbert F. Johnson Museum of Art, Cornell University. Gift of Leonard and Ruth Bocour. © 2024 Herbert F. Johnson Museum of Art, Cornell University.

Jack Whitten. Liquid Space I. 1976. Acrylic slip on paper, 20 5/8 x 20 5/8″ (52.4 x 52.4 cm). The Museum of Modern Art, New York. Purchased with funds provided by Dian Woodner in honor of The Friends of Education of The Museum of Modern Art. © 2025 The Museum of Modern Art, New York, Photo by Peter Butler.

Installation view of Jack Whitten: The Messenger, on view at The Museum of Modern Art, New York, from March 23 through August 2, 2025. Photo: Jonathan Dorado.

Installation view of Jack Whitten: The Messenger, on view at The Museum of Modern Art, New York, from March 23 through August 2, 2025. Photo: Jonathan Dorado.

Portrait of Jack Whitten with Pink Psyche Queen (1973), ca. 1975 © Jack Whitten Estate. Courtesy the Estate and Hauser & Wirth.

Una banana venduta da Sotheby’s per 6 milioni di dollari è come latte e miele per un mercato dell’arte malaticcio

Comedian di Maurizio Cattelan venduta per 6.2 milioni di dollari da Sotheby's a New York. Courtesy of Sotheby's.

Dalla pandemia il mercato dell’arte moderna e contemporanea ha subito una contrazione dopo anni di spensieratezza. Per questo la supposizione che, mercoledì notte (secondo l’orario italiano), la vendita di quella banana appiccicata col nastro adesivo alla parete della sede newyorkese di Sotherby’s fosse scontata, era una scommessa. O meglio alla vendita in sé di “Comedian”, l’opera prettamente concettuale più recente (2019) e discussa di Maurizio Cattelan, credeva la casa d’aste (che ha messo il lotto in evidenza già prima dell’evento), il pubblico, che ha riempito sia la sala reale dell’evento che quella virtuale (le persone commentavano con frasi come: “Siamo qui per quello delle banane!”) e in generale gli addetti ai lavori, ma rimaneva da vedere come. E alla fine, battuta a 5,2 milioni di dollari più commissioni, per un totale di 6.2 milioni di dollari, sestuplicando la stima più bassa (era valutata tra il milione e il milione e mezzo), l’opera, definita dal suo stesso acquirente “un fenomeno culturale che unisce il mondo dell'arte, dei meme e della comunità delle criptovalute" ha superato le aspettative.

Non ci credeva invece lo stesso sign. Cattelan, che ha dichiarato ad un quotidiano italiano di aver ricevuto l’offerta di ricomprare “Comedian” per 500 mila dollari. Era il 2019, appena una settimana dopo la presentazione dell’opera: “Ho detto di no. Ieri ho pensato: che stupido”.

C’è da dire che si trattava anche dell’unico lotto che accettava un pagamento in criptovalute (che dalla vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane hanno registrato record su record) e che ad aggiudicarselo è stato proprio, Justin Sun, un imprenditore del settore, di origine cinese. Sun, che ha vinto contro altri sei offerenti in un duello serratissimo durato solo una manciata di minuti, raggiunto telefonicamente da un quotidiano statunitense ha previsto un aumento dell’acquisto di opere d’arte da parte di chi si occupa di criptovalute durante la presidenza di Donald Trump.

Ed Ruscha, “Standard Station, Ten-Cent Western Being Torn in Half,” 1964, venduto per 68.2 milioni di dollari. Ed Ruscha, via Christie's

Uno dei motivi per cui le aste di novembre da Sotheby’s e Christie's erano sotto stretta osservazione era proprio l’avvenuta elezione del sig. Trump. Si ritiene infatti che le sue politiche fiscali potrebbero avere un impatto positivo sul mercato dell’arte. Prima che le aste avessero luogo Abigail Asher, una consulente d'arte di New York ha detto a un gruppo di giornalisti che hanno firmato un approfondimento sull’argomento per un quotidiano statunitense: “Ora le persone stanno improvvisamente provando un senso di sicurezza. Aspettavano dopo le elezioni per premere il grilletto sui grandi dipinti". Altri esperti hanno invece fatto notare che, sebbene ci siano stati dei segnali positivi già dall’indomani delle elezioni, è ancora troppo presto per trarre conclusioni.

Come sia messa la situazione, ad aste avvenute o in corso (nel momento in cui viene redatto questo articolo si sono svolte quelle di Christie's e Phillips New York, oltre alla serale Now and Contemporary di Sotheby’s dove è stata venduta l’opera di Maurizio Cattelan), non è affatto chiaro. Qualcuno sostiene che in generale il volume d’affari del contemporaneo sia calato vistosamente rispetto allo scorso anno, e che alcuni pezzi di pregio multimilionari siano rimasti invenduti a fronte di forbici di valutazione prudenti (ad esempio: la ceramica dell’88 di Jeff Koons “Woman in Tub”, stimata tra i 10 e i 15 milioni di dollari da Sotheby’s). Altri che la maggioranza dei committenti non ha voluto vendere prima che i “tumulti elettorali” non si fossero esauriti, insomma a passaggio di consegne avvenuto. Questo naturalmente avrebbe influito anche sulla qualità e la vendibilità delle opere.

Quel che è certo è che oltre allo splendido olio su tela di René Magritte, “L'impero della luce” (1954) la cui vendita da Christie’s era già certa (aveva una garanzia che lo copriva per 95 milioni) ma che è andato meglio del previsto arrivando a 121,2 milioni di dollari (incluse commissioni), se la sono cavata egregiamente tutte le opere, se così si può dire, patriottiche. Come lo studio di Roy Lichtenstein per “Oval Office” che, stimato tra il milione e il milione e mezzo, è stato battuto per ben 4 milioni e 200 mila dollari. O “Georges’ Flag” del ’37 di Ed Ruscha che, stimato tra gli 8 e i 12 milioni, è andato a casa di un’acquirente che ne ha offerti 13 e 650 (anche se di Ruscha a fare veramente faville è stato “Standard Station, Ten-Cent Western Being Torn in Half” del ’64 venduto ad oltre 68 milioni).

Benissimo anche la surrealista messicana di origine britannica, Leonora Carrington (1917-2011), che da dopo essere stata esposta alla Biennale di Venezia due anni fa (la più femminista) da Cecilia Alemani, aveva già macinato cifre a sette zeri, e con la scultura “La Grande Dame” (The Cat Woman) del ’51, si è superata: stimata tra i 5 e i 7 milioni è stata aggiudicata per 11, 4 milioni!

Altro successo che ha scavalcato le previsioni più rosee è stato appunto il frutto più costoso di sempre firmato da Maurizio Cattelan. “Comedian, apparsa per a prima volta nello stand della Perrotin Gallery di una fiera di Miami nel 2019, dove aveva causato trambusto, attirando curiosi su curiosi per il clamore che aveva suscitato, ai tempi era stata venduta per una cifra che oscillava tra i 120 e 150 mila dollari (ne esistono 3). Si tratta di un’opera concettuale, il cui valore non è ovviamente determinato dalla banana in sé, ne dal nastro adesivo (un rotolo del quale viene comunque fornito al compratore), ma dall’idea dell’artista che si concretizza in un certificato d’acquisto autenticato e in un dettagliatissimo manuale di istruzioni di 14 pagine con tanto di diagrammi che spiegano come sostituire il frutto una volta marcito.

Il signor Cattelan ha tratteggiato così la genesi di “Comedian”: “Nel 2019, lavoravo a un contributo per il New York Magazine e pensai alla banana come simbolo di New York (…) L’idea rimase lì, finché non arrivò la fiera di Miami. Mi trovavo di fronte a un mercato saturo, pieno di opere eccessive e poco sperimentali. Così decisi di fare un gesto essenziale, quasi assurdo: comprai una banana per 25 centesimi e la fissai al muro con del nastro adesivo”. Ha anche detto: “È il mercato che ha deciso di prendere sul serio una banana attaccata al muro. Se il sistema è così fragile da cadere su una buccia di banana, forse era già scivoloso di suo”. Tuttavia, è pure possibile che l’autore sia stato ingiusto con la sua opera, che, a distanza di anni, potrebbe apparire nei libri di storia dell’arte come un commento irrinunciabile alla nostra epoca, e con il mercato che, anziché respingere la critica feroce di un insider, la ha fatta sua e trasformata in salutare autoironia, come una battura, espressa con l’unica lingua che il mercato può conoscere: quella del denaro.

Leonora Carrington, “La Grande Dame (The Cat Woman),” olio su legno, 1951, venduta per 11.4 millioni di dollari. Leonora Carrington; via Sotheby's