Sessant’anni d’arte (e pazienza) di Vija Celmins sono in mostra alla Fondazione Beyeler

Vija Celmins, Lamp #1, 1964 Oil on canvas, 62.2 x 88.9 cm Vija Celmins, Courtesy Matthew Marks Gallery © Vija Celmins, Courtesy Matthew Marks Gallery Photo: Aaron Wax, Courtesy Matthew Marks Gallery

La superficie, meticolosamente e uniformemente dipinta, ha un vero e proprio spessore; incrostazioni piccole e lievi di colore si intravedono qua e là, mentre un universo di toni delicati d’azzurro e beige lasciano spazio all’occhio di vagare, prima che stelle scure come la pece ma così distanti da vedersi appena, lo catturino. E’ l’insidia dei particolari.

E per quanto “Astrographic Blue” (realizzato tra il 2019 e il 2024) sia un olio particolarmente ambiguo, l’intera opera dell’artista statunitense di origine lettone, Vija Celmins, tende a giocare lo stesso scherzo: promette allo sguardo la pace di una visione poco impegnativa e alla fine lo intrappola come un insetto su una ragnatela, condannandolo a vagare da un dettaglio all’altro.

D’altra parte le ragnatele sono tra i suoi soggetti preferiti. Insieme a nuvole ma soprattutto: distese oceaniche, cieli stellati, superfici desertiche e, ultimamente, fiocchi di neve colti durante tumultuose tempeste. Si tratta di immagini incredibilmente dense di particolari che però hanno solo una vaga profondità, si ripetono identiche a se stesse, sono prive di un centro, di un inizio o una fine, e rifiutano quasi del tutto il colore. Lei in merito ha detto: “Mi piacciono i grandi spazi, li inserisco in una piccola area e dico: 'Sdraiati e resta lì, come un bravo cane'” (non è una frase casuale: ama i cani anche se adesso vive con un grosso gatto).

Ha anche detto di non copiare le fotografie: “ricostruisco le immagini”.

Tant’è vero che durante la sua carriera sessantennale di pittrice, disegnatrice, incisore e, in qualche modo, scultrice, Vija Celmins ha prodotto soltanto 220 lavori. Novanta di questi sono ora esposti alla Fondazione Beyeler di Riehen (un delizioso comune svizzero a una decina di minuti da Basilea) che le sta dedicando una sontuosa retrospettiva, diretta dalla curatrice capo della fondazione, Theodora Vischer, e dallo scrittore e curatore indipendente, James Lingwood. Cui hanno accostato un importante catalogo che sottolinea il lirismo dell’opera della signora Celmins con testi di scrittori e poeti ma anche la sua disciplina e il suo talento con quelli di altri artisti.

Tra loro la sudafricana Marlene Dumas (che ha recentemente portato a casa un record d’asta da 6,3 milioni, durante una stagione commerciale molto fiacca) ha scritto: “Per quanto tetri siano gli oceani, i campi stellati sono magnifici. Lei ha salvato le stelle dal luccichio di Hollywood. Vuole densità e resistenza, non intrattenimento magico. Nessuno può farle sembrare reali come lei. E poi le ragnatele, sono le più fragili e forse quindi le più belle. Ha pazienza e una disciplina che si vede. Tutto ciò che non è essenziale lo cancella, cancellando così anche se stessa dal risultato finale”.

Anche la signora Celmins da parecchi anni a questa parte economicamente se la cava bene (i suoi dipinti sono in genere venduti per un minimo di tre milioni). E già prima di questa retrospettiva in Svizzera il suo lavoro era stato al centro di mostre al Moma e al Whitney di New York , al Los Angeles County Museum, al San Francisco Museum of Modern Art , all'Institute of Contemporary Arts di Londra e al Centre Pompidou di Parigi. Nonostante ciò al di fuori del mondo dell’arte il suo nome resta poco conosciuto, sia per la sua produzione limitata che per una certa ritrosia a promuovere in qualsiasi modo la propria opera (rilascia rare interviste, ad esempio).

Anche per questo, la retrospettiva alla Fondazione Beyeler, dove viene, tra le altre cose, proiettato il cortometraggio, “Vija”, dei famosi registi Bêka & Lemoine (“in cui l’artista- spiega il museo- riflette sulla pratica artistica di una vita aprendo nel contempo le porte del suo atelier e persino i cassetti del suo archivio”) è un’occasione fuori dall’ordinario per conoscerla.

Vija Celmins, Untitled (Web #1), 1999 Senza titolo (Rete #1) Carbocino su carta, 56,5 x 64,9 cm Tate, ARTIST ROOMS acquisito congiuntamente con le National Galleries of Scotland grazie alla donazione d’Offay con il sostegno del National Heritage Memorial Fund edell’Art Fund 2008 © Vija Celmins, Courtesy Matthew Marks Gallery Foto: Tate

Nata a Riga nel 1938, Vija Celmins, fu costretta a scappare insieme alla sua famiglia dalla Lettonia già nel ’44 mentre l’Armata Rossa stava prendendo il controllo del Paese. Fuggirono su una nave tedesca durante l’epilogo della Seconda guerra mondiale per poi trasferirsi da un campo profughi all’altro, esponendosi al rischio di attacchi americani o inglesi. Ma se la cavarono, e nel ’48 il Church World Service li aiutò a ricominciare una vita negli Stati Uniti. Finirono ad Indianapolis, una città che alla piccola Vija non piaceva.

L’inizio fu difficile, visto che non sapeva nemmeno una parola di inglese e in quel periodo disegnare per lei fu un conforto e una medicina. Leggeva anche molto e le pagine di un fumetto le permisero di imparare l’inglese scritto.

Comunque nel giro di un lasso di tempo non troppo lungo si integrò completamente. Indianapolis però continuava a non piacerle e, quando fu il momento, andò a studiare all’UCLA di Los Angeles in California (tra i suoi insegnanti c’era Robert Irwin). Di lì si sarebbe spostata visitando i deserti che tanto spazio poi avrebbero avuto nella sua opera (li vide anche dall’alto, su aerei pilotati dai colleghi James Turrell e Doug Wheeler).

Ma la decisione di vivere sulla costa Est, avvenuta dopo uno scambio di abitazione con la collega Barbara Kruger, fu più ragionata (gli artisti che conobbe lì le parvero più concentrati ed ambiziosi; tra loro: Richard Serra, Joel Shapiro e Chuck Close; le vibrazioni nell’aria erano più in sintonia con il suo approccio alla pratica e i suoi obiettivi). E per questo definitiva: ancora oggi ha uno studio a Long Island (un’isola costiera di fronte a New York) e un piccolo loft a Soho (nel distretto di Manhattan).

All’inizio della sua carriera la signora Celmins aveva dipinto i pochi oggetti che arredavano il suo appartamento da studentessa (in realtà un negozio sfitto nel quartiere Venice di Los Angeles): una lampada a stelo, una stufetta elettrica ecc. E’ chiaro che la sua intenzione non era quella di esaltare gli oggetti della nuova quotidianità post-bellica, anche se l’influsso delle nature morte di Giorgio Morandi (artista che per lei era un mito e la cui opera aveva avuto modo di vedere nel corso di un viaggio in Italia) li riveste di una patina vitale che, a contatto con il loro aspetto misero, diventa inquietante. Siamo negli anni ’60, quelli della Pop art, che ha influenzato questi dipinti così come le sculture di pettini e matite sovradimensionati (in questo caso anche il Surrealismo ha fatto la sua parte).

La guerra in Vietnam cambierà tutto e la signora Celmins comincerà a dipingere gli aerei militari americani di un'altra guerra, quelli che tanto l’avevano spaventata durante la sua infanzia (oltre a rivolte e conflitti violenti in genere).

Vija Celmins, Untitled (Big Sea #2), 1969 Senza titolo (Grande oceano #2) Grafite su fondo acrilico su carta, 85,1 x 111,8 cm Collezione privata © Vija Celmins, Courtesy Matthew Marks Gallery

Ma lei non era contenta della direzione che stava prendendo il suo lavoro e optò per una mossa drastica: smise di dipingere. Da allora e fino agli anni ’80 disegnò soltanto. Visto che quel che cercava di fare era distaccarsi dall’immagine e indurre lo spettatore ad esplorarla senza innescare in lui alcun sentimento in qualche modo sull’onda del Minimalismo, cancellando di fatto la linea che separa figurazione ed astrazione, le matite le sembravano un mezzo adatto a raggiungere il suo scopo.

Usava fogli piccoli e una sola matita alla volta, abolì completamente il colore. I soggetti li prendeva da fotografie che aveva scattato lei stessa, e che in seguito continuò a riutilizzare (quelle della superficie della luna e dei pianeti erano invece della Nasa). Le onde sull’oceano furono il suo primo esperimento (e sarebbero diventate un tema classico nella sua produzione): cominciava dall’angolo in basso a destra e terminava con quello in alto a sinistra, procedendo dal basso verso l’alto e poi dall’alto verso il basso; per creare i chiaroscuri delle onde, invece, si limitava ad esercitare una pressione diversa sulla matita. Non cancellava mai

Nel ’79 le venne l’idea di raccogliere dei sassi di fiume che trovava particolarmente belli e rappresentativi e provare a riprodurli fedelmente per poi accostare quelli veri alla loro rappresentazione. Per farlo fece fare delle fusioni in bronzo della forma e poi dipinse la superficie con pennelli minuscoli con cui imitava ogni microscopica macchiolina di colore (in quest’opera alcuni hanno visto l’infusso di Jasper Johns, altro maestro che aveva avuto occasione di conoscere). Vennero talmente bene che persino lei pare faccia fatica a distinguerli. Anche se per finirle impiegò cinque anni.

Vija Celmins, To Fix the Image in Memory I-XI, 1977-1982 Fissare l’immagine nella memoria I-XI Undici pietre e undici oggetti creati (bronzo e colore acrilico), dimensioni variabili The Museum of Modern Art, New York. Dono di Edward R. Broida in onore di David e Renee McKee, 2005 © Vija Celmins, Courtesy Matthew Marks Gallery Foto: Digital image, The Museum of Modern Art, New York/Scala, Florence

Da quel momento in avanti riprese a dipingere. Cieli notturni, galassie, porzioni d’oceano, distese desertiche e, in tempi recenti anche neve. La sua tecnica l’autore e critico statunitense, Calvin Tomkins, l’ha descritta così nel ritratto che le ha dedicato sulla rivista New Yorker: “Dopo aver ottenuto l'immagine iniziale su tela, ricopre ogni stella con una minuscola goccia di cemento liquido e, quando questo si indurisce, ridipinge l'immagine. Può ripetere questo processo venti volte o più, carteggiando l'intera superficie, prima di stendere lo strato successivo di nero avorio mescolato con terra d'ombra bruciata, blu oltremare e a volte un tocco di bianco. Quando decide che lo sfondo è sufficientemente sviluppato, raschia via il cemento e, usando il pennello di zibellino più piccolo, riempie i piccoli buchi con vernice bianca mescolata con blu ceruleo, o a volte terra d'ombra naturale o ocra gialla”. La signora Celmins gli ha anche detto che più di una volta ha dovuto buttare dei dipinti per il troppo carteggiare. D’altra parte, lei, non si è mai fatta problemi a ricominciare da capo un lavoro che non la soddisfaceva.

Le ragnatele (altro suo soggetto molto esplorato), a differenza dei disegni delle onde, sono fatte con il carboncino sovrapposto in numerosi strati per poi creare le forme cancellando.

In un modo o nell’altro la tecnica della signora Celmins richiede pazienza, tempo e dedizione. Umiltà e fiducia nella propria perseveranza che si potrebbero paragonare al tentativo di svuotare la mente attraverso l’arte di alcuni suoi colleghi in Oriente. Non fosse che il suo lavoro per gran parte del tempo richiede anche attenzione.

Lei in merito ha detto: “Per quanto il mio lavoro si avvicini ai fatti, rimane pur sempre finzione, inventata e realizzata a mano. Le immagini trovate da cui dipendo mi permettono di dedicare molto tempo alla cura dell'opera, stendendo un'immagine più e più volte sulla superficie in modo che appartenga a quel luogo e a nessun altro. Quest'opera è la registrazione di uno sguardo indagatore e intenso, qualcosa di interiore che passa da me a essa e qualcosa che essa mi dice. Una relazione (…)”.

L’importante retrospettiva che la Fondazione Beyeler dedica a Vija Celmins, prende in considerazione l’intera produzione dell’artista statunitense (comprese stampe e sculture) dagli anni ’60 fino ai giorni nostri. Si concluderà il prossimo 21 settembre.

Vija Celmins, Astrographic Blue, 2019-2024 Blu astrografico Olio su tela, 50 x 33 cm Matthew Marks Gallery © Vija Celmins, Courtesy Matthew Marks Gallery Foto: Aaron Wax, Courtesy Matthew Marks Gallery

Vija Celmins Untitled (Regular Desert), 1973 Senza titolo (Deserto uniforme) Grafite su fondo acrilico su carta, 30,5 x 38,1 cm Collezione privata © Vija Celmins, Courtesy Matthew Marks Gallery Foto: Kent Pell

Vija Celmins Plate, 2013-2023 Oil on canvas, 45.7 x 33.6 Private Collection, Courtesy Matthew Marks Gallery ©Vija Celmins, Courtesy Matthew Marks Gallery Photo: Aaron Wax, Courtesy Matthew Marks Gallery

Vija Celmins, Shell, 2009-2010 Oil on canvas, 45.7 x 33 cm Private Collection ©Vija Celmins, Courtesy Matthew Marks Gallery

Installation view «Vija Celmins», Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 Photo: Mark Niedermann

Installation view «Vija Celmins», Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 Photo: Mark Niedermann

Installation view «Vija Celmins», Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 Photo: Mark Niedermann

Installation view «Vija Celmins», Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 Photo: Mark Niedermann

Installation view «Vija Celmins», Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 Photo: Mark Niedermann

Tra colori acidi e momenti da incubo sci-fi Luisa Gagliardi al MASI di Lugano

Louisa Gagliardi Night Caps 2022 Pittura gel e inchiostro su PVC Collezione privata, Basilea © the artist Foto: Stefan Altenburger Photography, Zürich

 In un quadro (“Deluge”) una donna si guarda riflessa nel soffione metallico della doccia, mentre le gocce d’acqua le piovono addosso: l’atmosfera è disturbante, lo spettatore viene messo (a viva forza) nei panni della protagonista e non gli calzano affatto. In un’altra (“Night Caps”), chi guarda si trova sovrastato da funghi altissimi, con ogni probabilità velenosi (e allucinogeni), sulla cui sommità si chinano tre volti, sovrastati dalla luna; anche qui non se la passa bene: perché quei tre sguardi puntati su di lui non promettono niente di buono.

D’altra parte Luisa Gagliardi, l’artista svizzera che ha pazientemente composto queste e molte altre opere dello stesso tenore, ha spesso dichiarato che considera l’osservatore parte fondamentale della sua poetica. L’unico in grado di attivarne l’universo.

Non che la signora Gagliardi abbia una vena sadica ma ritiene fondamentale alzare la soglia di attenzione del pubblico; coinvolgendolo direttamente nell’atmosfera misteriosamente contemporanea, sapientemente tinta di note sci-fi, di quelli che potrebbero sembrare dipinti ma che in realtà sono elaborazioni digitali. Con espedienti da fim o da serie TV di alto livello (pure se il mix di riferimenti a cui attinge è ben più vasto e spazia fino alla storia dell’arte meno recente).

Nata a Sion (nel cantone vallese, non lontanissimo dal confine italiano della Val d’Aosta) nell’89, Luisa Gagliardi (che adesso vive a Zurigo), dalla scorsa settimana è protagonista di una mostra al Museo della Svizzera Italiana di Lugano (il MASI). La personale, intitolata “Many Moons”, si dipana negli ampi ed immacolati spazi del LAC (la sede in vetro e cemento affacciata direttamente sul lago), e comprende due nuovi cicli pittorici monumentali oltre ad una serie di sculture create per l’occasione. E’ pure un’iniziativa importante, persino sontuosa, da dedicare ad un’artista ancora relativamente giovane. E, malgrado non costituisca una mossa inconsueta per l’istituzione svizzera, dimostra l’interesse (anche commerciale) suscitato dal suo lavoro.

Louisa Gagliardi Roundabout 2023 Smalto per unghie, pittura gel e inchiostro su PVC Ringier Collection, Switzerland © the artist Foto: Stefan Altenburger Photography, Zürich

Le scene immaginate dalla signora Gagliardi piacciono. Un po’ metafisiche un po’ surreali, un po’ psicologiche un po’ fantascientifiche, possono sembrare fin troppo accondiscendenti verso il gusto dei più. Tant’è vero che ad Art Basel (la famosa fiera svizzera che lei conosce e frequenta fin da bambina perché figlia di appassionati d’arte e di cui ha detto: "Si tratta di 7 giorni di importanti momenti condensati e tutti, galleristi, collezionisti e critici, sono lì. E sei circondata da tutti i tuoi idoli") lo spazio a lei concesso non ha fatto altro che crescere (come le sue quotazioni, non stratosferiche ma già piuttosto sostenute). Tuttavia in lei c’è di più. Sia nei soggetti che introducono soluzioni innovative (stranamente, visto quanto le atmosfere messe in scena siano state sfruttate nel tempo), che nello stile. L’artista, infatti, non si limita a dipingere ma simula la pittura con i media digitali (estendendone il campo d’applicazione e mettendone in discussione il concetto). Come prima cosa fa un bozzetto, poi sviluppa digitalmente un’immagine che raffina e completa passo a passo fino a stamparla su vinile, a quel punto interviene con gel trasparenti, vernici, glitter e smalti per unghie economici. A finire un singolo lavoro ci mette circa un anno.

La curatrice di “Many Moons”, Francesca Benini, ha spiegato: “La qualità ibrida delle opere di Louisa Gagliardi rappresenta in fondo perfettamente lo spazio in cui oggi avviene l’esperienza umana, nel quale i confini tra concreto e virtuale, tra intimità e visibilità, tra appartenenza e alienazione, tra voyeurismo ed esibizionismo, si confondono

Storicamente le innovazioni tecnologiche sono accolte in modo ambiguo: da una parte stupiscono, confortano persino, dall’altra suscitano apprensione e paura. Forse per questo le opere della signora Gagliardi, mentre lucide di smalto per unghie su PVC sfoggiano una tavolozza acida applicata a bizzarri soggetti sovradimensionati, sono così cariche d’inquietudine. Probabilmente sono proprio la digitalizzazione di massa e l’imporsi dell’intelligenza artificiale (che hanno accompagnato il percorso dell’artista svizzera dai primi anni 2000 fino ad oggi), la chiave di lettura di un mondo che riesce a sovrapporre momenti degni di “Black Mirror” alla quotidianità.

Non a caso parla spesso del confine che separa il sé riflesso dallo schermo dello smartphone da quello reale. Altri lavori, invece, evocano la catastrofe ecologica o semplicemente il conflittuale rapporto che passa tra una società civilizzata e natura. Mentre il campo del controllo attraverso la tecnologia si insinua in un ampio numero di opere.

In merito Benini ha aggiunto: “L'ambiguità tra realtà e rappresentazione è un tema centrale nella ricerca artistica di Louisa Gagliardi. L’atto di creare un mondo alternativo attraverso la pittura, nel quale entrare visivamente, si lega inevitabilmente alla capacità dei mezzi digitali di estendere lo spazio vitale e generare una realtà parallela, quest’ultima abitabile non solo idealmente

C’è poi un aspetto psicologico atemporale che attinge a paure varie come quella dell’ignoto, o quella di attrarre l’attenzione di potenziali predatori, fino ad una vaga minaccia al senso d’identità dell’osservatore. Oltre al fatto che i dipinti dell’artista svizzera sono fotogrammi di storie a noi sconosciute e non necessariamente destinate ad avere un happy end.

La mostra “Many Moons” di Luisa Gagliardi rimarrà al MASI di Lugano fino al 20 luglio 2025.

Louisa Gagliardi Birds of a Feather 2023 Smalto per unghie e inchiostro su PVC Collezione privata, Austria © the artist Foto: Stefan Altenburger Photography, Zürich

Veduta dell’allestimento, “Louisa Gagliardi: Many Moons”, MASI Lugano, Svizzera. Foto Luca Meneghel © the artist

Louisa Gagliardi Chaperons 2023 Pittura gel e inchiostro su PVC Ringier Collection, Switzerland © the artist Foto: Stefan Altenburger Photography, Zürich

Veduta dell’allestimento, “Louisa Gagliardi: Many Moons”, MASI Lugano, Svizzera. Foto Luca Meneghel © the artist

Louisa Gagliardi Cascade 2023 Pittura gel e inchiostro su PVC Collection Pictet © the artist Foto: Stefan Altenburger Photography, Zürich

Veduta dell’allestimento, “Louisa Gagliardi: Many Moons”, MASI Lugano, Svizzera. Foto Luca Meneghel © the artist

Louisa Gagliardi Visitors 2024 Pittura gel e inchiostro su PVC Galerie Eva Presenhuber, Eva Presenhuber, Zürich © the artist Foto: Stefan Altenburger Photography, Zürich

Veduta dell’allestimento, “Louisa Gagliardi: Many Moons”, MASI Lugano, Svizzera. Foto Luca Meneghel © the artist

Louisa Gagliardi Revealing 2022 Pittura gel, smalto per unghie e inchiostro su PVC Museo d’arte della Svizzera italiana, Lugano. Collezione Città di Lugano © the artist Foto: Stefan Altenburger Photography, Zürich

Luisa Gagliardi fotografata accanto a una sua opera Courtesy the artist and Galerie Eva Presenhuber Photo: Gertraud Presenhuber

“Dance with Daemons” alla Fondazione Beyeler, per dormire su un letto-robot di Höller con gli occhi al firmamento dell’arte contemporanea

INSTALLATION VIEW Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2024 Philippe Parreno, Membrane, 2023, cybernetic structure with sensorimotor capabilities and generative language processing; courtesy of the artist © Philippe Parreno; Fujiko Nakaya, Untitled, 2024, Potable water, 600 Meefog nozzles, High pressure pump motor system, Courtesy of the artist, © Fujiko Nakaya photo: Mark Niedermann

Fino all’11 agosto i visitatori della Fondazione Beyeler di Riehen (a una manciata di chilometri da Basilea, nella Svizzera tedesca) avranno la possibilità di vedere un museo del tutto trasformato, all’interno di un’esposizione temporanea concepita come “un organismo vivente” che si “evolve e muta nel tempo”. E poi potranno dormire in un’opera dell’artista tedesco Carsten Höller che, insieme al giovane (ma già molto affermato) scienziato Adam Haar, com’è sua abitudine, coglierà l’occasione per studiarli. Perché nell’opera “Dream Hotel Room 1: Dreaming Flying with Flying Fly Agarics” il letto del pubblico è un robot che rileva l’attività onirica delle persone e si muove di conseguenza.

L’esposizione, realizzata in collaborazione con la Luma Foundation di Zurigo, ha un titolo grintoso ed evocativo come “Dance with Daemons”, che ben si adatta ai concerti di musica elettronica che si terranno nel parco del museo per celebrare ed ammirare i tramonti d’estate con la giusta atmosfera. Ma soprattutto, sperimentale e (a suo modo) egualitaria, la mostra mette insieme un firmamento di stelle dell’arte contemporanea ma anche di molti altri campi. Gli organizzatori hanno, infatti, chiamato un gruppo di artisti e curatori (Sam Keller, Mouna Mekouar, Isabela Mora, Hans Ulrich Obrist, Precious Okoyomon, Philippe Parreno e Tino Sehgal) che, oltre ad ideare l’esposizione, a loro volta hanno chiesto di partecipare ad artisti, poeti, architetti, designer, musicisti, compositori, filosofi e ricercatori. “A tutti loro- ha scritto la fondazione svizzera- è stata data licenza di trasformare gli spazi della Fondation Beyeler, siano essi le sale, i giardini, le terrazze, ma anche gli ambienti non convenzionali come la biglietteria, la ‘green room’, lo shop, il foyer e il giardino d’inverno. Per il pubblico è un’opportunità imperdibile di riscoprire in modo inaspettato le sale espositive esistenti e di esplorare le aree meno abituali del museo”.

L’elenco completo comprende trenta nomi di diverse nazionalità (anche se sono molti gli statunitensi e diversi i francesi) e discipline (ma tutti almeno un po’ famosi, alcuni molto). Ci sono: l’artista britannico- keniota, Michael Armitage, la poetessa statunitense, Anne Boyer, il filosofo italiano, Federico Campagna, l’artista statunitense, Ian Cheng, il musicista e poeta statunitense, Chuquimamani-Condor, il musicista statunitense di origine indigena, Joshua Chuquimia Crampton, la pittrice sudafricana, Marlene Dumas, l’architetto messicana, Frida Escobedo, l’artista svizzero, Peter Fischli, l’artista francese, Cyprien Gaillard, il pittore rumeno, Victor Man, l’artista francese, Dominique Gonzalez-Foerster, l’artista statunitense, Wade Guyton, , Carsten Höller con Adam Haar appunto, l’artista francese, Pierre Huyghe, l’artista e cineasta statunitense, Arthur Jafa, l’artista coreana, Koo Jeong A (che quest’anno rappresenta la Corea alla Biennale di Venezia), l’artista statunitense, Dozie Kanu, l’artista brasiliano, Cildo Meireles, l’artista brasiliano, Jota Mombaça, l’artista giapponese, Fujiko Nakaya, la poetessa statunitense, Alice Notley, l’artista e poetessa nigeriano-americana, Precious Okoyomon, l’artista francese, Philippe Parreno, l’artista statunitense, Rachel Rose, l’artista tedesco- indiano, Tino Sehgal, l’artista di origine tailandese ed argentina (ora vive tra NYC, Berlino e Chiangmai), Rirkrit Tiravanija, l’artista franco-marocchino, Ramdane Touhami e lo sculture argentino, Adrián Villar Rojas.

Ad ogni modo gli ideatori, probabilmente prendendo spunto dalla struttura della scorsa edizione di Documenta (lì è stato un mezzo disastro, ma si trattava di collettivi del sud del mondo animati da uno spirito piuttosto sessantottino), hanno deciso di puntare sullo “scambio interdisciplinare e la responsabilità collettiva”. In sostanza si sono consultati a vicenda ma nell’ottica di un’organizzazione orizzontale.

Insieme hanno scelto di costruire la mostra come “un organismo vivente”, cioè di lavorare su un palinsesto dinamico. Sia nel senso che in ogni fase si si sono consultati tra loro, sia che l’hanno riempita con un ricco programma di eventi (mostre, momenti sociali, performance, concerti, letture di poesie, conferenze e attività svolte in comune), che non sono paralleli all’esposizione ma parte di essa e cambiano a seconda dell’ora del giorno in cui si entri nella Beyeler Foundation.

Una proposta dinamica più che statica- hanno spiegato con un linguaggio tutt’altro che chiaro, Parreno e Okoyomon- un progetto ontologico che si evolve e riflette la complessità e molteplicità insite nell’incontro di voci artistiche differenti sotto uno stesso tetto”.

Per tutta la durata dell’esposizione l’artista tedesco Carsten Höller presenterà “Dream Bed”, il suo ultimo progetto realizzato in collaborazione con lo scienziato cognitivo esperto di sonno e sogni, Adam Haar (co-inventore del dispositivo Dormio e della tecnica Targeted Dream Incubation che aiuta le persone a modificare i propri sogni, sta attualmente costruendo strumenti per il trattamento degli incubi). L’opera, che per esteso si chiama “Dream Hotel Room 1: Dreaming Flying with Flying Fly Agarics”, è una camera d’hotel posta all’interno del museo svizzero in cui i visitatori potranno schiacciare un pisolino durante il giorno al prezzo del biglietto, oppure dove potranno trascorrere un’intera notte di sonno (tra il venerdì e il sabato). Chi deciderà di provare l’opera di Höller diventerà, come sempre accade nel suo lavoro, una cavia da laboratorio. Il “Dream bed”, infatti, è un letto-robot che si muove in sincronia con l’attività onirica di chi lo usa, capace di rilevare i sogni attraverso sensori nel materasso (che misurano la frequenza cardiaca, la respirazione e i movimenti). Inoltre, quando l’ospite dell’opera sarà sul punto di addormentarsi o di svegliarsi, sopra la sua testa comincerà a ruotare la riproduzione di un fungo dai riflessi rossi.

Per dormire per davvero nella stanza con letto- robot di Höller bisogna prenotare online. I prezzi dovrebbero essere variabili per adattarsi a tutte le tasche ma, a parte la notte destinata agli studenti (già prenotata), non si possono dire molto abbordabili (mentre questo articolo viene redatto la camera è in vendita tra i 600 e i 2mila franchi svizzeri). Tuttavia, a pochi giorni dell’inaugurazione, oltre la metà delle date disponibili sono già andate esaurite.

Dance with Daemons” alla Beyeler Foundation di Riehen (Basilea) è stata inaugurata il 19 maggio scorso e durerà fino all’11 agosto 2024. “Nel corso della sua durata- promettono gli organizzatori- la mostra di gruppo interdisciplinare si evolverà e cambierà, proprio come un organismo vivente”. Di certo l’esposizione si trasformerà drasticamente, in seguito, quando verrà presentata ad Arles e in altre sedi della Luma Foundation.

INSTALLATION VIEW Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2024 © Gerhard Richter; Marlene Dumas; 2024, ProLitteris, Zurich photo: Mark Niedermann

INSTALLATION VIEW Wade Guyton, Untitled, 2023-24, Twenty-six paintings, all Epson UltraChrome HDX inkjet on linen Each painting: 213.4 x 175.3 cm Installation view photo: Courtesy der Künstler

INSTALLATION VIEW Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2024 Thomas Schütte, Hase, 2013, Patinated bronze; Fujiko Nakaya, Untitled, 2024, Potable water, 600 Meefog nozzles, High pressure pump motor system, Courtesy of the artist © 2024, ProLitteris, Zurich photo: Mark Niedermann

INSTALLATION VIEW Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2024 © Roni Horn; Josef Albers and Anni Albers Foundation; Mondrian/Holtzman Trust c/o HCR International Warrenton, VA USA; Ellsworth Kelly; 2024, ProLitteris, Zurich Photo: Mark Niedermann

INSTALLATION VIEW Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2024 Dominique Gonzalez-Foerster, Untitled (nuage), 2024, LED screen, courtesy of the artist © Dominique Gonzalez-Foerster photo: Mark Niedermann

RACHEL ROSE, WHAT TIME IS HEAVEN, 2024 © Rachel Rose

INSTALLATION VIEW Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2024 Adrián Villar Rojas, The End of Imagination VI, 2024, live simulations of active digital ecologies, and layered composites of organic, inorganic, human and machine-made matter, courtesy the artist © Adrián Villar Rojas photo: Mark Niedermann

INSTALLATION VIEW Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2024 Philippe Parreno, Membrane, 2023, cybernetic structure with sensorimotor capabilities and generative language processing; courtesy of the artist © Philippe Parreno; Fujiko Nakaya, Untitled, 2024, Potable water, 600 Meefog nozzles, High pressure pump motor system, Courtesy of the artist, © Fujiko Nakaya photo: Mark Niedermann