A Palazzo Strozzi Anselm Kiefer ha ricongiunto l’arte di oggi a quella del Rinascimento in una mostra imperdibile

L'enorme dipinto “Engelssturz” (“Angelo Caduto”) nel cortile di Palazzo Strozzi-“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

Quando Palazzo Strozzi ha reso noto che Anselm Kiefer, in occasione della mostra a lui dedicata, avrebbe realizzato un’opera per il cortile rinascimentale dell’edificio, in molti hanno pensato che avrebbe presentato una delle sue torri apparentemente instabili; forse una di quelle fatte di containers o magari di rovine polverose, come già aveva fatto al Pirelli Hangar Bicocca ormai vent’anni fa (lo spazio espositivo milanese celebrerà la ricorrenza il 21 di aprile). Invece no, l’artista tedesco si è cimentato con una enorme tavola, forse una delle più grandi mai completate: un dipinto alto sette metri, talmente sovradimensionato da occupare interamente l’interno del loggiato e svettare fin quasi alle finestre del primo piano (l’opera è stata posizionata con il contributo della Fondazione Hillary Merkus Recordati). Engelssturz” (“Angelo Caduto”), così si chiama il quadro, dà il nome alla mostra, ne illustra il filo conduttore , ed è un monumentale confronto di Kiefer con la pittura del Rinascimento, risolto con un angelo lieve (quasi ineffabile, pure se in parte cupo e rugginoso), dipinto su un cielo piatto e sfavillante di foglia d’oro; che alla base dell’opera, ritrova però, i volumi materici tipici dell’artista, tanto densi che gli abiti vuoti, rigidi sulla superficie pittorica e poi ancora dipinti, a un primo sguardo, neppure si vedono.

“Engelssturz” è, per il momento, anche un’opera pubblica (chiunque per vederla o fotografarla sarà libero di entrare nel cortile di Palazzo Strozzi), per realizzarla, l’artista ha avuto bisogno di osservare lo spazio dall’alto. Questo è successo parecchio tempo fa, dato che Angeli Caduti” (“Fallen Angels”), l’importante personale di Anselm Kiefer che si è inaugurata venerdì scorso a Firenze, ha avuto una gestazione durata sette anni.

Lui, che qui propone vecchi lavori ma anche tante nuove produzioni (in tutto 25 pezzi, per la maggior parte di grandi dimensioni, tra cui una spettacolare e complessa installazione), una volta ha detto: “Lavoro a molti progetti contemporaneamente. Il risultato è simile a un giardino dove crescono molte piante contemporaneamente”.

Alcune opere della serie “Heroische Sinnbilder” (“Simboli Eroici”) in mostra a Firenze-“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

Una di quelle frasi che probabilmente avranno fatto storcere il naso ai suoi conterranei, che, a momenti gli rimproverano l’aria da austero vate, altre le radici antiche della sua arte, altre ancora l’erudizione. "Solo che noi in questo paese non abbiamo ancora capito bene cosa abbia da proclamare", ha commentato una volta un critico tedesco sul quotidiano Die Welt. Ma probabilmente il fatto è solo che le cose tra Kiefer e la Germania sono cominciate male. Alla fine degli anni ’60, infatti, l’artista presenta la serie “Heroische Sinnbilder (“Simboli Eroici”: titolo rubato a un articolo pubblicato nel ’43 sulla rivista ufficiale delle arti naziste), in cui si fa fotografare in vari luoghi europei (tra cui alcuni occupati dall’esercito) mentre indossa la divisa della Werhmacht del padre e alza il braccio destro in segno di saluto: apriti cielo! L’intenzione dell’artista era quella di spingere provocatoriamente al dialogo i suoi connazionali, esortandoli ad affrontare il rimosso; i tedeschi da parte loro, invece, si sono offesi a morte e non l’hanno mai completamente perdonato. Il ché a conti fatti è bizzarro, visto che Kiefer e la sua arte sono molto germanici.

A Palazzo Strozzi ci sono anche quattro fotografie della serie “Heroische Sinnbilder. Per l’occasione sono state stampate su lastra di piombo, lavorate a simulare degli stendardi, giacchè per lui nessuna opera è mai finita (finchè rimangono nel suo studio continua a lavorarci sopra, così, a volte, un pezzo cominciato negli anni 60 viene presentato in forma rivista nel 2024). E a vederle adesso, lievi sulla distesa argentea della superficie metallica, fanno pensare alla pittura romantica tedesca e a Caspar David Friedrich, con il suo “Viandante sul mare di nebbia”, in particolare. D’altra parte Kiefer è così: un indistricabile gomitolo di colti riferimenti pittorici, letterari, filosofici, poetici, teologici, astronomici, scientifici e persino cabalistici, che trovano inaspettatamente terreno fertile nello stile, nelle tecniche e nel pensiero, del tutto personali, dell’artista.

Una stanza della mostra, in fondo il dipinto con carciofi "Cynara"-“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

Kiefer è uno dei massimi artisti viventi- ha detto Direttore Generale della Fondazione Palazzo Strozzi e curatore della mostra, Arturo Galansino- e la sua ricerca attinge dalla letteratura, dalla filosofia e dalla storia, in una riflessione continua sulla natura dell’essere umano.

Di fronte all’ospite d’onore di un evento certe frasi sono dovute ma Kiefer è un artista al cospetto del quale la rilevanza del lavoro di chiunque altro si incrina. Uno degli unici due contemporanei esposti al Louvre, l’unico ad aver posato una complessa installazione permanente, pittorica e scultorea, al Pantheon di Parigi (nel 2020 su incarico di Macron in persona). Del resto i francesi lo adorano e lui li ricambia vivendo e operando nel loro Paese (sta a Parigi e ha uno studio di 3mila 300 metri quadri a Croissy-Beaubourg, alle porte della capitale; mentre l’ex fabbrica di seta di Barjac, La Ribaute, sua ex-abitazione-studio nel sud, in cui ha costruito un dedalo di gallerie e percorsi sotterranei, sculture, dipinti e padiglioni, è aperta al pubblico). Pluripremiato (anche dalla Germania con la Croce al Merito) è conosciuto per l’impegno che mette nel lavoro e per l’intransigenza verso un certo tipo di collezionismo e di mercato dell’arte (ad esempio si rifiuta categoricamente di esporre in famose fiere, nonostante sia rappresentato dalla prestigiosa Gagosian Gallery). Anche per questo fa dipinti così grandi (ritenuti dal mercato difficili da vendere e movimentare). Che non sono, oltretutto, per niente facili da portare a termine: Kiefer per dipingere viene issato con un carrello elevatore da cui applica il colore con delle spatole (non usa pennelli), come documentato dal regista Wim Wenders nel film “3D Anselm” (uscito lo scorso anno). Usa i materiali più disparati (piante, terra, vetri rotti, metalli, vestiti, semi, paglia, radici ecc.). Anche se predilige quelli che, in passato, usavano gli alchimisti (come il piombo). In mostra a Palazzo Strozzi c’è persino un dipinto (“Cyrana”, dedicato alla mitologia greca e alla storia della ninfa che respinse Zeus) in cui la foglia d’oro è disseminata di veri carciofi (seccati e dorati). E poi fa esperimenti, una volta ha spiegato: “Non uso colori convenzionali e nemmeno la vernice. Uso le sostanze. Una macchia sbiadita che pare rossa, per esempio è ruggine, semplicemente ruggine.” Dice che vuole estrarre "lo spirito che già vive dentro” i materiali e per farlo sottopone le opere a bagni acidi o si limita a colpirle con asce e bastoni.

Visitatori guardano l'installazione “Vestrahite Bilder”(“Dipinti Irradiati”)- “Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

Una delle stanze più stupefacenti della mostra fiorentina di Kiefer, definita da Galansino “una sala che è un colpo al cuore. (…) un ambiente veramente immersivo”, è quella dedicata all’installazione “Vestrahite Bilder(“Dipinti Irradiati”, 1983-2023), composta da sessanta opere di diverso formato, che sono stati irraggiate con il plutonio.

La distruzione è un mezzo per fare arte- ha detto- Io metto i miei dipinti all’aperto, li metto in una vasca di elettrolisi. La scorsa settimana ho esposto una serie di dipinti che per anni sono stati sottoposti a una sorta di ‘radiazione nucleare’ all’interno di container. Ora soffrono di malattie da radiazione e sono diventati temporaneamente meravigliosi”.

I quadri sono stati disposti l’uno accanto all’altro (come si usava anche nel Rinascimento), ad occupare tutte le pareti e l’intero soffitto, e lasciati nella penombra, mentre uno specchio a pavimento permette di vedere al di sopra della propria testa ma, nello stesso momento, dà l’impressione di precipitare (qui, come sempre succede con Kiefer, i riferimenti sono infiniti a cominciare dal tema dell’angelo caduto e dalla Sindrome di Stendhal, per arrivare alla fragilità della vita e alle catastrofi nucleari nella Storia). L’opera è vibrante e la cornice quattrocentesca dell’edificio, fiduciosa e leggere, la completa, le regala la forza (che in un luogo più cupo o privo di storia non avrebbe) per sostenere le reazioni viscerali del pubblico di fronte a un tale bombardamento di simboli e pittura. D’altra parte è Kiefer stesso a ripetere che l’arte è una questione di equilibrio tra ordine e caos. E poi Palazzo Strozzi, che ha visto per la prima volta a vent’anni nel corso di un viaggio in Italia, è uno dei suoi edifici storici preferiti.

“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

Nato l’8 marzo del ’45 a Donaueschingen (graziosa cittadina tedesca nel circondario della Foresta Nera), che proprio quella notte venne bombardata, Anselm Kiefer, avrebbe potuto morire appena nato se non fosse stato all’ospedale, visto che la loro casa venne abbattuta durante l’attacco. Da bambino giocava con le macerie con cui amava costruire casette e piccoli edifici, aveva anche una memoria straordinaria (ha dichiarato che in quel periodo sapeva a memoria 200 poesie) e leggeva molto (passione che non lo avrebbe mai abbandonato). E’ stato iscritto alla facoltà di Diritto e Lingue Romanze che ha però abbandonato per l’Accademia di Belle Arti di Friburgo in Brisgovia prima e l'Accademia d'Arte di Karlsruhe poi. Oggi è uno degli artisti più stimati al mondo e, almeno secondo una rivista mensile tedesca, anche uno dei più ricchi di Germania (lui dice di no) nonostante le sue quotazioni in asta non raggiungano quelle di altri professionisti (ad esempio, l’inglese David Hockney, l’italiano Maurizio Cattelan, o lo statunitense Jeff Koons), le sue opere sono esposte in un consistente numero di autorevoli musei nel mondo. Ha avuto due mogli e ben cinque figli. Chi lo ha conosciuto di persona, dice che, a dispetto dell’aria ascetica e nonostante la vasta cultura di cui dà prova, sia un tipo scherzoso e relativamente alla mano, oltre ad essere un appassionato di macchine e un guidatore impavido.

Con l’Italia ha un legame consolidato (già nell’80 ha esposto alla Biennale di Venezia, mentre nel ’97 è tornato in laguna in occasione dell’Esposizione Internazionale d’Arte per una personale al Museo Correr). Come ha testimoniato la grande mostra tenutasi a Palazzo Ducale di Venezia due anni fa (sempre in concomitanza con la Biennale) e adesso la personale a Palazzo Strozzi. Quest’ultima tuttavia, supera la precedente, perché se nel primo caso Kiefer ha bisticciato con la location per trasformarla in qualcosa di diverso, qui mette in fila le note dominanti della sua poetica modellandole intorno alla melodia degli angeli caduti. Un tema che parla del legame tra divino e terreno ma che fa pure un po' cattivo ragazzo e, anche se in una maniera tortuosa, gli si adatta.

Angeli Caduti” (“Fallen Angels”) la personale di Ansel Kiefer rimarrà a Palazzo Strozzi di Firenze fino al 21 luglio 2024. E’ una mostra assolutamente da non perdere.

“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

Arturo Galansino e Anselm Kiefer osservano i particolari di un'opera in mostra- “Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ludovica Arcero, SayWho.

Ansel Kiefer parla nella stanza in cui è collocata l'installazione "Dipinti Irradiati"- “Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ludovica Arcero, SayWho.

“Untrue – Unreal”: Anish Kapoor a Palazzo Strozzi si confronta con il Rinascimento tra pugni allo stomaco e pura bellezza

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi. Svayambhu, 2007; cera, vernice a base di olio. Endless Column, 1992; tecnica mista, pigmento. ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

Già dalla prima mattina il centro di Firenze è gremito, c’è gente di ogni nazionalità. Una coppia di giovani coreani si fa fotografare su Piazza del Duomo: sono eleganti e bellissimi, sembrano i protagonisti di una serie tv e forse lo sono davvero. Chissà se anche Anish Kapoor, durante i giri per le strette vie del capoluogo toscano, è stato scambiato per un comune turista? Anche se lui, nato a Mumbai da padre indiano e madre ebrea- irachena, dopo un periodo trascorso in Israele e una vita vissuta nel Regno Unito, ha trovato nell’Italia una nuova patria (possiede una casa a Venezia, città che da un anno e mezzo ospita il suo studio e, dal 2024, vedrà operativa pure la Fondazione Anish Kapoor a Palazzo Priuli Manfrin).

E poi era a Firenze per presentare la sua ultima, importante, mostra.

Anish Kapoor. Untrue Unreal”, infatti, è stata inaugurata lo scorso fine settimana a Palazzo Strozzi, edificio simbolo del Rinascimento e prestigiosa sede espositiva (prima dell’artista anglo- britannico ci sono state, ad esempio, le personali di: Ai Weiwei, Marina Abramović, Tomás Saraceno, Jeff Koons e Olafur Eliasson). Curata da Arturo Galansino (direttore di Palazzo Strozzi e presidente dell’omonima fondazione), era una mostra attesa, che ha richiesto anni di preparazione e presenta un’attenta selezione di alcune tra le opere più importanti del famoso scultore.

D’altra parte, Sir Anish Mikhail Kapoor, classe 1954, dottore onorario dell’Università di Oxford, dopo aver rappresentato l’Inghilterra alla Biennale di Venezia (che l’ha anche premiato), aver vinto il Turner Prize ed esposto al Tempio Ancestrale Imperiale (alle porte della Città Proibita di Pechino) o in santa sanctorum degli artisti come la Royal Accademy e la Turbine Hall della Tate Modern, ma soprattutto aver completato progetti d’arte pubblica che gli hanno regalato la fama planetaria (come la scultura “Cloud Gate” comunemente chiamata “The Bean”- “Il Fagiolo” ora simbolo di Chicago o “Orbit”, la Torre Archelor Mittal, posizionata al Parco Olimpico di Londra) e un discreto conto in banca (il suo turnover annuo è stimato in oltre 10 milioni di euro), non sembra uomo da accontentarsi con molto meno.

Sulla scia della nostra serie di esposizioni- ha detto Arturo Galansino- dedicate ai maggiori protagonisti dell’arte contemporanea, Kapoor si è confrontato con l’architettura rinascimentale. Il risultato è totalmente originale, quasi una sorta di contrapposizione dialettica, dove simmetria, armonia e rigore sono messi in discussione e i confini tra materiale e immateriale si dissolvono. Nelle geometrie razionali di Palazzo Strozzi, Kapoor ci invita a perdere e ritrovare noi stessi interrogandoci su ciò che è untrue o unreal”.

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi. Void Pavilion VII, 2023; tecnica mista, vernice. ©photoElaBialkowskaOKNOstudio. ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

Minuto, look classico- informale, Anish Kapoor, parla con piglio deciso, ride spesso ma sembra anche capace di spazientirsi velocemente, ha un bell’inglese fluente, garbatamente musicale, da quartieri alti, ma sa anche qualche parola in italiano che non si azzarda però a usare durante un’occasione ufficiale. Il che nel complesso è strano dato che in passato pare abbia sofferto di dislessia.

Il titolo della mostra è ‘Untrue- Unreal’- spiega- Perché ciò che è imperscrutabile e illusorio fa parte dell’essenza di ciò che noi siamo. In fondo in questa vita ci siamo per un tempo molto breve, non sappiamo cosa ci sia prima dell’inizio e cosa dopo a fine e questo fa parte della disperazione della condizione umana che è una costante”.

A Palazzo Strozzi c’è anche un lavoro progettato appositamente per il cortile (“Void Pavillion VII” cioè “Il padiglione del vuoto VII”, realizzato con il sostegno della Fondazione Hillary Merkus Recordati) che è accessibile a tutti gratuitamente.

Si tratta di una stanza totalmente bianca (posta al centro dello spazio delimitato dal loggiato) in cui sono posizionati tre rettangoli più neri del nero. Kapoor li ha dipinti con il famoso Vantablack (ideato dalla ditta britannica Surrey Nanosystems, che poi, suscitando polemiche, lo ha concesso in via esclusiva allo scultore, il quale lo ha rinominato Kapoorblack). Il colore, assorbe fino al 99,965% della luce, ed è più nero di un buco nero. Ne consegue che sia impossibile capire se si stà osservando una superficie bidimensionale, un oggetto o un precipizio.

Come fossero finestre sulla fallibilità dei nostri sensi, sulla piccolezza e inadeguatezza della nostra specie, gli scuri rettangoli, ci conducono in uno spazio psichico sull’orlo dell’abisso. D’altra parte, la paura della morte, le domande sull’esistenza, insieme alla sessualità, sono i temi ricorrenti alla base dell’intera opera di Kapoor (da decenni pratica la meditazione zen oltre ad essere stato a lungo in analisi, cose che l’hanno di sicuro influenzato). Così come la ritualità, i simboli e gli oggetti ideali (quelli che ci sono sempre stati senza bisogno che qualcuno li creasse).

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi. To Reflect an Intimate Part of the Red. 1981; tecnica mista, pigmento. ©photoElaBialkowskaOKNOstudio. ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

Ma, nel frattempo, Kapoor si interroga anche su altre questioni. Ad esempio, su come sovvertire l’armonica simmetria del palazzo rinascimentale (proiezione di un mondo ideale che non lascia spazio alla sofferenza ma nemmeno alla passione e ai colpi di testa). Dimensione, quindi, poco adatta a tutti gli abitanti della contemporaneità e men che meno a lui che con l’autorità e l’ordine precostituito ha sempre avuto problemi (figlio di un ammiraglio- cartografo e di una sarta- quasi stilista ha avuto prima contrasti con i genitori e poi con l’ambiente provinciale indiano ed israeliano incapace di accettare un apolide).

Void Pavillion VII” ci riesce assecondando la simmetria architettonica, per farla assorbire subito dopo dalle voragini oscure dipinte nelle pareti. Mentre per l’esposizione nel suo complesso l’operazione è stata più complicata. “Ha litigato a lungo con il palazzo!” ha detto con una certa dose di humor, Arturo Galansino.

C’è una successione classica di ambienti- ha, poi, spiegato Kapoor- e la difficoltà nel creare questa mostra è stata proprio nell’assecondare questo flusso, questa successione, ma anche nell’interromperlo o sconvolgerlo. E poi tutta la tematica della mostra è sull’oggetto vuoto ma, essendo io pieno di contraddizioni, gli oggetti che vedete sono pieni. Sono pieni di oscurità, sono pieni di riflessi degli specchi e ovviamente questa è una complicazione. Perché ho voluto crearlo in stanze che sono così classiche anche nel rapporto tra gli oggetti, più o meno piccoli, e l’ampiezza della sala”.

Ad ogni modo gli riesce perfettamente. ll rapporto tra i colori, le superfici, le forme e gli ambienti imprime una curvatura inaspettata al percorso del visitatore, dilatando il tempo, ingannando il colpo d’occhio. La mostra sembra più grande di altre che si sono tenute negli stessi ambienti, pur con un numero uguale o inferiore di opere.

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi. Svayambhu, 2007; cera, vernice a base di olio. ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

Tuttavia, con attitudine teatrale, Kapoor, cattura l’attenzione del pubblico ma non è indulgente verso di lui. Tanto che la prima opera in mostra è “Svayambhu” (termine sanscrito che definisce ciò che si genera autonomamente), una massa di cera rossa terribilmente scrivente, montata su una rotaia che si muove lentissimamente ma inesorabilmente da una stanza all’altra, attraversando una porta di poco più grande di lei. Tralasciando i rimandi alla carnalità espliciti e violenti che possono suscitare impressione, l’opera non perdona: il visitatore che si avvicina troppo si macchierà scarpe o abiti e dovrà buttare tutto nell’immondizia.

Lo è di più con l’architettura. Le sale risultano abbellite dai pigmenti vivi di opere come “To Reflect an Intimate Part of the Red” o “Endless Column” (in cui le cromie si accumulano alla base delle sculture facendo pensare di rivestire oggetti invisibili o fatti direttamente con polvere colorata) ma anche quando incontrano le sue sculture riflettenti (in mostra ce ne sono parecchie). Forme, spesso concave, prive di linee di saldatura, che restituiscono la realtà in maniera molto originale (deformano, rovesciano, fanno apparire e scomparire le persone senza motivo) mentre valorizzano invariabilmente gli ambienti in cui vengono esposte.

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi. Vertigo, 2006, acciaio inossidabile cm 225 × 480 × 60; Mirror, 2018, acciaio inossidabile cm 195 × 195 × 25; Newborn, 2019, acciaio inossidabile, cm 300 × 300 × 300  ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

E se “Angel”, composta da grandi pietre di ardesia che sembrano leggere ricoperte come sono da strati di un pigmento blu intenso, quasi ultraterreno, suggerisce pace e dà l’impressione di ammirare dei frammenti di cielo caduti, la serie in cui usa resine e pittura abbinata ai titoli (sempre, comunque, centrali nel lavoro di Kapoor) può arrivare a suscitare disgusto. Stesso discorso per la sessuale “A Blackish Fluid Excavation”..

La mostra “ Untrue Unreal” di Anish Kapoor, rimarrà a Palazzo Strozzi di Firenze fino al 4 febbraio 2024.

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi Angel, 1990 ardesia, pigmento ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi. Sala 6: Tongue Memory, 2016 silicone, vernice, cm 250 × 130 × 70 Today You Will Be in Paradise 2016 silicone, vernice cm 250 × 195 × 45 Three Days of Mourning 2016 silicone, tecnica mista, vernice cm 250 × 120 × 70 First Milk, 2015, silicone, fibra di vetro, vernice ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi Gathering Clouds, 2014 fibra di vetro, vernice cm 188 × 188 × 39 ciascuno ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi Gathering Clouds, 2014 fibra di vetro, vernice cm 188 × 188 × 39 ciascuno ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi. Vertigo, 2006, acciaio inossidabile cm 225 × 480 × 60; Mirror, 2018, acciaio inossidabile cm 195 × 195 × 25; Newborn, 2019, acciaio inossidabile, cm 300 × 300 × 300  ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi. Sala 6: A Blackish Fluid Excavation, 2018 acciaio, resina cm 150 × 140 × 740 Tongue Memory, 2016 silicone, vernice, cm 250 × 130 × 70 Today You Will Be in Paradise 2016 silicone, vernice cm 250 × 195 × 45 Three Days of Mourning 2016 silicone, tecnica mista, vernice cm 250 × 120 × 70 First Milk, 2015, silicone, fibra di vetro, vernice ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi. Void Pavilion VII, 2023; tecnica mista, vernice. ©photoElaBialkowskaOKNOstudio. ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

Yan Pei-Ming: “Dipingo direttamente sulla tela. Cerco di domare la pittura”

Yan Pei-Ming Pittore di Storie, Palazzo Strozzi. Veduta dell'installazione © Photo: Ela Bialkowska OKNO studio

Di origini cinesi ma naturalizzato francese, Yan Pei-Ming, ha saputo fare tesoro della tradizione pittorica occidentale guardando tanto ai grandi maestri del passato quanto a quelli più recenti. Raccogliendo, tuttavia, nelle sue opere anche riferimenti ai lavori su carta dei classici orientali, ai dipinti astratti e alla Pop Art. Ma l’elenco potrebbe essere molto più lungo perché Pei-Ming è un professionista tanto scrupoloso quanto curioso, e la sua opera, capace di fondere passato e presente attraverso l’instancabile dedizione al mestiere, tende all’universalità. Dove i formati grandi, anzi mastodontici, delle sue tele, talvolta concepiti come polittici, si sposano alla tavolozza “controllata” (ha per lungo tempo lavorato quasi esclusivamente in bianco e nero o nelle sfumature del rosso, per approdare, in tempi più recenti, a una forma di policromia). E a un numero di pennellate limitato (per raggiungere questo risultato usa pennelli enormi, persino scope).

Spesso riunisce i suoi dipinti in monumentali gruppi, appositamente concepiti, per abbattere il confine che separa le icone collettive dalla dimensione intima (dell’artista e dello spettatore). Utilizzando come soggetti, oltre ai capolavori del passato, anche immagini tratte da riviste, quotidiani e foto di famiglia. In una rilettura, a tratti onirica e dolente, il più delle volte tragica, di quando in quando venata d’ironia, delle immagini e degli eventi che definiscono la contemporaneità e la memoria comune.

La pittura di Yan Pei-Ming è feroce.

Conosciuto per ritratti ed autoritratti ha, di volta in volta, rivisitato anche il genere del paesaggio, della pittura storica, di quella religiosa, della vanitas e la natura morta in genere. Da inizio mese Palazzo Strozzi (Firenze) gli dedica un’ampia personale. La più grande mai tenutasi in Italia con oltre 30 opere, che coprono un piuttosto vasto arco temporale nella sua produzione (dal primo decennio del 2000 fino all’anno in corso). L’esposizione si intitola Yan Pei-Ming Pittore di Storie e, in occasione della quale, l’artista donerà un suo autoritratto (Yan Pei-Ming, Autoportrait, 2022) alle Gallerie degli Uffizi. E’ curata dal direttore di Palazzo Strozzi e Presidente della Fondazione Palazzo Strozzi, Arturo Galansino. Quest’utimo gli ha fatto una lunga intervista che insieme ad approfondimenti e splendide riproduzioni è stata pubblicata sul catalogo della mostra (edito da Marsilio). Eccone alcuni ampi stralci per voi:

Yan Pei-Ming di fronte a un'opera a Palazzo Strozzi Foto: Gianmarco Rescigno

Negli anni Ottanta, quando hai cominciato a lavorare, il figurativo non era molto di moda. Perché hai deciso di continuare a utilizzare questo linguaggio, in un mondo dell’arte che spesso ha intrapreso strade diverse?

Mi è sempre piaciuta la pittura figurativa. Mi permette di esprimermi al meglio. Effettivamente all’epoca non era in voga, ma mi sono rifiutato di seguire la moda. Molto spesso, quando si decide di seguirla, è già passata di moda. Da sempre mi sono impegnato nella pittura figurativa. È con questo linguaggio che mi sento più a mio agio e dunque utilizzo questa forma di espressione.

In che modo le vicende biografiche hanno influenzato il tuo lavoro?

Sono sempre stato interessato ai ritratti di famiglia. Quando ero giovane in Cina, se ero a corto di modelli, potevo sempre chiedere ai membri della mia famiglia di posare per me. È un soggetto piuttosto intimo che mi permette di raccontare un universo familiare attraverso la grandezza della pittura. Dal soggetto della famiglia si può facilmente passare ad altri. Il ritratto è il centro del mio universo.

In che modo i ritratti di Mao hanno avuto un peso nella tua fortuna iniziale?

Sono cresciuto durante la Rivoluzione culturale con il ritratto di Mao Zedong. A quel tempo un’immagine non era mai stata così diffusa. Il soggetto stesso di Mao Zedong è importante: chi conosceva l’artista Yan Pei-Ming da giovane? Nessuno, mentre tutti conoscevano Mao Zedong. I dipinti di Mao Zedong introducono a una lettura contemporanea della Cina. Per me è anche un modo per realizzare ritratti al di fuori della tradizione propagandistica, e molto più personali.

Mao rouge 2006 olio su tela, cm 350 × 350 Collezione privata Photography: André Morin © Yan Pei-Ming, ADAGP, Paris, 2023.

(…)

Dal 1983, dopo il viaggio di istruzione ad Amsterdam, dove hai scoperto gli autoritratti di Rembrandt e Van Gogh, hai smesso di dipingerne e hai ricominciato solo nel 1994. Eri troppo giovane e sei stato sopraffatto dalle loro opere, oppure come spieghi la tua reazione?

Fin da quando ero molto giovane, ho sempre disegnato autoritratti. Quando ho scoperto gli autoritratti di Rembrandt e Van Gogh ero in un periodo in cui dipingevo soprattutto ritratti di persone anonime o scene espressioniste. Non credo di essere stato sopraffatto dalle loro opere, è solo che in quel periodo avevo altri interessi. Volevo anche evitare di realizzare opere troppo figurative.

E i tuoi autoritratti?

L’autoritratto è un soggetto ineludibile e affascinante per tutti i pittori. Dipingere un ritratto di sé stessi significa mettere in gioco l’autostima dell’artista. C’è un lato eterno nell’autoritratto di Rembrandt, Picasso, Van Gogh... Credo che tutti i pittori, me compreso, siano affascinati dagli autoritratti di altri artisti. Direi che rivelano il modo in cui si esprimono.

Arturo Galasino di fronte a un'opera di Yan Pei-Ming a Palazzo Strozzi Foto: Gianmarco Rescigno

A cosa ti sei ispirato per l’autoritratto che donerai agli Uffizi e che entrerà a far parte della collezione iniziata nel 1664 dal cardinale Leopoldo de’ Medici? Si tratta della più vasta e importante collezione di autoritratti al mondo, che continua ad accrescersi grazie alle donazioni dei maggiori artisti contemporanei.

È un autoritratto in bianco e nero, frontale. Molti pittori classici si ritraggono di tre quarti, ma io ho scelto di guardare il mondo. Conosco bene le Gallerie degli Uffizi, perché ci sono stato diverse volte. È uno dei musei più belli del mondo. Consegnare un quadro a un museo del genere è un grande onore per un artista vivente. Entro così in una continuità che mi porrà per i secoli a venire nella schiera dei pittori più illustri.

La mostra a Palazzo Strozzi si apre con un tuo autoritratto («Nom d’un chien! Un jour parfait»), ma per la prima volta è affiancato da un oggetto del tuo studio fatto dei resti dei tuoi dipinti, una sorta di autoritratto tridimensionale legato alla matericità del tuo lavoro. Come si è venuto creando nei decenni?

Ho iniziato ad accumulare la vernice nel 1996, con l’idea di lasciare una traccia. Prima di allora gettavo gli avanzi di pittura nella spazzatura. Poi un giorno ho iniziato a riunire gli avanzi su un vecchio carrello di metallo. Dopo qualche anno, la pila stava già diventando piuttosto alta, così ho deciso di ingrandire il carrello. L’ho tagliato al centro e l’ho reso più largo, mantenendo però le vecchie ruote. Poi ho messo al centro un’asta di metallo con molte croci, per sostenere la materia. Questo accadeva più di 25 anni fa. Quello che mi interessa è il tema del tempo: se ci sono così tanti residui di pittura, significa che c’è altrettanta pittura applicata alle tele. Direi che il 3% dei resti di pittura si trova su questa struttura, il 2% sul pavimento e il 95% sulla tela. Questo carrello con i resti di vernice è in un certo senso il mio autoritratto come pittore. È la rappresentazione del tempo che passa. Volevo esporlo già due o tre anni fa, ma non ne ho avuto la possibilità. Palazzo Strozzi è il luogo ideale per esporlo.

Poiché dai tanta importanza ai titoli che scegli, quale il significato di «Nom d’un chien! Un jour parfait»?

L’espressione «Porca miseria!» esprime sorpresa. Un giorno Xavier Douroux, uno dei fondatori di Le Consortium, venne a trovarmi nello studio. Quando ha visto questo lavoro, ha esclamato: «Nom d’un chien!». Immediatamente mi sono detto che avevo il mio titolo. Era molto sorpreso dal dipinto e io ero sorpreso che avesse gridato in quel modo. Poi ho aggiunto «Un giorno perfetto». Quindi il titolo è stato molto spontaneo. Ma quando mi vengono in mente i titoli, possono essere molto variabili: alcuni sono spontanei, altri sono il risultato di una riflessione accurata, altri ancora sono il risultato di una discussione...

Nom d'un chien ! Un jour parfait, 2012 trittico, olio su tela, n. 2 cm 400 x 280 ciascuno Collezione privata Photography: André Morin © Yan Pei-Ming, ADAGP, Paris, 2023.

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Yan Pei-Ming tra Oriente e Occidente: dragoni, tigri, Bruce Lee e Buddha parlano del tuo mondo ancestrale, ma vivi soprattutto in Occidente e ne hai interiorizzato l’immaginario figurativo e culturale. Ti senti diviso o hai fatto convivere le due realtà?

Sono nato e cresciuto a Shanghai. A venti anni sono arrivato in Francia, dove ho frequentato la scuola d’arte. Questo mi ha permesso di comprendere l’arte occidentale. Quando si vive a Shanghai per venti anni, non si può mai essere completamente sradicati dalla propria cultura cinese. È come se fossi stato «trapiantato» altrove, in Occidente, il che mi rende una commistione tra le due culture, francese e cinese. Ciò che mi interessa di più è l’espressione personale e artistica. Presumo di essere un artista cinese ed europeo, ma sono prima di tutto un artista.

Per la mostra di Palazzo Strozzi hai dipinto un dragone di grande potenza, una figura che nell’immaginario occidentale si associa immediatamente alla mitologia cinese. Qual è il suo significato per te?

Nell’anno del Drago in Cina ci sono sempre più nascite. Tutti i genitori cinesi sperano che i loro figli siano draghi. Simbolicamente, il drago è legato alla figura dell’imperatore e rappresenta saggezza, potere e fortuna. Per Palazzo Strozzi ho dipinto un drago della stessa altezza di un quadro di Bruce Lee: entrambi saranno nella stessa sala. Il nome di battesimo di Bruce Lee in cinese è Li Xiao Long, che significa «il piccolo drago».

Nel 1978 a Shanghai hai visitato la mostra «Paesaggio francese e contadini: la vita rurale in Francia nel XIX secolo, 1820-1905», eri giovanissimo, appena diciottenne. In che modo l’esposizione ha influenzato il tuo lavoro? Eri più interessato ai soggetti o al tipo di pittura?

Quella mostra si è tenuta a Shanghai presso il Palazzo dell’Amicizia sino-sovietico. Ho passato la notte in coda per acquistare il biglietto d’ingresso. Si trattava di una delle prime mostre di dipinti originali francesi in Cina. Tutti gli artisti, studenti e insegnanti delle Accademia d’Arte erano venuti per l’occasione. A quel tempo, la Cina subiva unicamente l’influenza della pittura accademica dell’Unione Sovietica, e per quanto riguarda la pittura francese, avevamo visto solo brutte riproduzioni di dipinti in bianco e nero. La mostra ebbe un grandissimo successo e ha influenzato un gran numero di artisti cinesi, al tempo dell’apertura della Cina da parte di Deng Xiaoping. I soggetti erano molto classici, ma sono state soprattutto le pennellate a commuovermi. Era la prima volta che vedevo dei «tocchi pittorici» nella realtà. Rimasi a lungo ad ammirare i dipinti. A posteriori, credo che questa mostra abbia avuto un’influenza sul mio lavoro, soprattutto perché ha accresciuto il mio interesse e il mio desiderio di andare in Francia.

Marat (13 July 1793, Paris) 2014 trittico, olio su tela cm 180 × 180 ciascuno Collezione privata Photography: André Morin © Yan Pei-Ming, ADAGP, Paris, 2023.

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Qual è il tuo rapporto con l’Italia? Hai soggiornato a Roma come borsista all’Accademia di Francia a Villa Medici nel 1993-94, poi hai esposto proprio a Villa Medici nel 2016 in una mostra curata da un altro ex borsista di Villa Medici, Henri Loyrette. Sarà stato un momento di grande emozione questo ritorno in grande in un luogo che ti ha visto giovane studente.

Direi che ero un giovane borsista, più che un giovane studente. Quando ero ancora in Cina conoscevo l’Italia solo attraverso il ritratto di Monna Lisa e i dipinti di Michelangelo. Nel 1982, dopo il primo anno di scuola d’arte, ho fatto il mio primo viaggio con un amico: siamo andati a Milano, Pisa, Venezia, Firenze, Roma. Abbiamo visitato musei e dormito in campeggio. A Venezia abbiamo trascorso la notte alla stazione ferroviaria. L’Italia è stata una scoperta fondamentale.

Dieci anni dopo, nel 1993-94, sono tornato in Italia come borsista a Villa Medici, con mia moglie Beatrice e mia figlia di un anno. Questo mi ha permesso di realizzare un’opera monumentale: «Les 108 brigands» (I 108 briganti), costituita da 120 ritratti, tutti realizzati ritraendo dei modelli. È stato un anno di lavoro sul genere del ritratto in cui ho conosciuto meglio Roma, i suoi musei, le sue chiese, i suoi luoghi di cultura e alcuni buoni ristoranti. All’epoca facevo solo ritratti, soprattutto di persone all’interno di Villa Medici. Ritratti di italiani. Quando sono tornato alla Villa nel 2016 per celebrare il 350mo anniversario di Villa Medici, mi sono aperto all’Italia dipingendo quadri legati alla storia del Paese e di Roma: papi, rivisitazioni dei quadri di Caravaggio a San Luigi dei Francesi, il ritrovamento del corpo di Aldo Moro, quadri in omaggio a film come «Mamma Roma» di Pasolini o «Roma città aperta» di Rossellini... È stato un grande piacere per me lavorare con Henri Loyrette. È una figura di spicco nel mondo dell’arte e conosce Roma come le sue tasche. È stato bello fare questo trionfale ritorno in Italia, in questa straordinaria e mitica istituzione nel cuore di Roma.

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Quali altre parti d’Italia hai amato o ti hanno ispirato?

Mi piacciono molto la Toscana e la Lombardia. Visitare i musei mi ha ispirato molto. In effetti, tutte le regioni hanno contribuito all’arte italiana.

Qual è il tuo approccio ai grandi maestri del passato?

Mi sono nutrito di grandi maestri italiani fin da quando ero molto giovane: Caravaggio, Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Tiziano... Per loro uso la pittura monocroma. Non li affronto sul piano del colore, ma su quello dell’ombra e della luce, del formato, del gesto pittorico. Se mi occupo di soggetti eterni, li affronto in modo contemporaneo, come quando rappresento una crocifissione desunta dal film «Il Vangelo secondo Matteo» di Pasolini.

Crucifixion (Il Vangelo secondoMatteo) 2023 olio su tela, cm 400 × 300 Courtesy MASSIMODECARLO e Thaddaeus Ropac gallery Photography: Clérin-Morin © Yan Pei-Ming, ADAGP, Paris, 2023

Con quale criterio scegli le opere che evochi? Empatico? Estetico? Formale?

Mi piacciono i soggetti tragici perché li trovo eterni. L’empatia è un modo per esprimermi nella pittura. I soggetti che scelgo suscitano in me un’emozione immensa, come «Tres de mayo» di Goya. Mi chiedo: come può un uomo fucilare un altro uomo?

E con altri artisti come Bacon? In mostra abbiamo il «Ritratto di papa Innocenzo X» di Velázquez. Ha avuto un peso per te l’ossessione che il dipinto ha rappresentato per Bacon?

Bacon dipinge d’après Velázquez e anch’io dipingo d’après Velázquez. Bacon trasmette un’emozione del dopoguerra: mostra l’angoscia dell’uomo, la tragedia, la deformazione. È una pittura forte sull’immagine, sulla pittoricità, sul colore, sulla deformazione. È uno dei miei pittori preferiti, è inevitabile. Per me è più difficile dipingere d’après Bacon, preferisco dipingere après Velazquez. Sono rimasto affascinato quando ho scoperto i ritratti di papa Innocenzo X: il colore è fantastico. Mi ha ispirato molto e volevo lavorare, come Bacon, d’après Velázquez.

Pape Innocent X bleu 2022 olio su tela, cm 250 × 200 Collezione privata Photography: Clérin-Morin © Yan Pei-Ming, ADAGP, Paris, 2023

Il potere è al centro del tuo progetto «Game of Power» che comprenderà circa 300 ritratti di personaggi famosi, ma che è stato preannunciato dalla scelta di soggetti affrontati da artisti del passato, come «L’Empereur Napoléon 1er se couronnant lui même» di David o il «Ritratto di Innocenzo X» di Velázquez. Da dove nasce il tuo interesse per il tema?

Fin da quando ero molto giovane, ho sempre realizzato ritratti legati al potere. All’epoca, in Cina, ho iniziato con la pittura di propaganda. «Game of Power» è una serie in evoluzione che svilupperò nel corso degli anni. Potrebbero esserci 300, 400, 500 dipinti... Ne aggiungerò altri ogni anno. Per il resto, scelgo soggetti affrontati da grandi pittori che influenzano, e hanno influenzato, generazioni di pittori (come Velázquez). Ciò che mi interessa, al di là del potere, è piuttosto la storia degli uomini di potere. La storia contemporanea diventa la storia di domani. Per esempio, quando dipingo l’arciduca Francesco Ferdinando, questo quadro evoca l’evento che ha causato la Prima guerra mondiale. La storia è fatta di conflitti ricorrenti.

In molte tue opere parli di funerali. Sono immagini che danno anche una visione fisica della morte, un tema che affronti sia da un’ottica privata (i tuoi genitori, che riesci però a elevare a Storia), sia pubblica, rendendo esplicito il tuo «gusto del tragico». Hai affermato: «La tragedia mi si addice perfettamente». Come convivi con questo mondo interiore?

Il giorno in cui ho capito che la morte era inevitabile, mi sono ribellato violentemente. L’ho capito molto presto, quando avevo circa cinque o sei anni. Le ansie cominciarono a farsi vive di notte, quando ero solo. Per prepararmi ad affrontare un giorno la mia morte, ho iniziato a interessarmi alla morte degli altri e delle persone a me care. Quest’ansia è permanente, a volte mi sfugge e poi ritorna. Ho tanta voglia di vivere. Questo crea un contrasto tra il desiderio di vivere, di essere eterno, pur sapendo che un giorno ci sarà la morte. Credere che la pittura renda eterni mi dà la forza di continuare a dipingere: mi dico che la pittura è eterna e la vita temporanea.

Aldo Moro (9 May 1978, Rome) 2017 olio su tela, cm 250 × 300 Collezione privata Photography: André Morin © Yan Pei-Ming, ADAGP, Paris, 2023.

In mostra è esposta una sequenza di opere legate alla storia italiana più drammatica dell’ultimo secolo, riunite quasi in una trilogia: il corpo di Mussolini appeso a testa in giù assieme a quello della sua amante (28 aprile 1945); il ritrovamento del corpo di Pasolini (2 novembre 1975); il ritrovamento del corpo di Aldo Moro (9 maggio 1978). In tutti e tre i casi non è il momento della morte, ma quello in cui l’immagine della morte è stata mostrata al mondo. Spesso rappresenti funerali, ma in questi casi si tratta invece della dimensione «spettacolarizzata» di un evento storico: nessuno si ricorda le esequie pubbliche, mentre queste immagini sono entrate nell’immaginario collettivo.

Le immagini desunte dagli organi di stampa costituiscono una documentazione importante, a volte sono quelle di grandi reporter. Grazie alla pittura a olio l’immagine diventa un quadro. Questo le conferisce una qualità sacra. Quello che mi interessa è lavorare sulla storia, in particolare su quella italiana. Questo ci permette di vedere la forza della pittura. La scala gioca un ruolo importante: lo spettatore può entrare nel quadro, che è realizzato in un formato gigantesco. La morte è la tragedia dell’uomo, non possiamo essere indifferenti.

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Come affronti la storia dell’oggi? In mostra ci sono due trittici (hai utilizzato un formato antico), uno raffigura Vladimir Putin, «Tsar of The New Russia» (2008), a cui hai affiancato più recentemente «Volodymyr Zelensky & The Spirit of Ukraine» (2022). Un pittore oggi affrontando temi politici deve prendere una posizione?

Il trittico «Vladimir Putin, Zar della Nuova Russia» (2008) è stato realizzato quando ho visto una copertina del «Time» del 2007. Ho reagito immediatamente: «Questo è il mio soggetto». A Palazzo Strozzi ci sono due piccole sale. Volevo esporre quest’opera, ma non ne avevo motivo. Quando ho visto Zelensky sulla copertina del «Time» nel 2022, ho capito come le due opere si sarebbero scontrate. L’arte della pittura è già un impegno. Faccio una dichiarazione, mi esprimo nel quadro, lo mostro agli spettatori e poi sta a loro reagire. Piango i nostri tempi e allo stesso tempo sono felice di vivere in questo mondo. Siamo tutti di passaggio, mentre la Terra continuerà a girare.

Vladimir Putin, Tsar of The New Russia 2008 trittico, acquarello su carta cm 210 × 154 ciascuno Collezione privata Photography: André Morin © Yan Pei-Ming, ADAGP, Paris, 2023.

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Secondo l’oroscopo cinese sei nato sotto il segno del Topo. Hai mai dedicato opere all’animale del tuo o ad altri segni zodiacali cinesi?

Ho già realizzato un dipinto con i topi, ma mai con uno solo. Ne ho dipinti diversi, in una sorta di fogna. I ratti sono sempre in famiglia. Ho dipinto anche altri animali dell’astrologia cinese (Cane, Tigre, Scimmia ecc.). Recentemente ho ridisegnato la «gara dello zodiaco cinese» con i dodici animali, per Hennessy. Il Topo è arrivato primo nella gara indetta da Buddha secondo cui avrebbero dovuto sfidarsi per stabilire l’ordine degli animali dei dodici anni del ciclo lunare. Si trattava di attraversare un fiume, e il Topo, fu il primo.

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Come affronti tecnicamente le tue opere? Il tuo è un gesto ampio, rapido, fatto di pennellate riconoscibili. Come procedi nel tuo lavoro?

Prima ho un’idea, poi dipingo direttamente sulla tela. Tecnicamente, è molto aleatorio. Cerco di domare la pittura. Mi esprimo liberamente: per ogni quadro seguo esigenze e tecniche pittoriche diverse. Nella pittura c’è un’evoluzione a lungo termine, risolvo sempre ogni quadro in modo diverso.

Hai affermato: «La pittura non è una carezza», e la frase è perfettamente comprensibile pensando sia alla vibrante potenza delle tue pennellate, sia ai temi forti e spesso drammatici che affronti: più percosse che gesti affettuosi.

I soggetti drammatici mi interessano sempre. È come quando si guarda un film drammatico: dopo lo spettacolo ci si interroga. Ogni spettatore vuole percepire una sensazione. Per questo dico che «la pittura non è una carezza». L’idea è quella di esprimere, di mostrare un sentimento, una sensazione, attraverso la pittura. «La pittura non è una carezza» significa che mi piace il gusto pungente. Non dipingo mai in salsa agrodolce. Ma l’empatia è sempre nella pittura, anche se il gesto è drammatico, violento.

Hitler, d’après Hubert Lanzinger 2012 olio su tela, cm 280 × 280 Collezione privata - Courtesy M. Ars SA Photography: André Morin © Yan Pei-Ming, ADAGP, Paris, 2023.

Perché hai scelto d’ispirarti al quadro di Hubert Lanzinger che raffigura Adolf Hitler come antico guerriero teutonico, simbolo del potere, ma a cui i militari americani in una furia iconoclasta forarono l’occhio, confiscandolo poi e portandolo a Washington, all’United States Army Center of Military History?

Francesco Bonami mi ha mostrato questo quadro di propaganda, che all’epoca mi ha molto colpito e interessato. In seguito ho fatto delle ricerche. Ispirarsi a questo quadro significa ricreare l’epoca dei pittori di propaganda tedeschi. Mostra anche il periodo della Seconda guerra mondiale. Non è un quadro realistico, è più un quadro di propaganda. Quando i soldati americani l’hanno scoperto hanno forato la tela sotto l’occhio. Anch’io volevo dare l’impressione che la tela avesse un buco, mettendo una macchia nera sul volto di Hitler.

Perché hai voluto l’opera nella stessa sala dell’immagine di Mussolini?

È per parlare della Seconda guerra mondiale. Non l’ho vissuta, ma l’abbiamo studiata a scuola, nei documentari, sui libri. Così ho fatto una constatazione: la Seconda guerra mondiale è il disastro della nostra umanità. Spero di non vedere mai, nel corso della mia vita, una terza guerra mondiale. Ho questa consapevolezza che hanno tutti gli esseri viventi: la paura di essere uccisi. Ho tanta voglia di vivere. E che il mondo sia in pace. La nostra generazione tende a credere che non vedremo mai una guerra di questa portata. Faremo di tutto per evitarla.

In che modo ti ha ispirato lavorare a Palazzo Strozzi?

Palazzo Strozzi è un luogo mitico, un riferimento assoluto nel mondo dell’arte contemporanea. Per questa mostra ho creato una dozzina di nuove opere. Ho pensato molto a come muovermi nelle diverse sale di Palazzo Strozzi, guardando il modello, e a come collegare ciascuna delle dieci sale tra loro. © Riproduzione riservata