ll mondo dell’arte è in lutto per la morte di Koyo Kouoh mentre la Biennale di Venezia sta per prendere decisioni difficili

Koyo Kouoh. In un ritratto di ©Mehdi Benkler, BAK

L’annuncio della scomparsa di Koyo Kouoh, a soli 57 anni, l’ha dato proprio la Biennale di Venezia. E quest’ultima di qui a poco sarà chiamata a prendere decisioni difficili.

Improvvisamente, sabato scorso, mentre la diciannovesima Mostra Internazionale d’Architettura (“Intelligens. Natural. Artificial. Collective.” Di Carlo Ratti) apriva al pubblico e la giuria assegnava i Leoni d’oro (tra loro quello memorabile alla filosofa femminista statunitense Donna Haraway), il sito della manifestazione lagunare pubblicava queste parole: “La Biennale di Venezia apprende con profondo dolore e sgomento la notizia della improvvisa e prematura scomparsa di Koyo Kouoh”.

In quel momento non si sapeva ancora né dove fosse morta la signora Kouoh né perché; quel che era certo invece, era che lo scorso dicembre fosse stata scelta per curare la 61esima Esposizione Internazionale d’Arte. Sarebbe stata anzi la prima curatrice di origini africane al timone della manifestazione che inaugurerà il 9 maggio 2026 e di cui entro una decina di giorni avrebbe dovuto annunciare sia il titolo che i temi portanti.

La Biennale di Venezia, infatti, si compone di una grande mostra collettiva il cui argomento orienta tutte le altre esposizioni (organizzate dai padiglioni nazionali) e commenta il tempo presente arrivando, a volte, a predire il futuro.

Notizie più precise su quanto avvenuto invece sono arrivate durante il fine settimana, quando il New York Times, dopo aver parlato con il marito della curatrice Philippe Mall, ha fatto sapere che la morte della signora Kouoh è avvenuta in ospedale a Basilea per un cancro che le era stato diagnosticato di recente.

Malgrado la signora Kouoh fosse nata nel 1967 (nel giorno che per noi è la vigilia di Natale), a Douala in Camerun, è la Svizzera (dove si è trasferita quando aveva 13 anni) il luogo in cui è cresciuta sia umanamente che professionalmente e dove non aveva mai smesso del tutto di abitare.

Lì ha studiato scienze bancarie ed economia aziendale e ha lavorato con donne migranti come assistente sociale. Lì ha incontrato un gruppo di artisti e intellettuali che avrebbero influenzato la sua visione futura. Anche se dopo essere diventata madre decise di tornare in Africa: “Non riuscivo a immaginare di crescere un ragazzo nero in Europa”, disse in un’intervista.

Ma scelse un Paese diverso da quello in cui era nata e nel ’95 si trasferì a Dakar in Senegal: E’ “il mio tuttoha detto di recente – (…) Dakar mi ha reso quello che sono oggi. C'è un'eleganza naturale nella cultura e nella gente senegalese. Certo, c'è un elemento sartoriale e materiale, ma io parlo dell'eleganza dello spirito e della mente. Il Senegal ha questa cultura ancestrale estremamente accogliente e pacifista. Ora sono a Città del Capo, ma mentalmente vivo a Dakar. È l'unico e solo posto per me”. In Senegal si fece le ossa come curatrice e fondò la residenza per artisti Raw Material. Sempre in quel periodo lavorò nei team curatoriali di Documenta 12 e 13 e di altre manifestazioni e mostre internazionali d’arte. Per poi diventare direttore dello Zeitz MOCAA di Città del Capo in Sud Africa, uno dei più grandi musei di arte contemporanea africana al mondo (il cui nucleo principale è stato raccolto dal filantropo tedesco ed amministratore di Harley- Davidson, Jochen Zeitz).

Tuttavia, quando la signora Kouoh arrivò, il museo attraversava un brutto periodo e lei lo rimise in piedi fino a farlo prosperare (nuove idee, riallestimento, attrarre investitori, modificare la governance e formalizzare la donazione della collezione, sono solo alcune delle cose che fece).

Sabato lo Zeitz MOCAA ha annunciato tre giorni di chiusura per lutto (ha riaperto ieri) e ha invitato le persone a “onorare e rendere omaggio alla straordinaria eredità, alla leadership e alla dedizione di Koyo Kouoh” sia online (anche se mentre questo articolo viene redatto non è facile farlo) che lasciando biglietti in una sala dell’edificio.

La Biennale di Venezia invece, dopo aver sottolineato che lei “ha lavorato con passione, rigore e visione alla realizzazione” della prossima edizione ha aggiunto che: “La sua scomparsa lascia un vuoto immenso nel mondo dell’arte contemporanea e nella comunità internazionale di artisti, curatori e studiosi che hanno avuto modo di conoscere e apprezzare il suo straordinario impegno intellettuale e umano”.

Un pensiero simile a quello della Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che ha sottolineato come la morte della signora Kouoh “lascia un vuoto nel mondo dell'arte contemporanea".

Nel corso della sua carriera Koyo Kouoh si è impegnata per restituire al mondo un punto di vista africano del presente. Spesso sottintendendo che gli artisti di colore a prescindere dalla nazionalità si guardano e influenzano a vicenda, proponendo una prospettiva dalle radici comuni. In un’intervista ha detto: “Ho sempre concepito l'arte come un oggetto, una materialità mercificata. Con Issa (Samb artista concettuale senegalese ndr), sono entrato in questa dimensione di comprensione dell'arte come filosofia di vita, come qualcosa che può essere intangibile. Questo mi ha portato alla mia posizione attuale, in cui la vedo come un'estensione della vita”.

La signora Kouoh ha anche curato mostre longeve e di grande successo come “When We See Us. A Century of Black Figuration in Paintings” (allestita originariamente allo Zeitz MOCAA; adesso in mostra al Bozar di Bruxelles fino al prossimo 10 agosto).

Riguardo alle sue convinzioni spirituali più profonde ha dichiarato: “Credo nella vita dopo la morte perché provengo da un'educazione ancestrale nera, dove crediamo in vite e realtà parallele. Non esiste un ‘dopo la morte’, un ‘prima della morte’ o un ‘durante la vita’. Non ha poi così tanta importanza. Credo nelle energie (vive o morte) e nella forza cosmica”.

La prematura scomparsa di Koyo Kouoh, a un anno dall’inaugurazione della Biennale di Venezia che avrebbe dovuto curare, è una circostanza eccezionale, senza precedenti nella storia (almeno quella recente) della manifestazione lagunare. Che imporrà decisioni complesse divise tra la commozione e la necessità di una leadership incisiva. Per ora si sa che il Consiglio d’Amministrazione ha tentato di rispondere a questa crisi velocemente. La conferenza stampa in cui avrebbe dovuto essere presentato il titolo della mostra, infatti, non è stata rimandata. Si terrà come da programma il 20 maggio e, con ogni probabilità, servirà soprattutto per far sapere al mondo come si intende procedere (le possibilità sono varie, e vanno da un team curatoriale composto da figure poco conosciute a un curatore unico di peso cui passare la staffetta a metà corsa, con diverse soluzioni intermedie tra un estremo e l’altro).

Comunque sia, quasi certamente l’intelaiatura portante dell’esposizione costruita dalla signora Kouoh non andrà perduta. E’ anzi possibile che il titolo e una rosa centrale di artisti siano il lascito di questa curatrice, mancata proprio nel momento culminante della sua carriera, alla Biennale di Venezia 2026. Sempre ammettendo che la malattia le abbia lasciato il tempo per fare almeno alcune di queste scelte.

AGGIORNAMENTO: La Biennale ha appena comunicato (17 e 40 di mercoledì 14 maggio) che la conferenza stampa di presentazione della 61esima Esposizione Internazionale d’Arte si terrà il 27 maggio cioè una settimana dopo la data fissata prima della scomparsa di Koyo Kouoh.

Koyo Kouoh, avrebbe dovuto essere la curatrice della Biennale di Venezia 2026. Ritratto di: Mirjam Kluka

Il nuovo rinascimento del Louvre e la sala privata per la Gioconda

Nel cuore del centro parigino il Louvre è più di un museo ma un icona francese. La piramide da cui si accede al palazzo da vista da una delle stanze del museo. Photo ©artbooms

Martedì scorso il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato che il Louvre verrà sottoposto a un’importante progetto di rinnovamento. Si chiamerà “Louvre New Renaissance” e prevede sia opere di restauro che lavori di costruzione ed ampliamento. Durerà dieci anni (nel corso dei quali il museo continuerà a rimanere aperto), per una spesa che gli assistenti del Signor Macron hanno detto indicativamente compresa tra i 700 e gli 800 milioni di euro (per avere un metro di paragone molto più di quanto servito per costruire lo Stadio olimpico di Atene e la sede di Bilbao del Guggenheim insieme).

A fare notizia però è stato soprattutto il fatto che la Gioconda avrà uno spazio espositivo tutto per lei "accessibile in modo indipendente rispetto al resto del museo" e con "un suo pass di accesso". Anche il nuovo ingresso, che verrà creato nella facciata est del complesso (vicino alla Senna), è stato argomento di discussione ma con meno entusiasmo di quello dimostrato per lo spostamento del capolavoro di Leonardo.

Del resto il Louvre, con un pubblico di circa 9 milioni di visitatori annui (come se tutti gli abitanti di New York più qualche altro centinaio di migliaio di persone si spostassero in un singolo edificio parigino almeno una volta all’anno), è il museo più visto al mondo. Ovviamente ci sono molti francesi ma la maggioranza del pubblico è composto da stranieri (soprattutto statunitensi e cinesi ma a seguire: inglesi, italiani, tedeschi e spagnoli). E si stima che l’80 per cento di loro sia lì solo per vedere la Monna Lisa (e farsi un selfie con l’iconico ritratto). Nonostante la collezione vasta e spettacolare del museo (circa 500mila pezzi di cui solo 30mila in esposizione).

Per questo era da tempo che si parlava di spostare l’opera. Sempre per questo si pensava ad un biglietto ad hoc. Alla fine l’annuncio è arrivato e le opinioni espresse sul progetto non sono state univoche. Il critico britannico Jonathan Jones ha ad esempio scritto: “È vero che la Monna Lisa rende difficile prestare attenzione ai dipinti di Veronese, Tiziano e altri nella stessa stanza. Ma non è per via della folla. È per la Monna Lisa che è così avvincente. Nella mia esperienza, la folla non rovina il Louvre. Gli dà vita. Un'altra misura pianificata, l'apertura di un nuovo ingresso, sembra più utile perché può esserci una coda lenta per entrare nella piramide di IM Pei”. Mentre molti altri hanno espresso soddisfazione. In fondo, sarà anche bello condividere con altri l’esperienza di ammirare un’opera d’arte, ma da soli, con calma, è meglio.

Effettivamente invece l’unico ingresso attuale, creato negli anni ’80 dallo scomparso architetto cino-statunitense Ieoh Ming Pei su commissione dell’allora presidente François Mitterrand, era uno dei punti critici segnalati al governo dal direttore del Louvre, Laurence des Cars, in un memorandum che era arrivato, non si sa come, alla stampa e che il quotidiano Le Parisien aveva pubblicato. Perché è piccolo rispetto alla mole di persone attese giornalmente al museo e la natura della sua struttura (la forma e i materiali della piramide che lo sovrastano) lo rende rumoroso e caldissimo. Caratteristiche molto fastidiose per i visitatori ma addirittura debilitanti per lo staff (composto da 2mila e 500 persone: cioè più della popolazione dei comuni di Madonna di Campiglio, Portofino e Monterosso messi assieme).

Gli altri problemi segnalati andavano dalle perdite d'acqua alle variazioni di temperatura che mettono a rischio le opere d'arte, dalla mancanza di impermeabilizzazione di alcune aree ai bagni obsoleti, fino alle insufficienti strutture di ristorazione. E poi la segnaletica (il museo, nato come palazzo reale, è un dedalo in cui perdersi è facilissimo; forse anche per questo il ritratto di Leonardo è così visitato: seguire gli altri è più facile che orientarsi da soli). Il signor Macron ha però assicurato che il progetto di restauro sarà “colossale” e che, in sostanza, presto sarà tutto risolto.

Il Louvre, che ogni anno dispone di 323 milioni per mantenere l’edificio (per il 60 per cento provenienti da risorse proprie (come biglietti, merchandising, resa del marchio cui ha fortemente contribuito il museo di Abu Dabi), finanzierà buona parte del progetto (il secondo ingresso, i nuovi spazi e la sala dedicata alla Gioconda). Per poterselo permettere aumenterà i biglietti ai visitatori extraeuropei. Lo Stato, in questo momento in crisi finanziaria, contribuirà invece per 10 milioni soltanto

Il salone interno del Louvre da cui si raggiungono tutte le gallerie inganna e non è sempre facile arrivare dove si vorrebbe anche perchè la segnaletica è carente. Photo ©artbooms

Il Van Gogh scomparso da trent'anni sarebbe di proprietà di una famiglia italiana

“Il ritratto del dottor Gachet” di Vincent Van Gogh (particolare). foto tramite Staedel Museum

L’ultima volta in cui “Il ritratto del dottor Gachet” di Vincent Van Gogh apparve in pubblico fu nella sede newyorkese di Christie's. Era il 1990 e il dipinto, di cui esiste una sola copia (molto meno apprezzata dell’originale) conservata al Musée d’Orsay di Parigi, diventò un record d’asta. Se lo aggiudicò un magnate giapponese della carta per 82 milioni e mezzo di dollari (oggi gli esperti sostengono che ne valga 300). Da allora, fatta eccezione per i proprietari (ammesso che non lo tengano in un deposito climatizzato), nessuno l’ha più visto. Anzi da qualche decennio nessuno sa proprio dove sia. Un inchiesta comparsa ieri su New York Times però sembra aver diradato la nebbia che avvolge il mistero de “Il ritratto del dottor Gachet”.

Da quanto è emerso, infatti, il dipinto sarebbe a Lugano e dovrebbe appartenere ad una famiglia italiana. Voci insistenti, già pubblicate in altri approfondimenti sull’argomento, parlano di un nome famoso nel settore agroalimentare. Qualcuno aveva chiamato in causa Barilla, ma secondo gli isider contattati dal un gruppo di giornalisti del quotidiano statunitense, non di pasta ma di formaggio si tratterebbe.

Van Gogh dipinse l’opera a Auvers-sur-Oise nel giardino del medico con cui il fratello Theò aveva stretto amicizia e che aveva accettato di posare per lui dal vivo. Era il 1890, poche settimane dopo, l’artista si sarebbe suicidato. Paul Gachet era uno psichiata dalle molte passioni (l’omeopatia e la lettura dei tarocchi oltre alla pittura) e il suo ritratto è un primo esempio di rilettura moderna di un genere classico delle arti visive. Sarà lo stesso Vincent a descrivere così l’aria pensosa e malinconica di Gachet nel quadro: "espressione disillusa del nostro tempo".

Secondo la versione della storia più accreditata, fu proprio Gachet a volere che Van Gogh gli facesse una copia del ritratto (attualmente conservato al Musée d’Orsay di Parigi), ma non molto tempo fa alcuni critici "pur con fondamenti debolissimi" (ha scritto Wikipedia) ne hanno messo in dubbio l’autenticità.

A vendere per prima “Il ritratto del dottor Gachet” fu la vedova del fratello dell’artista, Johanna van Gogh-Bonger, nel 1897. Sembra che la transazione le sia fruttata 300 franchi (circa 54 euro). Ad ogni modo, il valore delle opere di Van Gogh aumentò in fretta e il dipinto passò di mano in mano velocemente, finchè non arrivò nella collezione del Städelsches Kunstinstitut di Francoforte nel 1911 (il museo tedesco è rimasto molto legato al dipinto al punto da redarre una pagina internet e costruire un podcast nel tentativo di ritrovarlo) e alcuni decenni dopo non venne confiscato dai nazisti come esempio di ‘arte degenerata’. Qui c’è un colpo di scena però, perchè l’opera viene venduta in segreto da un gallerista tedesco al banchiere olandese Franz Koenigs (i cui eredi sostengono che il nonno si sia separato dal dipinto solo per metterlo temporaneamente al sicuro), che lo cede all’amico e collega ebreo Siegfried Kramarsky in fuga verso New York.

Il signor Kramarsky, di quando in quando (ma soprattutto se partiva per le vacanze), lo lasciava in in prestito al Metropolitan Museum of Modern Art e alla sua morte l'opera è stata custodita dal museo fino a quando i proprietari non l’hanno messa all'asta da Christie's.

Il collezionista Ryoei Saito ce vince l’asta, però, aveva già qualche problema prima dell’acquisto multimilionario del dipinto e se ne libera relativamente in fretta. Di lì de “Il ritratto del dottor Gachet” si perdono le tracce, finchè la giornalista di Wall Street Journal,  Lee Rosenbaum, non individua nel gestore di fondi d’investimento di origine austriaca, Wolfgang Flöttl, il nuovo proprietario. Anche Flöttl a sua volta si rende conto di non potersi permettere di mantenere il ritratto. E lo vende, ma a “a chi?” o “dove?” sono rimaste a lungo domande senza risposta.

Adesso New York Times sembra individuare con un margine piuttosto alto di fondamento in Lugano il luogo in cui “Il ritratto del dottor Gachet” è conservato. Anche le voci che lo vedono in mani italiane sembrano piuttosto numerose ed accreditate. L’inchiesta azzarda anche l’ipotesi che il dipinto sia stato comperato da Antonio Invernizzi alla fine degli anni ‘90 e che tutt’ora sia nella collezione (pare piuttosto ampia) della famiglia la cui fortuna è legata all’industria casearia, ma senza sbilanciarsi troppo. Gli Invernizzi, contattati dal quotidiano statunitense, nella maestosa Villa Favorita a Lugano (residenza seicentesca affacciata direttamente sul lago, un tempo di proprietà del barone Hans Heinrich Thyssen-Bornemisza), si sono rifiutati di commentare in qualsiasi modo la notizia e attraverso il loro avvocato si sono opposti alla possibilità di parlare dell’argomento. Non hanno ne confermato ne smentito. Lo stesso articolo, del resto, è molto aperto all’ipotesi che quella degli Invernizzi sia una falsa pista.

Sia come sia, la storia de’ “Il ritratto del dottor Gachet” di Vincent Van Gogh pone domande molto concrete sulla liceità della proprietà privata senza nessun tipo di restrizioni di opere d’arte che costituiscono il patrimonio di tutti noi (soprattutto sapendo che i musei non si potrebbero mai permettere di acquistarle). Da una parte, imporre a chi le compra di esporle ogni tanto in un museo per esempio, violerebbe la libertà dei legittimi proprietari e metterebbe in difficoltà un mondo che si sostine sul mercato. Dall’altra, il pubblico in genere e gli studiosi in particolare perdono tanto nel non poterle ammirare mai.

E poi c’è l’affermazione del signor Saito. L’ultimo proprietario del ritratto di Vincent Van Gogh ad essersi aggiudicato l’opera in un’asta infatti, una volta disse che un giorno avrebbe voluto essere cremato insieme alle cose che gli erano più care. Incluso il dipinto.

“Il ritratto del dottor Gachet” di Vincent Van Gogh , olio su tela 67 cm x 56 cm . Collezione privata