La grande ed attesa retrospettiva di Jack Whitten al Moma sta per concludersi. Ma quando sarà possibile ammirare le sue opere in Europa?

“9.11.01” installato in una sala del Moma. Installation view of Jack Whitten: The Messenger, on view at The Museum of Modern Art, New York, from March 23 through August 2, 2025. Photo: Jonathan Dorado.

L’ 11 settembre del 2001, Jack Whitten era di fronte al suo palazzo a Lispenard (nel quartiere di Tribeca a New York), che aveva ristrutturato da solo dopo un incendio e che stava vendendo. Era alle prese con i pompieri e una fuga di gas, quando un aereo basso e dalla traiettoria instabile sfrecciò sopra la sua testa. Quel giorno insieme a loro c’era anche un uomo con una telecamera, che stava girando un documentario sui vigili del fuoco, così, quando tutti alzarono gli occhi al cielo e videro il primo aereo schiantarsi sul World Trade Center (poco lontano), il signor Whitten rimase nell’inquadratura che venne trasmessa nei notiziari di tutto il mondo. In seguito, tutto ciò che caratterizza quelle iniziali immagini dell’attacco (il cielo di porcellana, i riflessi di vetro e acciaio nella luce viva di fine estate, le ombre scure, il fumo, le fiamme, la polvere, il nero della tragedia) confluirono nel suo maestoso “9.11.01”. Tre metri per sei di dipinto, realizzato a mosaico con tessere di colore acrilico tagliate e riassemblate a mano, oltre ad altri materiali improbabili e pionieristici (come ceneri dell’attentato stesso e sangue).

Adesso “9.11.01” è esposto insieme ad altre oltre 175 opere dell’artista afroamericano allo Steven and Alexandra Cohen Center for Special Exhibitions del Museum of Modern Art di New York. La mostra, intitolata “Jack Whitten: the Messenger”, si dipana tra gli esordi (negli anni ’60) fin quasi alla sua morte (arriva al 2010 mentre il signor Whitten è mancato nel 2018). Presentando, oltre ai dipinti, anche sculture, lavori su carta e materiali d’archivio. Quella del Moma è la prima retrospettiva importante a lui dedicata ed era davvero molto attesa. Tanto che il New York Times l’ha inserita nell’elenco delle migliori mostre del 2025 (secondo loro undici in tutto, comprese quelle di Caravaggio, Caspar David Friedrich e Piet Mondrian).

9.11.01” è uno dei capolavori dell’esposizione. Del resto l’evento lo colpì talmente che, quando venne a sapere che i pompieri con cui aveva parlato alla mattina (poi corsi sul luogo del disastro) erano sopravvissuti, scoppiò a piangere. Tuttavia quello non è stato l’unico cambiamento epocale a cui aveva assistito nella sua non lunghissima vita.

Jack Whitten. Atopolis: For Édouard Glissant. 2014. Acrylic on canvas, 8 panels, overall 124 1/2 × 248 1/2″ (316.2 × 631.2 cm). The Museum of Modern Art, New York. Acquired through the generosity of Sid R. Bass, Lonti Ebers, Agnes Gund, Henry and Marie-Josée Kravis, Jerry Speyer and Katherine Farley, and Daniel and Brett Sundheim. © 2025 The Museum of Modern Art, New York, Photo by Jonathan Muzikar.

Nato nel ’39 a Bessemer in Alabama, proprio nel cuore del sud segregazionista degli Stati Uniti di allora, Jack Whitten, ebbe modo di vedere fin troppe violenze ed ingiustizie durante l’infanzia. In merito ha, ad esempio, raccontato: “Per tutto il liceo e le medie (scuole con insegnanti di colore e alunni di colore ndr), quando ci portavano in gita scolastica, non ci portavano mai al museo perché era off-limits per i neri. Ci portavano alle acciaierie e alle miniere di carbone, ma mai ai musei”. Oppure: “in Alabama, l'estate era calda, umida, disgustosamente calda. Una delle cose più difficili per noi bambini era passare davanti alla piscina, di proprietà comunale, pagata con i soldi dei contribuenti, e vedere ragazzi bianchi che nuotavano, mentre noi non potevamo entrare. Era dura. Era dura. Persino il parco pubblico (la piccola area ombreggiata con gli alberi, con una fontana al centro) potevamo attraversarlo a piedi, ma non ci si poteva sedere all’ombra e Dio non voglia che si andasse alla fontana”.

Forse per questo, dopo essersi iscritto a medicina nel college di Tuskegee in Alabama (in quel periodo aveva anche sentito parlare Marthin Luther King) e aver lasciato per studiare arte alla Southern University di Baton Rouge in Luisiana (entrambe università per soli neri), fu tra gli organizzatori di una delle prime marce per i diritti civili degli afroamericani. Evento che, avrebbe detto in seguito, per lui fu uno spartiacque: “Per me c’è stato un prima e un dopo”. Infatti, nonostante credesse fermamente nelle proteste non violente, l’atteggiamento della gente che aveva assistito a quella manifestazione era stato talmente aggressivo (“buttavano di tutto dalle finestre-ha ricordato una volta- la gente imprecava, ti picchiava”) da spingerlo a tagliare i ponti con il passato e trasferirsi a New York (dove continuò i suoi studi d’arte alla Cooper Union; un’università finalmente rivolta a tutti).

Lì il signor Whitten, prima da studente e poi da giovane esordiente, fece di tutto per mantenersi (dal manovale all’insegnante) mentre frequentava jazz clubs ed entrava in contatto con la vivace scena artistica newyorkese degli anni ’60 (tra gli altri conobbe: Wayne Thiebaud, Andy Wharol, che non gli era simpatico, Roy Lichtenstein, che invece stimava, e poi gli astrattisti della prima generazione come Willem de Kooning, Franz Kline, Barney Newman e Mark Rotko, oltre ai neri Romare Bearden, Jacob Lawrence e Norman Lewis; anni dopo avrebbe frequentato anche altri artisti molto diversi da lui come Jean Michael Basquiat, Nam June Paik e David Hockney).

Jack Whitten. Birmingham 1964. 1964. Aluminum foil, newsprint, stocking and oil on board, 16 5/8 x 16″ (42.2 x 40.6 cm). Collection of Joel Wachs. © Photo by John Berens, Courtesy the Jack Whitten Estate and Hauser & Wirth.

Stilisticamente (dopo l’amore per il Rinascimento italiano), sulle prime coltivò soprattutto l’affinità con Gorky e de Kooning. Faceva cose che lui stesso ha descritto come “un espressionismo figurativo astratto”, ma non ci mise molto a dedicarsi completamente all’astrattismo. Il suo però era un linguaggio diverso da quello dei suoi predecessori bianchi o neri che fossero, pionieristico e sperimentale. Sempre artigianale, perché credeva nella “trasmigrazione dello spirito” dall’artista alla materia. Caratterizzato da una ricerca incessante sui colori e gli strumenti, che a livello concettuale si tingeva di mille sfaccettature (tante quante i suoi interessi; che andavano dalla scienza, alla tecnologia, alla letteratura, alla filosofia, fino all’attualità e alla musica, in particolare il Jazz).

Il Moma nel presentare la sua mostra ha scritto: è “una storia rivelatrice dell'esplorazione dell'artista su razza, tecnologia, jazz, amore e guerra”.

Ma non ebbe vita facile: gli altri gli facevano pressione affinchè abbracciasse la figurazione come forma di attivismo. Però non desistette. Anzi, praticamente ad ogni decennio d’attività del signor Whitten, corrisponde una nuova tecnica (ma sempre astratta). Usava ogni volta l’acrilico di cui divenne un esperto (allora erano colori utilizzati in arte da poco tempo).

Detail of Jack Whitten. Four Wheel Drive. 1970. Acrylic on canvas, 98 1/4 × 98 1/4″ (249.6 × 249.6 cm). Private collection. © Jack Whitten Estate. Courtesy the Estate and Hauser & Wirth, Photo by Genevieve Hanson.

Negli anni ’70 stendeva spessi strati di pittura che sovrapponeva; in alcune colate ritardava più o meno l’asciugatura delle vernici; e poi con un grande strumento a T (che si era fatto da solo) raschiava tutto in un unico gesto. Si trattava di un processo immediato, tuttavia, lui disponeva strategicamente sotto la tela oggetti dalla diversa grana, forma e peso, in modo da controllare la quantità di pigmento che sarebbe stata portata via in un punto o nell’altro.

Ma Jack Whitten era anche capace di fare colori da zero usando polveri di ogni tipo e un legante acrilico. A volte mischiava tutto con un mixer da cucina, altre stendeva strani prodotti concepiti per usi industriali che non permettevano a niente di attaccarsi.

Detail of Jack Whitten. Atopolis: For Édouard Glissant. 2014. Acrylic on canvas, 8 panels, overall 124 1/2 × 248 1/2″ (316.2 × 631.2 cm). The Museum of Modern Art, New York. Acquired through the generosity of Sid R. Bass, Lonti Ebers, Agnes Gund, Henry and Marie-Josée Kravis, Jerry Speyer and Katherine Farley, and Daniel and Brett Sundheim. © 2025 The Museum of Modern Art, New York, Photo by Jonathan Muzikar.

Sua moglie era di origine greca e, durante un viaggio nelle isole elleniche in cui lei cercava le proprie radici e lui un albero che aveva visto in sogno, scoprì i mosaici. Per tutti gli anni ’90 ne avrebbe fatti incessantemente, usando però tessere di colore acrilico invece che di pietra (spesso per frantumarlo meglio prima lo congelava, se doveva riutilizzare le rimanenze lo polverizzava con un mortaio). Le sue tessere, disposte in modi sempre diversi, a volte richiamano dei pixel, altre frazioni di materia, altre un caos armonico, altre ancora costellazioni.

Aveva un debole per i memoriali, che dedicò a persone di colore ma anche bianche, o più raramente ad eventi storici (è il caso di “9.11.01”).

Jack Whitten. The Afro American Thunderbolt. 1983/1984. Black mulberry wood with copper plate and nails, 25 × 9 × 10″ (63.5 × 22.9 × 25.4 cm). Jack Whitten Estate. Courtesy the Estate and Hauser & Wirth. © Jack Whitten Estate. Courtesy the Estate and Hauser & Wirth, Photo by Genevieve Hanson.

Nel frattempo, quando durante l’estate si trasferiva nello studio che aveva comprato a Creta (dopo quel primo viaggio in cui erano approdati proprio lì, e dove lui aveva davvero trovato l’albero del suo sogno, la famiglia Whitten aveva continuato ad andarci), creava sculture che coniugavano l’arte dell’antico Mediterraneo a quella africana, oltre a servirsi di materiali bizzarri (come vecchi chip per computer).

Per quanto Jack Whitten abbia influenzato artisti molto noti in Europa, ha una storia espositiva principalmente centrata negli Stati Uniti e non sembra che la cosa sia destinata a cambiare a breve. La grande retrospettiva a lui dedicata, “Jack Whitten: the Messenger”, curata da Michelle Kuo (curatrice capo ed editor del Dipartimento di pittura e scultura) al Moma di New York, si concluderà il 2 agosto 2025.

Jack Whitten. Siberian Salt Grinder. 1974. Acrylic on canvas, 6’8″ x 50″ (203.2 x 127 cm). The Museum of Modern Art, New York. Nina and Gordon Bunshaft Fund and The Friends of Education of The Museum of Modern Art. © 2025 The Museum of Modern Art, New York, Photo by John Wronn.


Jack Whitten. Mirsinaki Blue. 1974. Acrylic on canvas, 62 1/8 × 72 1/8″ (157.8 × 183.2 cm). Collection of the Herbert F. Johnson Museum of Art, Cornell University. Gift of Leonard and Ruth Bocour. © 2024 Herbert F. Johnson Museum of Art, Cornell University.

Jack Whitten. Liquid Space I. 1976. Acrylic slip on paper, 20 5/8 x 20 5/8″ (52.4 x 52.4 cm). The Museum of Modern Art, New York. Purchased with funds provided by Dian Woodner in honor of The Friends of Education of The Museum of Modern Art. © 2025 The Museum of Modern Art, New York, Photo by Peter Butler.

Installation view of Jack Whitten: The Messenger, on view at The Museum of Modern Art, New York, from March 23 through August 2, 2025. Photo: Jonathan Dorado.

Installation view of Jack Whitten: The Messenger, on view at The Museum of Modern Art, New York, from March 23 through August 2, 2025. Photo: Jonathan Dorado.

Portrait of Jack Whitten with Pink Psyche Queen (1973), ca. 1975 © Jack Whitten Estate. Courtesy the Estate and Hauser & Wirth.

Frank Auerbach, uno dei maggiori esponenti della scuola di Londra è mancato lunedì

Frank Auerbach, Self-portrait, 2023, Acrylic on board 660 x 610 mm. Frankie Rossi Art Project

Conosciuto per la caparbia dedizione al lavoro, l’essere abitudinario ai limiti del maniacale e per la laboriosità della sua opera, il pittore britannico Frank Auerbach, è mancato lunedì scorso. Aveva 93 anni, insieme a Francis Bacon e a Lucian Freud (nipote di Sigmund), era uno dei maggiori rappresentanti della Scuola di Londra.

Nel 2001 in occasione della mostra alla Royal Accademy, Frank Auerbach andò ad aspettare il giornalista John O'Mahony che doveva intervistarlo alla fermata della metropolitana e lo accompagnò fino al suo studio. Una camminata di soli cinque minuti per il quartiere di Camden Town nella zona nord di Londra ma il Signor O'Mahony scrisse: “Una volta raggiunta la scalinata del suo studio con il cancelletto rappresentato in modo esaustivo nei suoi dipinti To The Studios, questo breve viaggio sembra averci portato attraverso l'intera lunghezza e larghezza del piccolo universo di Auerbach”. Quello studio, che pare fosse angusto e freddo, il Signor Auerbach, lo aveva rilevato dal suo amico e collega Leon Kossoff nel ’54. Da allora vi si recava tutti i giorni, sette giorni su sette, per dipingere, a parte un giorno all’anno in cui prendeva il treno per Bringhton sulla costa meridionale dell’Inghilterra (a circa un’ora e mezza da Londra) per respirare un po’ d’aria di mare e poi ritornare in fretta e furia. Nello studio, da quando era tornato con la moglie, la pittrice Julia Wolstenholme (da cui ha avuto il figlio Jake che adesso fa il regista), dopo la tumultuosa e appassionata relazione con Estella Olive West, lui dormiva anche cinque notti a settimana (nel weekend andava dalla moglie). Non guardava mai la televisione che riteneva “un’invenzione abominevole” e la mattina, prima delle sette per non trovare traffico, dipingeva i parchi, le strade e gli edifici lì intorno. Tuttavia erano i ritratti quelli a cui dedicava più tempo, impegno e dedizione.

Si parla di immagini stilizzate ma dinamiche che emergono dalla pittura densa e grumosa spesso al limite dell’immaginabile in cui raramente si riconosce il soggetto. Comunque il Signor Auerbach ritraeva un ristrettissimo gruppo di persone, sempre le stesse (in genere amici e famigliari, tra cui la moglie, l’amata West e la modella Juliet Yardley Mills). Uno dei motivi era che posare per lui doveva essere una vera e propria prova di sopportazione: due ore a settimana per un tempo indefinito che poteva protrarsi facilmente per un anno o due e niente ritardi altrimenti lui si innervosiva. Un modello ha riferito a The Guardian: “Era come andare dal dentista”. Un altro ha invece spiegato: “Parla da solo tutto il tempo, dicendo 'spazzatura, non è abbastanza buono, spazzatura completa'. Ma ti rendi conto che improvvisamente a un certo punto in questo atto di creazione è un po' più contento. Di punto in bianco entra in uno stato di meditazione e tocca la tela con grande delicatezza, e pensi che forse è finalmente soddisfatto".

E.O.W. Nude, 1953–4, Frank Auerbach Oil paint on canvas. 508 × 768 mm frame: 683 × 945 × 106 mm Tate Britain

Era un disegnatore geniale e un pittore, perennemente insoddisfatto (anche molti anni dopo ricomprava le opere che non lo convincevano per distruggerle) ma enorme, con la mente sempre rivolta ai grandi maestri (tra loro Picasso ma anche Tiziano, Rembrandt e Rubens). All’inizio della sua carriera sovrapponeva strati su strati di pigmento, talvolta raschiando via zone gli sembravano sbagliate, per poi applicarne ancora e ancora. Si trattava di volumi di colore incredibilmente tattili e talmente consistenti che nel ’55 quando vennero esposti per la prima volta (opere oggi celebrate come Head Of EOW del 1954-55 che aveva richiesto 300 sedute e due anni di lavoro e l'EOW Nude del 1953-54) ci vollero due o tre persone per reggerli talmente erano diventati pesanti, e, alla fine, si decise di appoggiarli sul pavimento per paura che la vernice si staccasse e cadesse a terra. Qualche anno dopo però cambiò tecnica e cominciò a dipingere per poi raschiare via l’intero risultato, poi ridipingeva poi raschiava di nuovo e così via per un infinito numero di volte. Secondo una stima fatta dallo stesso artista pare che il 95 per cento del colore da lui utilizzato finisse nell’immondizia.

Era nato a Berlino il 29 aprile del 1931 da una famiglia ebrea colta e benestante. Il padre Max era un avvocato specializzato in brevetti, mentre la madre Charlotte Borchardt aveva ricevuto una formazione artistica. Ma poi la situazione politica tedesca si complicò troppo e i genitori decisero di mandare il piccolo Frank Helmut Auerbach in Inghilterra attraverso un programma per bambini rifugiati. Poco tempo dopo loro furono internati in un campo di concentramento ed uccisi ma il figlio si salvò ed ebbe l’opportunità di studiare oltre Manica. Fin da piccolo sognava di fare l’artista e frequentò prima il Bunce Court School a Otterden, nel Kent, poi il Hampstead Garden Suburb Institute e la St. Martin's School of Art di Londra. Recuperò infine un semestre al Borough Polytechnic Institute (ora London South Bank University), dove studiò con il pittore vorticista David Bomberg (che lui ricordò per tutti gli anni a venire). Era dotato per l’arte ma lo era anche per il teatro e una volta finì a recitare in una produzione dell’opera di Peter Ustinov, "House of Regrets", lì incontrò la signora Estella Olive West. Lui aveva 17 anni lei 32, sarebbero stati insieme per 25 anni.

La tragica fine della sua famiglia e le difficoltà che porta intraprendere la carriera artistica, lo misero nella condizione di avere costanti problemi economici. Tanto che per sopravvivere insegnò, trovò lavoro presso la panetteria della famiglia Kossoff nell'East London, fece il corniciaio e vendette persino gelati a Wimbledon Common. Ne avrebbe risentito per molti anni anche la sua pittura: per risparmiare comperava soltanto pigmenti scuri che costavano meno. Man mano che la sua situazione finanziaria migliorava (ci vollero molti anni perché si sistemasse definitivamente) aggiungeva colori dalle tinte sempre più accese che emergevano irrequieti in mezzo alla biacca incrostata. La sua affermazione venne ritardata da vari movimenti come l’Arte Concettuale e il Minimalismo ma nell’86 rappresentò la Gran Bretagna alla Biennale di Venezia e si aggiudicò il Leone d’Oro insieme al tedesco Sigmar Polke. Ora le sue opere superano molto spesso il milione.

Nel 2011 quando morì Lucian Freud una parte della sua vasta collezione di Aurbach fu donata al governo inglese al posto della tassa di successione di 16 milioni di sterline (al cambio attuale oltre 19 milioni di euro).

Nel corso del tempo raccolse critiche entusiastiche e pareri ferocemente contrari che vanno da “l’inglese testardo per eccellenza” con cui lo liquidò il critico Stuart Morgan a "uno degli artisti più ammirati che lavorano oggi in Inghilterra" del critico Robert Hughes. Ma martedì, dopo che il mondo aveva appreso della sua scomparsa tutti gli artisti più famosi del Regno Unito lo hanno celebrato.

Frank Auerbach, Mornington Crescent - Summer Morning 2004 © Frank Auerbach Tate Britain

Barbara Chase-Riboud, prima artista vivente nella storia, espone in 8 musei parigini contemporaneamente (tra loro il Louvre)

Barbara Chase-Riboud. Les baigneurs. FNAC 9805. Centre national des arts plastiques_and Time Wom. Pivate Coll USA_Expo musée d’Orsay 2024 © Barbara Chase-Riboud_Cnap

Fan e amica dello scultore svizzero-italiano, Alberto Giacometti (era nato non molto lontano dal confine, la famiglia aveva radici italiane), Barbara Chase-Riboud, è francese d’adozione (vive nel VI arrondissement di Parigi in un edificio art-decò) ma ha speso parte della sua vita in Italia, nonostante ciò non è una delle artiste più conosciute nel nostro Paese. Ed è strano perché, pluripremiata poetessa, famosa scrittrice, è una scultrice dalla carriera settantennale alle spalle. Di più: in seconde nozze ha sposato il critico italiano Sergio Tosi e da decenni il suo studio ha sede a Roma, dove visse un anno (dal ’56 al ’57) per studiare all’Accademia Americana. E poi lei (che padroneggia parecchie lingue) dice di imprecare in italiano.

In realtà, Chase-Riboud è poco nota come artista visuale anche altrove. Probabilmente per via del successo letterario che ha adombrato la sua non meno importante attività scultorea. In Francia, tuttavia, dove non esponeva dal lontano ’74, si è deciso di porre rimedio alla lacuna. Alla maniera d’oltralpe: in grande stile!

Insignita della Legion d’Onore dal governo francese nel 2022, Chase-Riboud, infatti, da inizio ottobre viene celebrata contemporaneamente da otto musei parigini (tra loro il Louvre, il Centre Pompidou, il Museé d’Orsay e il Palais de Tokyo). E’ il primo artista vivente cui viene tributato quest’onore.

D’altra parte la sua carriera, cominciata con l’acquisto di una xilografia che aveva fatto a soli quindici anni da parte del MoMa di New York e la sua storia personale (basta dire che fu Jacqueline Kennedy Onassis a spronarla a scrivere il suo primo romanzo), sono del tutto fuori dall’ordinario.

Barbara Chase-Riboud and Bathers, La Chenillère, France 1969 © Photograph by Marc Riboud

Barbara Chase-Riboud nasce nel 1939 a Philadelphia in Pennsylvania (lo stato confina con quello di New York anche se Philadelphia è piuttosto vicina a Washington) da una famiglia afroamericana della classe media. Fin da bambina manifesta uno spiccato talento per le arti, tanto che a soltanto 8 anni comincia a frequentare la Fleisher Art Memorial School. Si sarebbe poi diplomata con il massimo dei voti alla Philadelphia High School for Girls (avrebbe però anche seguito dei corsi alla scuola d’arte del museo di Philadelphia) per poi laurearsi in Belle Arti alla Tyler School della Temple University. Dopo questo periodo crea le sue prime sculture in bronzo, comincia a esporre i suoi lavori e studia un anno all’Accademia Americana di Roma (aveva vinto una borsa di studio, però, per guadagnare qualche soldo in più, ha partecipato come comparsa in costume al film Ben-Hur e Cinecittà la ha selezionata per prendere parte ad altre produzioni) ma soprattutto consegue un master in belle arti alla Yale University (ai tempi le afroamericane ad averla frequentata si contavano sulle dita delle mani).

In seguito di Yale avrebbe detto: “C'erano tre donne nere alla scuola di specializzazione a Yale nel '57. Una in filosofia, una in legge e poi c'ero io. Ma l'ho semplicemente ignorato", ha poi aggiunto: “E naturalmente, ero già stata all'accademia di Roma, che era la stessa situazione: era tutto maschile”.

Chase-Riboud in quegli anni sognava l’Europa. L’idea era quella di trasferirsi a Londra (i mitici Swinging Sxties si stavano avvicinando, e chi non avrebbe voluto essere nella capitale inglese in quel periodo?!) ma durante un soggiorno in Francia conosce il fotografo dell’agenzia Magnum, Marc Riboud (è talentuoso e viene anche da una ricca famiglia): si fidanzano, si sposano, fanno due figli e rimangono a Parigi. Barbara, che ai tempi aveva già viaggiato parecchio (sia in Occidente che in Africa), vive con la valigia sempre pronta. In merito dirà: “Sono andata ovunque perché all'epoca ero sposata con Marc Riboud, un fotografo e membro della Magnum Photos, che ha coperto il mondo. In molti di questi viaggi, ero solo lì per il viaggio. Ma che viaggio è stato! Ho scoperto tutti i tipi di nuove civiltà e nuovi modi di guardare il mondo che non avevo idea avrei mai conosciuto”. E commentando quei viaggi che l’avrebbero portata tra gli altri luoghi in Cina, Nord Africa, Europa orientale e Mongolia, ha aggiunto: “Sono stata la prima donna americana a essere invitata in Cina dopo la rivoluzione. Ho partecipato a una cena con il presidente Mao Zedong. Io e 5.000 cittadini cinesi. È stata un'avventura straordinaria”.

Non a caso, anche dopo il divorzio (nell’81) e il secondo matrimonio con Tosi lei continuerà a mantenere accanto al suo il cognome del primo coniuge, sposato il giorno di Natale di vent’anni prima.

Barbara Chase-Riboud. Portrait © Virginia Harold. Courtesy Pulitzer Arts Foundation-jpg

Nel frattempo Chase-Riboud lavora instancabilmente. Usa vari medium ma quello che la definisce meglio è anche quello per cui è più conosciuta: la scultura. Al principio risente molto l’influsso di Giacometti e modella figure per poi dedicarsi all’astrazione. Il suo materiale prediletto è il bronzo: “Il bronzo è senza tempo. È intriso di storia, è il materiale degli artigiani del Regno del Benin e del Barocco". Usa un metodo a cera persa che affonda le sue origini, appunto, nella storia di antiche civiltà ma che sostanzialmente lei ha creato di testa sua: manipola dei grandi fogli di cera rossa, poi fonde i prototipi in bronzo e li drappeggia con matasse di seta o lana intrecciati. Le sue opere, il più delle volte dalle dimensioni imponenti, sono un mix di immobile e sacrale monumentalità con tensioni al movimento a volte frementi, altre violentemente legate all’affermazione e alla forza, altre ancora biomorfe, capaci far apparire il metallo in via di liquefarsi. I tessuti fanno da contrappunto morbido e tattile alla solidità del bronzo. E poi c’è la grazia di pieghe e intrecci, lo sfarzo dell’oro, l’irrompere inaspettato del rosso.

Sul perché, Chase-Riboud non ha dubbi: “Si crea arte per creare bellezza; non c'è nessun altro motivo. Qualsiasi altro motivo è davvero autoindulgente, per quanto mi riguarda".

Barbara Chase-Riboud. Zanzibar (Brown Element)1974-75_Expo 2024 Palais Porte dorée © Anne Volery Palais de la Porte Dorée

Molte sue sculture, tuttavia, fanno riferimento a personaggi della storia recente. Ad esempio, una delle sue prime serie distintive (siamo nel ’69 quando l’ha cominciata) è dedicata al leader afroamericano assassinato nel ’65, Malcom X. Queste opere (una delle quali è attualmente esposta al Centre Pompidou) hanno dimensioni imponenti e sono, tra l’altro, ispirate alle antiche pratiche funerarie egizie. Mentre recentemente ha presentato quella che rende omaggio a Josephine Baker (non molto tempo prima, infatti, il nome di Baker era entrato nel Panthéon, quinta donna nella storia a meritare tale onore e prima nera in assoluto). Ma i suoi memoriali hanno commemorato anche a Lady Mcbeth o Cleopatra. In generale queste opere spingono a chiedersi secondo quale principio si decida a chi rendere omaggio e perché.

Alle pareti del Louvre ci sono anche dei versi di Chase-Riboud. Come poetessa lei è conosciuta già dal ’74, quando pubblicò una raccolta curata dalla premio Pulitzer, Toni Morrison. Ma la fama in campo letterario l’ha ottenuta con il romanzo storico "Sally Hemings" (è proprio questo che Jackie Kennedy la esortò a scrivere) e le polemiche che ne seguirono. Il libro parla, infatti, della schiava con cui Thomas Jefferson (terzo presidente degli Stati Uniti dal 1801 al 1809) visse da concubino e da cui ebbe sei figli (siamo nel ’79, qualche storico mette in dubbio la relazione di Jefferson, la CBS viene spinta a non mandare in onda una serie Tv sull’argomento; anni dopo il dna accerterà che i figli erano effettivamente di Jefferson). Comunque per Chase-Riboud fu tutta pubblicità, dopo questo primo successo avrebbe scritto molti altri romanzi storici e sarebbe arrivata a superare le 3milioni di copie vendute in tutto il mondo.

Le mostra parigina di Barbara Chase-Riboud in più musei, si concluderà a gennaio 2025. La data precisa dipende dall’istituzione culturale: si va dal 5 del Palais de Tokyo o dal 6 di Louvre e Centre Pompidue al 13 del Musée du quai Branly - Jacques Chirac. Mentre il Musée d’Orsay (che aveva installato le sue opere prima degli altri) terminerà il suo tributo all’artista franco-statunitense già il 15 dicembre 2024.

Barbara Chase-Riboud. Mao's Organ, 2007. Private collection_Expo 2024 Musée Guimet © Barbara Chase-Riboud

Barbara Chase-Riboud. Cleopatra s Cape_Expo 2024 Musée du Louvre © Collection of the Studio Museum in Harlem, New York

Barbara Chase-Riboud. Cleopatra s Cape_Expo 2024 Musée du Louvre ©Musée du Louvre_AViger

Barbara Chase-Riboud. Time Womb Jacqueline, 1970_Private collection USA_Expo musée d’Orsay 2024 © Barbara Chase-Riboud_Cnap

Barbara Chase-Riboud. Les baigneurs. FNAC 9805. Centre national des arts plastiques_Expo musée d’Orsay 2024 © Barbara Chase-Riboud_Cnap

Barbara Chase-Riboud. Cleopatra s bed_Expo 2024 Musée du Louvre © Musée du Louvre_AViger

Barbara Chase-Riboud. Zanzibar (Brown Element), 1974-75. Private collection_ Expo 2024 Palais Porte Dorée © Jo Underhil

Barbara Chase-Riboud avec La Musica Josephine RedBlack 2021. Private collection_Expo 2024 Cité de la musique © Grace Roselli