Giuseppe Penone alle Serpentine Galleries: il Respiro della Materia

Giuseppe Penone, Alberi libro (Book Trees), 2017 and Respirare l’ombra (To Breathe the Shadow), 2000, installation view, Serpentine South. ©Photo: George Darrell. Courtesy Giuseppe Penone and Serpentine.

Le Serpentine Galleries di Londra ospitano, fino al 7 Settembre 2025, la più ampia retrospettiva mai dedicata nel Regno Unito a Giuseppe Penone, uno dei maggiori esponenti dell’Arte Povera.

La grande esposizione, dal titolo “Thoughts in the Roots, ripercorre oltre cinquant’anni di carriera dell’artista piemontese, presentando opere dal 1969 ad oggi.

Curata da Claude Adjil, Hans Ulrich Obrist (direttore delle Serpentine che quest’anno sarà anche presidente della giuria alla 19esima Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia) e Alexa Chow, l’esposizione si sviluppa sia all’interno della galleria che all’esterno, nei Kensington Gardens, creando un percorso immersivo che riflette la poetica dell’artista, incentrata fortemente sul dialogo tra Uomo e Natura.

La mostra offre un’esperienza sensoriale e meditativa, invitando il visitatore a riflettere sulla sua personale relazione con il mondo naturale.

Penone lavora utilizzando materiali organici come legno, pietra, bronzo, cera, pelle e foglie. Le sue opere rivelano e suggeriscono un’evoluzione, un respiro, una crescita nel tempo della natura, al pari del corpo umano. Ogni opera esprime una trasformazione che si lega al concetto di Memoria, agli alberi e alle radici, in connessione e dialogo con la terra. L’artista non impone la forma alla materia, non la ‘plasma’ nel senso classico del termine, ma la ascolta, la vive nel profondo della sua anima e ne fa emergere il suo universo intrinseco. Il suo è un approccio filosofico, capace di innescare una riflessione attenta nell’essere umano sul suo legame con il paesaggio. L’artista diventa il gancio tra umano e vegetale, fino a dissolvere i confini tra il corpo umano e l’elemento naturale.

Le installazioni di Penone sono tra le espressioni più potenti della sua arte; si fondono nel paesaggio, quasi fino a diventarne parte integrante. In mostra spiccano Respirare l’ombra (2000) che presenta pareti rivestite di foglie di alloro, e Soffio di foglie che cattura l’Impronta del respiro dell’artista su un letto di foglie.

All’esterno sculture in bronzo come Albero folgorato (2012) esprimono tutta la vitalità della natura. 

Giuseppe Penone, Idee di pietra (Ideas of Stone), 2010 - 2024. Bronze and river stones. ©Photo: George Darrell. Courtesy Giuseppe Penone and Serpentine.

Giuseppe Penone, Idee di pietra (Ideas of Stone), 2010 - 2024. Bronze and river stones. ©Photo: George Darrell. Courtesy Giuseppe Penone and Serpentine.

Giuseppe Penone, Respirare l’ombra (To Breathe the Shadow), 2000. Metal grids, laurel leaves, and bronze. ©Photo: George Darrell. Courtesy Giuseppe Penone and Serpentine.

Giuseppe Penone, Respirare l’ombra (To Breathe the Shadow), 2000. Metal grids, laurel leaves, and bronze. ©Photo: George Darrell. Courtesy Giuseppe Penone and Serpentine

Giuseppe Penone, Albero folgorato (Thunderstruck Tree), 2012. Bronze and gold. ©Photo: George Darrell. Courtesy Giuseppe Penone and Serpentine.

Giuseppe Penone, Albero folgorato (Thunderstruck Tree), 2012. Bronze and gold. ©Photo: George Darrell. Courtesy Giuseppe Penone and Serpentine.

Giuseppe Penone, Alberi libro (Book Trees), 2017. White fir wood, cedar wood, and larch wood. ©Photo: George Darrell. Courtesy Giuseppe Penone and Serpentine.

Giuseppe Penone, A occhi chiusi (With Eyes Closed), 2009. Acrylic, glass microspheres, acacia thorns on canvas, and white Carrara marble. ©Photo: George Darrell. Courtesy Giuseppe Penone and Serpentine.

Giuseppe Penone, A occhi chiusi (With Eyes Closed), 2009. Acrylic, glass microspheres, acacia thorns on canvas, and white Carrara marble. Photo © Archivio Penone. Courtesy Giuseppe Penone.

Giuseppe Penone, Thoughts in the Roots, 2025. Installation view, Serpentine South. © Photo: George Darrell. Courtesy Giuseppe Penone and Serpentine.

Giuseppe Penone, Verde del bosco (Forest Green), 1986 and Verde del bosco – estate 2017 (Forest Green – Summer 2017), 2017, installation view, Serpentine South. ©Photo: George Darrell. Courtesy Giuseppe Penone and Serpentine.

Giuseppe Penone, Sguardo vegetale (Vegetal Gaze), 1995. Photo ceramic. ©Photo: George Darrell. Courtesy Giuseppe Penone and Serpentine.

Arpita Singh tra i pionieri ingiustamente esclusi dai manuali di storia dell’arte viene celebrata alla Serpentine

Arpita Singh, My Lollipop City: Gemini Rising, 2005. Vadehra Art Gallery © Arpita Singh.

Sebbene Arpita Singh nel 1976 dipingesse già da parecchi anni e avesse individuato nella figurazione il suo linguaggio espressivo, un giorno decise di rinunciarvi e da quel momento in avanti, per quasi sei anni, tracciò solo linee e punti. Ripetutamente, quasi ossessivamente, centinaia e centinaia di volte, usando carta, matite, penne e inchiostri, a volte pastelli e vernice spray, altre coloranti vegetali e shampoo shikakai. Generalmente lavorava in bianco e nero, e pure se Paul Klee fosse uno dei suoi eroi non era all’astrazione che pensava in quel periodo ma a fare esercizio: sentiva di “non muoversi naturalmente sulla tela”. Visti adesso, anche questi suoi tentativi di automiglioramento hanno la dignità della grande arte.

Del resto Arpita Singh, cui dal 20 marzo scorso le prestigiose Serpentine Galleries di Londra dedicano la mostra “Remembering”, a 88 anni è una dei pionieri dell’arte contemporanea indiana e un’artista di grande talento il cui nome resta ad oggi però sconosciuto alla maggior parte del pubblico internazioale. Lo stesso direttore artistico di Serpentine (nonchè famoso critico di lungo corso) Hans Ulrich Obrist, ha detto di aver conosciuto l’opera della signora Singh solo alla fine del primo decennio del 2000 quasi per caso: l’“abbiamo incontrata- ha dichiarato Obrist insieme all’amministratrice di Serpentine Bettina Korek- per la prima volta durante la ricerca per la mostra del 2008/2009 alla Serpentine South intitolata Indian Highway (…) Questa mostra storica si basa sulla riconosciuta capacità della Serpentine di mettere in luce artisti pionieri che devono ancora ricevere un riconoscimento globale per il loro lavoro, come Luchita Hurtado, Faith Ringgold, Hervé Télémaque, James Barnor, Kamala Ibrahim Ishag e Barbara Chase-Riboud”.

Difatti, con un numero impressionante di lavori che documentano ben sei decenni di attività artistica di Arpita Singh, quella alle Serpentine Galleries è la prima personale della signora Singh in uno spazio istituzionale non indiano. Lei in merito ha detto: “Remembering attinge a vecchi ricordi da cui sono emerse queste opere. Che io ne sia consapevole o meno, c'è qualcosa che accade nel mio profondo. È il modo in cui scorre la mia vita. La Serpentine è un museo noto e affermato. Avere una mostra personale lì è un piacere, un onore e una sorpresa per me".

Arpita Singh, Remembering, Serpentine North © Photo: Jo Underhill. Courtesy Arpita Singh and Serpentine.

In India invece la signora Singh è piuttosto nota. Ha anche fatto parlare di sé per aver cavalcato con successo le aste d’arte contemporanea tra la fine degli anni ’90 in poi (un dipinto nel’99 valutato poco più di 570 dollari è stato poi venduto per oltre un milione e trecentomila; mentre nel 2010 un lavoro ha sfondato il tetto dei 2 milioni).

La sua opera mixa un approccio onirico e profondamente personale agli sconvolgimenti politici e sociali che hanno scosso l’India dalla sua indipendenza (avvenuta il 15 agosto 1947) in avanti. Stilisticamente unisce riferimenti al Surrealismo e in genere a vari modernisti europei, alla pittura di corte bengalese, alle miniature, ai tessuti e alle rappresentazioni folcloristiche del subcontinente indiano.

In merito Obrist e Korek hanno spiegato: “Attraverso una pratica che fonde l'arte popolare bengalese con esplorazioni moderniste dell'identità, Singh ritrae vividamente scene di vita e immaginazione, storie e simboli, unendo il personale e l'universale (…)”.

Arpita Singh, The Tamarind Tree, 2022. Courtesy of Vadehra Family Collection. © Arpita Singh

Nata nel 1937 a Baranagar in quello che oggi è il Bengala Occidentale, Arpita Dutta (in seguito avrebbe scelto di firmare il proprio lavoro col cognome del marito), che aveva già perso il padre fu costretta a scappare dalla sua città natale insieme alla madre e al fratello quando aveva 9 anni (malgrado gli stupri, il sangue e la violenza sarebbero esplosi solo l’anno successivo con l’indipendenza e la partizione del territorio che ne sarebbe seguita, ad Arpita quel momento rimase talmente impresso che lo ha dipinto più e più volte). Da allora vive a Nuova Delhi. Si è laureata in belle arti al Politecnico di Delhi e poi ha lavorato al Weavers' Service Centre (una cooperativa governativa nata nel ’56 sempre a Delhi per preservare e promuovere le tradizioni tessili dell'India) imparando a conoscere i tessuti tradizionali di tutto il Paese. Si è sposata con il collega artista Paramjit Singh da cui ha avuto una figlia (Anjum Singh, a sua volta artista talentuosa, morta prematuramente di cancro nel 2020). Ancora oggi dipinge tutti i giorni dalle nove di mattina fino al primo pomeriggio.

Malgrado l’arte della signora Singh nel tempo si sia evoluta, passando dall’acquerello a una pittura ad olio stesa con crescente maestria ed abilità (spesso appiattisce l'olio in modo tale che le campiture sembrino pezzi di carta colorati applicati sulla tela; a volte riesce persino a stupire utilizzando la pittura inversa); da una dimensione prevalentemente intima a una più apertamente politica e di denuncia sociale; da composizioni tutto sommato raccolte a grandi lavori simili a mappe animate da un respiro epico. Nonostante ciò, la componente narrativa nella sua opera si ritrova inalterata dagli esordi fino ad oggi, ed è per questo che l’inesplicabilità dei suoi racconti sembra tutto sommato strana. Ad alcuni simboli ricorrenti (come gli omini vestiti di nero che rappresentano la kafkiana burocrazia del subcontinente) è facile trovare una spiegazione ma in linea di massima il significato più profondo delle sue storie resta avvolto nel mistero. In un’intervista lei ha detto: "Tutte le opere d'arte, che si tratti di un libro, una canzone o un dipinto, sono specchi, In un certo senso, l'artista ti mostra lo specchio e tu ci vedi te stesso".

Arpita Singh, Devi Pistol Wali, 1990. Courtesy of Museum of Art & Photography, Bengaluru, India. © Arpita Singh

Punteggiate da elementi che ricordano una natura lussureggiante e benevola (come manghi e fiori), uno spazio domestico altrettanto rassicurante (cuscini colorati ecc.) e riccamente incorniciate, le opere della signora Singh, mettono al centro figure femminili che affrontano con quieto coraggio una società in subbuglio dove ordinaria follia e violenza vanno di pari passo “In particolare- spiega Serpentine- l'artista si è occupata dell'impatto distintivo di eventi locali, nazionali e globali sulla psicologia delle donne, in particolare quelle all'interno della sua rete sociale”.

Grande lettrice, lei fa spesso ricorso a lettere e parole (sia in alfabeto devanagari che in quello latino) nella costruzione delle sue grandi tele. Un’abitudine che ha preso però quando al principio della sua carriera, per risparmiare, dipingeva su fogli di giornali e riviste.

Tra le sue opere una delle più famose (e ai tempi in cui venne presentata pubblicamente, in India, anche la più discussa) è “Devi Pistol Wali” (1990). In cui la dea indù dalle molte braccia solleva gli angoli del sari (bianco da lutto) con due mani, mentre con le altre regge un mango, una pianta in fiore e una pistola; sopra di lei volteggiano aerei militari.

Remembering” di Arpita Singh (curata da a Tamsin Hong in collaborazione con Liz Stumpf) rimarrà alla galleria nord delle Serpentine Galleries di Londra fino al 27 luglio 2025.

Arpita Singh, Remembering, Serpentine North © Photo: Jo Underhill. Courtesy Arpita Singh and Serpentine.

Arpita Singh, Buy Two, Get Two Free, 2007. Private Collection. © Arpita Singh

Arpita Singh, Remembering, Serpentine North © Photo: Jo Underhill. Courtesy Arpita Singh and Serpentine.

Arpita Singh, Lesser Myth, 2006. Courtesy of Vadehra Family Collection. © Arpita Singh

Arpita Singh, Remembering, Serpentine North © Photo: Jo Underhill. Courtesy Arpita Singh and Serpentine.

Arpita Singh, Remembering, Serpentine North © Photo: Jo Underhill. Courtesy Arpita Singh and Serpentine.

Arpita Singh © Vadehra Gallery

L’opera pazza ed elusiva di Leigh Bowery viene celebrata alla Tate trent’anni dopo la morte dell’artista

Fergus Greer, Leigh Bowery Session 1 Look 2 1988 ©Fergus Greer. Courtesy Michael Hoppen Gallery. 

Leggendo le parole con cui chi lo conosceva ha ricordato lo stilista e performer Leigh Bowery, in occasione di una importante mostra a lui dedicata in corso alla Tate Modern di Londra, si ha l’impressione di trovarsi di fronte alle descrizioni di persone diverse. C’è chi lo racconta come un uomo “timido e ben educato”, chi “silenzioso e riservato” e ancora qualcuno lo dipinge come “sfrontato e provocatorio”. Del resto lui che metteva al centro della sua opera i concetti di rinascita, mutamento e reinvenzione (e li applicava prevalentemente a se stesso), di fronte alla domanda di un giornalista che gli chiedeva in quali occasioni gli fosse capitato di mentire, aveva risposto “Quando pensi mi succeda di respirare?

Ugualmente elusivo, il suo lavoro sfugge alla categorizzazione. “Se mi etichetti, mi neghi” disse nel ’93, un anno prima di morire a soli 33 anni di AIDS. Era vero allora come adesso e forse anche per questo non è mai diventato davvero famoso. Almeno al di fuori del suo elemento: la Londra underground degli anni ’80: post-punk e new romantic in cui giovani festaioli e talvolta scapestrati si ritrovavano a ballare gomito a gomito con le celebrità del momento.

La stessa capitale inglese che torna a rivivere nell’antologica “Leigh Bowery!”.

La mostra della Tate è segnalata più o meno da tutti come uno degli appuntamenti più importanti dell’anno. Innanzitutto per la completezza del materiale esposto: fotografie, video, oggetti e costumi (il più delle volte completamente ricostruiti per “la sporcizia da discoteca” che li aveva ricoperti); oltre agli splendidi dipinti di Lucian Freud per cui ha fatto da modello. Ma anche perché, sebbene l’influsso dell’opera del signor Bowery sia ormai universalmente riconosciuto, è un errore piuttosto comune quello di collocarlo soprattutto nell’ambito della moda. Mentre lui, oggi icona drag e del movimento Lgbtqi+, è stato anche personaggio televisivo, club kid, promotore di locali, musicista, performer e artista.

Fergus Greer, Leigh Bowery Session 4 Look 19 August 1991 ©Fergus Greer. Courtesy Michael Hoppen Gallery.

Nato nel 1961 a Sunshine (un sobborgo di Melbourn in Australia), Leigh Bowery proveniva da una famiglia piuttosto rigida e conservatrice (in proposito la sorella minore, Bronwyn, ha recentemente detto: "Quando cresci in quel tipo di ambiente, hai due scelte: conformarti o reagire. Leigh ha scelto di reagire. Fin da bambino, era istintivamente spinto dal desiderio di sfidare e sconvolgere lo status quo, sia a casa che nella comunità”). Probabilmente anche per questo a soli diciannove anni si trasferì a Londra. Dove arrivò con pochi soldi, una valigia e una macchina da cucire portatile. Nel giro di pochissimo tempo però diventò una presenza fissa dei club più di tendenza dell’epoca. Conosceva tutti e si mise a fare lo stilista; ma la moda non faceva per lui: le sue creazioni erano troppo bizzarre e trasgressive per il pubblico, mentre a lui non piaceva vestire altri e disprezzava la parte commerciale del mestiere.

Così si dedicò a ideare e produrre costumi sempre più radicali ed elaborati, fatti con tutto quello che gli capitava tra le mani per sé stesso (a un certo punto si copriva anche il volto con maschere o passamontagna multicolore), che, una volta indossati, lo trasformavano in una scultura vivente. Allo stesso modo il trucco (coloratissimo e spesso tattile) era un modo per dipingere usando il corpo come supporto. Usava anche parrucche e scarpe dai tacchi altissimi che lo rendevano ancora più imponente di quanto non fosse già (aveva una corporatura robusta e secondo la sorella era alto un metro e 87 centimetri). L’amico e cantante Boy George l’ha descritto in questo modo a un quotidiano statunitense: “Quando vedi le drag queen che fanno riferimento a Leigh è meraviglioso, ma troppo raffinato. Leigh era molto rozzo e aveva la corporatura di un giocatore di rugby, e non era né grazioso né fatato". Anche Marina Abramović ha scritto di lui: “Era un uomo enorme” (Leigh fece un costume da “regina dei topi” per Abramović nel ’94, quando lei rappresentò “Delusional”, in cui alla fine lei si calava nuda in una botola in cui erano intrappolati 400 topi vivi).

Leigh Bowery con la collaboratrice, amica e moglie Nicola Bateman Dave Swindells, Daisy Chain at the Fridge Jan '88: Leigh & Nicola 1988 (c) Dave Swindell

Tuttavia il signor Bowery ambiva a superare i limiti del proprio corpo e ad usarlo come fosse creta o stoffa: per questo si sottoponeva a bendaggi del torace, modellava il collo con bustini contenitivi e teneva ferme le maschere attraverso piercing al volto. Una volta ha affermato: “La carne è il tessuto più favoloso”.

Malgrado qualsiasi sua uscita fosse una mise en scene, la carriera ufficiale di performer per Leigh Bowery, inziò nell’88 alla Anthony D'Offay Gallery di Londra. Durante la mostra si distendeva su un divano del XIX secolo disposto dietro uno specchio unidirezionale (come quelli nella sala interrogatori dei film e delle serie tv), ogni tanto si alzava, si sistemava il trucco e rimirava il proprio riflesso. Contemporaneamente nello spazio riservato al pubblico (che lo osservava senza essere visto) venivano diffusi suoni e odori. Lo show durò una settimana, nel corso della quale l’artista si presentò con un costume diverso ogni giorno, parlando di storia dell’arte ma anche del guardare ed essere guardati.

Amico del coreografo britannico Michael Clark, il signor Bowery, per un certo periodo creò i costumi per gli spettacoli di Clark e, a volte, si esibì come solista. La sua performance più famosa però richiedeva molto più impegno. Intitolata “Birthing”, l’esibizione lo vedeva cantare e ballare con un pesante costume di velluto finchè non si sdraiava per terra e, aprendo le gambe davanti al pubblico, partoriva la sua assistente Nicola Bateman che usciva dall’imbracatura (nascosta sulla pancia dell’artista), ricoperta di sangue di scena e con una fila di salsicce al posto del cordone ombelicale. A conclusione dello spettacolo, già stupefacente di per se, Bowery tagliava anche il finto cordone ombelicale e nutriva Bateman, facendo cadere nella bocca di lei una cucchiaiata di minestrone (che era riuscito a conservare, non si sa come, sotto il costume). Potete vederne una rappresentazione qui.

Lucian Freud, Nude with Leg Up (Leigh Bowery) 1992 © The Lucian Freud Archive. All Rights Reserved 2024.

Nella sua storia, il fatto che nell’85 l’artista abbia fondato Taboo (un locale notturno londinese rivolto soprattutto alla clientela gay ma frequentato anche da etero) ha un peso. Innanzitutto per il successo del club, in cui gente di ogni tipo si mischiava a celebrità come Bryan Ferry, George Michael e Mick Jagger. “Di questi tempi- scrisse la giornalista Alix Sharkey su ID, bibbia dello street style dell’epoca- il giovedì sera nel West End di solito significa Taboo, il club più squallido, più kitsch e più stronzo del momento a Londra, pieno di stilisti, modelle, studenti, feccia e, si spera, alla moda (…)” E poi perché fu un palcoscenico a sua misura che gli permise di farsi conoscere e conoscere (qui, per esempio, incontra l’artista Cerith Wyn Evans che gli presenterà il famoso pittore Lucian Freud e comincerà l’amicizia con la sua futura collaboratrice, la stilista Nicola Bateman).

Il signor Bowery era apertamente gay ma appena pochi mesi prima di morire sposò Bateman. In merito a questo improbabile matrimonio nel corso del tempo sono girate varie spiegazioni (si erano sposati per il permesso di soggiorno, per ragioni fiscali ecc.) e lo stesso sposo ha definito la cerimonia “una performance artistica personale" ma Sue Tilley (amica strettissima dell’artista) ha detto che in ospedale lui le aveva confessato di temere che Nicola lo lasciasse per un altro uomo.

Solo a Bateman e Tilley, lui confidò di avere l’AIDS (che ai tempi era un killer senza scampo né pietà). Morì la notte di capodanno del ’94, Freud pagò il rimpatrio della salma in modo che potesse riposare accanto alla madre. Ma al momento della sepoltura i famigliari si resero conto che la fossa era troppo piccola per la grande bara che conteneva le spoglie dell’artista e dovettero rimettersi a scavare.

Leigh Bowery!”, organizzata dal museo inglese in collaborazione con Nicola Rainbird (nata Bateman) e curata da Fiontán Moran, resterà alla Tate Modern di Londra fino al 31 agosto 2025.

Fergus Greer, Leigh Bowery Session 4 Look 17 August 1991 ©Fergus Greer. Courtesy Michael Hoppen Gallery.

Leigh Bowery! Tate Modern. Installation view. Tate Photography: Larina Annora Fernandes

Fergus Greer, Leigh Bowery Session 7, Look 37 June 1994 ©Fergus Greer. Courtesy Michael Hoppen Gallery.

Leigh Bowery! Tate Modern. Installation view. Tate Photography: Larina Annora Fernandes

9. Dick Jewell Still from What's Your Reaction to the Show 1988 © Dick Jewell.

Leigh Bowery! Tate Modern. Installation view. Tate Photography: Larina Annora Fernandes

17. Lucian Freud, Leigh Bowery 1991 © The Lucian Freud Archive. All Rights Reserved 2024.

Leigh Bowery! Tate Modern. Installation view. Tate Photography: Larina Annora Fernandes

Fergus Greer, Leigh Bowery Session 3 Look 14 August 1990 ©Fergus Greer. Courtesy Michael Hoppen Gallery.

Leigh Bowery! Tate Modern. Installation view. Tate Photography: Larina Annora Fernandes

Leigh Bowery! Tate Modern. Installation view. Tate Photography: Larina Annora Fernandes