"And Suddenly it all Blossoms": La Biennale di Riga che non c'è mai stata è diventata un film

Nel 2020 doveva tenersi la seconda edizione della Biennale di Riga (Lettonia) ma come la Biennale di Venezia e la maggior parte degli eventi nel mondo è stata sospesa. A poche settimane dall’inaugurazione. La curatrice Rebecca Lamarche-Vadel ha reagito chiamando il regista lettone Dāvis Sīmanis e ne è nato "And Suddenly it all Blossoms". Un film sulla biennale che non cè mai stata, che sarà visibile gratuitamente sul sito di Riboca per pochi giorni.

"And Suddenly it all Blossoms" diretto da Sīmanis insieme alla stessa Lamarche-Vadel è un documentario per immagini, in cui le opere d’arte e la location diventano parte dello stesso racconto. La centrale elettrica dismessa e i magazini abbandonati che vediamo nel film, infatti, insieme alla natura che si riappropria degli spazi, sono molto evocativi. Non a caso uno dei pilastri della seconda edizione della Biennale di Riga avrebbe dovuto essere l’ecologia. In sottofondo una voce narrante collegava le opere e i fotogrammi al progetto curatoriale.

In Inglese, con sottotitoli in lettone e russo (ovviamente), francese e tedesco. Ma non in italiano. "Riboca 2 And Suddenly it all Blossoms" è piacevole da vedere. Ha una bellissima fotografia e la telecamera si muove fluida tra opere, artisti e paesaggio. Dando la sensazione di essere in mostra. O meglio, ricostruendone lo spirito. Non è lunghissimo (1 ora e 14 minuti) e non capire bene l’inglese non pregiudica il piacere della visione visto che le immagini sono le protagoniste.

"RIBOCA2, and suddenly it all blossoms- spiega il sito della Biennale di Riga- è stato sviluppato dall'urgente ricerca di prospettive e proposte alternative all'ossessione dell'umanità per la crescita, l'espansione e il consumo. Dal 20 agosto al 13 settembre 2020, 46 artisti internazionali hanno condiviso lo spazio industriale abbandonato e iconico di Andrejsala a Riga. La mostra ha cercato di reimmaginare i modi in cui gli esseri umani abitano il mondo e di esplorare idee per costruire relazioni consapevoli e inclusive con un pianeta in via di estinzione”.

Nel film compaiono le opere di: Pawel Althamer, Kristaps Ancāns, Félicia Atkinson, Alex Baczynski-Jenkins, Nina Beier, Oliver Beer, Hicham Berrada, Dora Budor, Eglė Budvytytė, Valdis Celms, Edith Dekyndt, Erika Eiffel, Vija Eniņa, Miķelis, Ben Frankis Giillard, Honkasalo-Niemi-Virtanen, Katrin Hornek, Marguerite Humeau, Pierre Huyghe, IevaKrish, Mikhail Karikis e Uriel Orlow, Agnese Krivade, Lina Lapelytė e Mantas Petraitis, Eva L'Hoest, Hanne Lippard, Mikhail Maksimov, Olmedo, Dominika Bere Sarah Ortmeyer, Philippe Petit, Bridget Polk, Ugo Rondinone, Jaanus Samma, Tomás Saraceno, Augustas Serapinas, Timur Si-Qin, Nikolay Smirnov, Anastasia Sosunova, Daina Taimiņa.

Alcune, ma non tutte, si imprimono negli occhi di chi guarda persino meglio che dal vivo.

“Riboca2 And Suddenly it all Blossoms” di Dāvis Sīmanis si potrà vedere grauitamente in anteprima solo fino al 29 novembre. La terza edizione della Biennale di Riga ci sarà la prossima estate (dal 15 luglio al 2 ottobre 2022). A curarla stavolta sarà l’artista tedesco René Block.

Hicham Berrada, Presage SiO2, photo by Hedi Jaansoo. Courtesy Riboca and the artist

Tomás Saraceno, Arachnomancy, photo by Hedi Jaansoo. Courtesy Riboca and the artist

Katrin Hornek, A Landmass to Come, photo by Hedi Jaansoo. Courtesy Riboca and the artist

Philippe Petit, Untitled, Man on Wire, photo by Hedi Jaansoo. Courtesy Riboca and the artist

Tra glitch, pixel e colature i tappeti di Faig Ahmed reinventano l'arte tradizionale dell'Azerbaigian

Faig Ahmed, “Yahya al-Shirvani al-Bakuvi”. Image courtesy of Sapar Contemporary

L’artista Faig Ahmed, nato a Baku in Azerbaigian dove tutt’ora vive e lavora, crea degli spledidi tappeti che reinventano l’antica tradizione azera, inserendo elementi come glitch, pixel o banali colature, tra i motivi che usualmente li decorano.

Faig Ahmed è stato il primo artista a rappresentare l’Azerbaigian alla Biennale di Venezia. Usa vari medium espressivi (dalla performance alla pittura fino all’installazione) ma è conosciuto soprattutto per i suoi tappeti.

Questi ultimi, spesso di dimensioni monumentali, fondono un elemento che mixa cultura alta e bassa del suo Paese d’origine, quasi un simbolo, con pezzi del linguaggio informatico. I pixel ma anche i glitch (cioè malfunzionamenti temporanei di un sistema capaci di produrre strane e coloratissime schermate). A volte però l’artista si limita a lasciare cadere il tappeto fino a terra, semplificato nella cromia, e ancorato a forme curvilinee. Come se si trasformasse in puro colore e colasse giù dalla parete.

In Azerbaigian (Paese dalla Storia tribolata che tuttavia è il primo stato laico democratico a maggioranza musulmana) la tessitura era affidata alle donne, che nel passato si sposavano portando via dalla casa paterna solo i tappeti, tessuti per loro dalle nonne o dalle madri. In questo senso, nella cultura azera il tappeto diventa terreno d’incontro tra riferimenti religiosi, letterari e costume ma anche un simbolo ambivalente.

Faig Ahmed disegna le sue opere con il computer e segue continuamente il processo di tessitura, affidato tutt’ora a un gruppo di donne.

L’artista si è anche interessato al tema del riciclo (inteso anche come rinnovamento culturale) recuperando un antico e pregiato tappeto e tagliandolo fino a dargli una nuova forma.

Ultimamente l’artista di Baku ha legato a filo stretto il suo lavoro alla poesia medioevale azera. Come testimonia la mostra “Faig Ahmed: Pir” alla galleria Sapar Contemporary di New York. in cui ogni pezzo prende il nome da un leader spirituale e poeta del Azerbaigian. Come: Shams Tabrizi, Yahya al-Shirvani al-Bakuvi e Nizami Ganjavi.

"In questa serie- scrive il curatore canadese, Fahmida Suleman- Faig identifica ciascuna delle sue tre opere con un'importante figura medievale legata alla sua terra natale, l'Azerbaigian. Ogni figura è un disgregatore creativo, un innovatore, qualcuno che scuote le cose, eppure è un prodotto della propria geografia culturale."

Faig Ahmed ha tra l’altro tenuto un’importante esposizione al Macro di Roma. In Italia è rappresentato dalla Montoro 12 Gallery. Sul sito internet dell’artista sono presenti, oltre a molte foto dei suoi tappeti, anche approfondimenti sulle tecniche utilizzate per realizzare le opere. (via Colossal)

Faig Ahmed

Faig Ahmed, “Shams Tabrizi” Image courtesy of Sapar Contemporary

Faig Ahmed

Faig Ahmed, “Nizami Ganjavi” (2021), handmade wool carpet Image courtesy of Sapar Contemporary

Faig Ahmed Image courtesy of Sapar Contemporary

Tutte le sculture iperrealiste iconiche. Dalla sexy bambolona di John DeAndrea al terrorista di Sun Yuan e Peng Yu

Sun Yuan e Peng Yu I am here, 2006-2010 Vetroresina, gel di silice / Fiberglass, silice gel, 200 x 130 cm Edizione 3 di 3 / Edition 3 of 3 Collezione privata / Private collection

Ci sono proprio tutte le opere iconiche della scultura iperrealista. Dalla sexy “Kathy Hague” (1971) di John DeAndrea (la donna nuda in vetroresina che compare ne “Le Vacanze Intelligenti” con Alberto Sordi, per intenderci) ai turisti in sovrappeso di Duane Hanson, alle ballerine e nuotatrici di Carole Feuerman. Fino a nuove interpretazioni, come quella di Sun Yuan e Peng Yu (che con “I am here” ci propongono un mediorientale che spia dal buco della serratura armato di tutto punto). Vengono da tutto il mondo. Alcune non erano mai state esposte in Italia. E per tre mesi soltanto, giorno più giorno meno, saranno insieme a Palazzo Reale di Milano.

La mostra “Corpus Domini Dal Corpo Glorioso alle Rovine dell’Anima (curata da Francesca Alfano Miglietti in ricordo dei suoi dialoghi con la scomparsa critica d’arte Lea Vergine e inaugurata lo scorso 27 ottobre), in realtà non è un’esposizione dedicata all’Iperrealismo, e men che meno alla scultura iperrealista, ma, centrata com’è sul tema del corpo e raccogliendo ben 111 opere di 34 famosi artisti, non si può negare che ne presenti una bella fetta.

D’altra parte “Corpus Domini” è un evento piuttosto complesso che prende però l’avvio da un’idea semplice: c’è un corpo vero che ci portiamo in giro ogni giorno e uno finto che vediamo e condividiamo. La scultura iperrealista, tanto mimetica da non capire se ci si trova davanti a una persona o a un’opera d’arte, li rappresenta un po’ tutti e due.

Lo ‘spostamento’ di Corpus Domini segna due direzioni- scrive in catalogo la curatrice, Francesca Alfano Miglietti- la prima è il passaggio di orizzonte teorico dalla Body Art all’Iperrealismo; la seconda è la consapevolezza che il tempo storico, in cui stiamo vivendo, dichiara e fa emergere due tipi di corpi, quello prodotto dallo spettacolo, perfetto, giovane, snello, sano, non fumatore e senza rughe e peli, e quello invisibile delle persone fuori dallo spettacolo, la cui immagine è spesso relegata a valigie, abiti, biciclette, strumenti di lavoro, o a una rappresentazione di masse(…). E nel frattempo, mentre Corpus Domini si stava costruendo, il mondo è stato colpito da una pandemia, e la mostra ha assunto, inevitabilmente, anche un altro significato, si è spontaneamente spostata ancora e ha rimesso al centro un altro tipo di corpo: il corpo umano, fragile e indifeso, attaccato da piccole particelle invisibili infettive.”

Com’è noto, per scultura iperrealista si intende una rappresentazione scultorea talmente dettagliata e mimetica da superare il realismo. Il soggetto, che si tratti di una persona o di un’automobile (o di una barca come quella del Boatman” di Hans Op De Beeck, di cui ho parlato recentemente e che non è in mostra) è più vero che nella realtà si potrebbe dire.

Ma si tratta pur sempre di un’etichetta che mette insieme artisti dalle poetiche molto diverse, che si sono formati in periodi storici differenti. E per questo le tecniche utilizzate cambiano parecchio: la già citata sexy bambolona di DeAndrea, realizzata nel 1971, è pionieristica nell’uso della vetroresina policroma (con il problema della chioma risolto applicando capelli e peli veri), mentre Marc Quinn con il suo uomo incinto, che tanto scalpore fece in Regno Unito nella prima metà del primo decennio degli anni 2000 (Thomas Beatie, 2008, rappresenta una donna operata e diventata uomo che, avendo scelto di mantenere gli organi riproduttivi femminili, ebbe più di un figlio), se l’è cavata citando gli antichi con il marmo bianco e facendosi aiutare dalle nuove tecnologie per la resa mimetica del ritratto.

Anche per osservare dal vivo queste differenze “Corpus Domini” è una buona scelta.

Tuttavia le rappresentazioni del corpo in mostra lungi dal fermarsi all’Iperrealismo sono numerosissime (per esempio l’installazione della giapponese Chiharu Shiota, fatta di scarpe e filo rosso, ne mette al centro l’assenza).

Con opere di: AES+F, Janine Antoni, Yael Bartana, Zharko Basheski, Joseph Beuys, Christian Boltanski, Vlassis Caniaris, Chen Zhen, John DeAndrea, Gino de Dominicis, Carole A. Feuerman, Franko B, Robert Gober, Antony Gormley, Duane Hanson, Alfredo Jaar, Kimsooja, Joseph Kosuth, Charles LeDray, Robert Longo, Urs Lüthi, Ibrahim Mahama, Fabio Mauri, Oscar Muñoz, Gina Pane, Marc Quinn, Carol Rama, Michal Rovner, Andres Serrano, Chiharu Shiota, Marc Sijan, Dayanita Singh, Sun Yuan & Peng Yu, Gavin Turk. Disposte su circa 1000 metri quadri di superficie. “Corpus Domini Dal Corpo Glorioso alle Rovine dell’Anima”, sarà a Palazzo Reale di Milano fino al 30 gennaio 2022.

Corpus Domini Foto Allestimento Basheski EdoardoValle

John DeAndrea Kathy Hague, 1971 Vetroresina / Fiberglass, 165 x 46 x 36 cm Hall Collection Courtesy Hall Art Foundation

Corpus Domini Foto Allestimento AES+F Sijan EdoardoValle

Corpus Domini Foto Allestimento Hanson Edoardo Valle

Marc Quinn Thomas Beatie, 2008 Marmo / Marble, 179 x 63 x 53 cm Courtesy Marc Quinn Studio

Corpus Domini Foto Allestimento Feurman Edoardo Valle

Corpus Domini Foto Allestimento Mauri Luthi Edoardo Valle

Corpus Domini Foto Allestimento Turk Edoardo Valle

Corpus Domini Foto Allestimento Longo Deandrea Bartana Edoardo Valle