Trovata in Olanda una ciotola romana in vetro blu. E' stata sottoterra per 2000 anni ma non ha un graffio

Tutte le immagini courtesy courtesy Marieke Mom. via Colossal

La scoperta è stata fatta nei pressi di Nimega (Nijmegen), una piccola città dei Paesi Bassi ai confini con la Germania, che un tempo fu accampamento militare romano. Si tratta di una semplice ed elegante ciotola in vetro blu con motivi curvilinei in rilievo. Nulla di speciale, se non fosse per lo straordinaio stato di conservazione del manufatto.

Si stima, infatti, che la ciotola sia stata creata circa 2000 anni fa e che sia rimasta sepolta nell’insediamento agricolo di Bataven per centinaia d’anni. Nonostante ciò è stata rinvenuta integra: senza crepe, scheggiature o graffi di sorta.

Adesso gli studiosi si stanno battendo per darle una degna collocazione: “Ho visto oggetti di vetro simili conservati nei musei italiani.” ha detto alla stampa olandese, l’archeologo Pepijn van de Geer, attualmente alla guida degli scavi.

Per fabbricarla gli artigiani dell’epoca avrebbero usato uno stampo e modellato i motivi decorativi a mano mentre il vetro era ancora caldo. Il colore invece, sarebbe stato ottenuto aggiungendo ossido di metallo.

Le origini della manifattura sono ancora oggetto di dibattito. La ciotola, infatti, è stata realizzata secondo il gusto e le tecniche di lavorazione utilizzate all’epoca dai romani, ma potrebbe provenire dalle colonie tedesche di Xanten o Colonia, oppure dalla stessa Italia.

In quest’ultimo caso, la popolazione che all’epoca abitava l’area di Nimega, potrebbe essersela procurata commerciando con i romani, o come pagamento per prestazioni militari.

Già da anni gli studiosi sapevano che sotto il ivello del suolo c’era un antico cimitero ma ultimamente un progetto residenziale ha reso urgente un’analisi approfondita dell’area, riferisce il quotidiano De Stentor.

Così gli archeologi olandesi, oltre alla ciotola blu, hanno rinvenuto resti umani ma anche brocche, coppe e gioielli.

Tra glitch, pixel e colature i tappeti di Faig Ahmed reinventano l'arte tradizionale dell'Azerbaigian

Faig Ahmed, “Yahya al-Shirvani al-Bakuvi”. Image courtesy of Sapar Contemporary

L’artista Faig Ahmed, nato a Baku in Azerbaigian dove tutt’ora vive e lavora, crea degli spledidi tappeti che reinventano l’antica tradizione azera, inserendo elementi come glitch, pixel o banali colature, tra i motivi che usualmente li decorano.

Faig Ahmed è stato il primo artista a rappresentare l’Azerbaigian alla Biennale di Venezia. Usa vari medium espressivi (dalla performance alla pittura fino all’installazione) ma è conosciuto soprattutto per i suoi tappeti.

Questi ultimi, spesso di dimensioni monumentali, fondono un elemento che mixa cultura alta e bassa del suo Paese d’origine, quasi un simbolo, con pezzi del linguaggio informatico. I pixel ma anche i glitch (cioè malfunzionamenti temporanei di un sistema capaci di produrre strane e coloratissime schermate). A volte però l’artista si limita a lasciare cadere il tappeto fino a terra, semplificato nella cromia, e ancorato a forme curvilinee. Come se si trasformasse in puro colore e colasse giù dalla parete.

In Azerbaigian (Paese dalla Storia tribolata che tuttavia è il primo stato laico democratico a maggioranza musulmana) la tessitura era affidata alle donne, che nel passato si sposavano portando via dalla casa paterna solo i tappeti, tessuti per loro dalle nonne o dalle madri. In questo senso, nella cultura azera il tappeto diventa terreno d’incontro tra riferimenti religiosi, letterari e costume ma anche un simbolo ambivalente.

Faig Ahmed disegna le sue opere con il computer e segue continuamente il processo di tessitura, affidato tutt’ora a un gruppo di donne.

L’artista si è anche interessato al tema del riciclo (inteso anche come rinnovamento culturale) recuperando un antico e pregiato tappeto e tagliandolo fino a dargli una nuova forma.

Ultimamente l’artista di Baku ha legato a filo stretto il suo lavoro alla poesia medioevale azera. Come testimonia la mostra “Faig Ahmed: Pir” alla galleria Sapar Contemporary di New York. in cui ogni pezzo prende il nome da un leader spirituale e poeta del Azerbaigian. Come: Shams Tabrizi, Yahya al-Shirvani al-Bakuvi e Nizami Ganjavi.

"In questa serie- scrive il curatore canadese, Fahmida Suleman- Faig identifica ciascuna delle sue tre opere con un'importante figura medievale legata alla sua terra natale, l'Azerbaigian. Ogni figura è un disgregatore creativo, un innovatore, qualcuno che scuote le cose, eppure è un prodotto della propria geografia culturale."

Faig Ahmed ha tra l’altro tenuto un’importante esposizione al Macro di Roma. In Italia è rappresentato dalla Montoro 12 Gallery. Sul sito internet dell’artista sono presenti, oltre a molte foto dei suoi tappeti, anche approfondimenti sulle tecniche utilizzate per realizzare le opere. (via Colossal)

Faig Ahmed

Faig Ahmed, “Shams Tabrizi” Image courtesy of Sapar Contemporary

Faig Ahmed

Faig Ahmed, “Nizami Ganjavi” (2021), handmade wool carpet Image courtesy of Sapar Contemporary

Faig Ahmed Image courtesy of Sapar Contemporary

Spugne e coralli d'argilla scolpiti da Marguerita Hagan, tanto realisti da richiedere mesi di lavoro

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Di Philadelphia Marguerita Hagan, è appasssionata di vita sottomarina. Gli organismi che popolano le profondità oceaniche, anche i più minuti, quelli che non si vedono a occhio nudo, la affascinano e nel tempo sono diventati il centro della sua pratica artistica.

La Hagan li osserva, li studia, e poi da loro trae ispirazione per le sue sculture d’argilla dipinta. Non si può dire che li riproduca, perchè la maggior parte delle volte li rielabora in creazioni che, però, mantengono inalterato lo stupore che l’artista prova di fronte alla quasi miracolosa visione di queste creature.

E’ il caso della recente serie “Marine Abstracts” in cui il nome stesso rende evidente la volontà di Marguerita Hagan di reinventare le architetture marine organiche in forme ripetitive fino ai limiti dell’astrazione. Come nel capitolo dedicato alle spugne di mare (“Cayman Crush” perchè l’artista, in questo caso, ha osservato organismi delle isole britanniche situate nel Mar dei Caraibi), che Hagan sceglie per il loro importante valore all’interno dell’escosistema degli oceani (ma anche come simbolico in termini di cura umana). E che modella con maniacale precisione in migliaia di protuberaze, buchetti e volute.

"Le spugne sono il sistema di filtraggio dell'oceano che elimina oltre il 90% dei suoi batteri-scrive sul suo sito- producendo anche ossigeno. Il primo trattamento per l'HIV è stato modellato sui composti di una specifica spugna marina e il primo farmaco per il cancro di origine marina proveniva dalle spugne di mare. L'elenco continua a rendere la protezione del più grande ecosistema del nostro pianeta, l'oceano, un investimento cruciale."

A stupire tuttavia è la tecnica scelta da Hagan. Un processo talmente lungo e scrupoloso (eseguito totalmente a mano), tanto che alcune sculture possono richiedere mesi di lavoro prima di essere completate. D’altra parte, una volta lavorata la ceramica viene cotta dalle otto alle dieci volte. E poi dipinta con smalti: bianchi, rosa e lilla.

Per vedere altre creature marine, studiate e reinventate da Marguerita Hagan nelle sue impressionanti opere ceramiche d’arte applicata, il sito internet dell’artista e il suo account instagram potranno essere d’aiuto. (via Colossal)

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