Rigore e caso giocano a dadi nella pittura di Gerhard Richter. Alla Fondation Louis Vuitton di Parigi con una monumentale retrospettiva

 Gerhard Richter, Lesende, 1994 (CR 804) : Gerhard Richter Lesende, 1994 (CR 804) [Femme lisant] Huile sur toile / Oil on canvas 72 x 102 cm Collection San Francisco Museum of Modern Art. Purchase through the gifts of Mimi and Peter Haas and Helen and Charles Schwab, and the Accessions Committee Fund: Barbara and Gerson Bakar, Collectors Forum, Evelyn D. Haas, Elaine McKeon, Byron R. Meyer, Modern Art Council, Christine and Michael Murray, Nancy and Steven Oliver, Leanne B. Roberts, Madeleine H. Russell, Danielle and Brooks Walker, Jr., Phyllis C. Wattis, and Pat and Bill Wilson © Gerhard Richter 2025 (18102025)

E’ il 1966, una giovane donna scende le scale, è nuda, tuttavia la scena non trasmette erotismo (lei sembra anzi molto concentrata a non inciampare durante la discesa nel chiaro scuro della sera), ai lati il dipinto è sfocato fin quasi a dissolversi. L’immagine, infatti, moderata eppure vibrante, ha le caratteristiche e il realismo di un’istantanea ma è un ritratto che Gerhard Richter fece all’allora moglie Marianne Eufinger (detta Ema). L’opera, attualmente in mostra alla Fondation Louis Vuitton di Parigi, che è insieme una prima esplorazione del colore da parte di un artista che fino a quel momento si era dedicato al bianco e nero, un omaggio a Marcel Duchamp e una celebrazione della gravidanza appena scoperta di Ema, oltre cinquant’anni dopo sarebbe stata al centro di un film, lo avrebbe fatto stringere amicizia e poi litigare con un regista premio-oscar e avrebbe riportato alla luce uno scherzo del destino, oltre ad una tragedia familiare sepolta.

D’altra parte la biografia del signor Richter è piena di drammi. Così come il caso (che lo ha portato dalle miserie del Nazismo a quelle del Comunismo, dall’essere un rispettabile insegnante d’Accademia a uno degli uomini più ricchi della Germania), sembra avervi avuto un ruolo. Lui, l’intervento di eventi fortuiti, lo ha spesso cercato durante il suo lavoro, ma sul fatto che da anni sia considerato come uno degli artisti più influenti a livello mondiale, il fato nulla ha potuto. Quella è stata una questione di talento, disciplina e dedizione incrollabile.

Gerhard Richter, che adesso ha 93 anni, ne sta dando prova per l’ennesima volta alla Fondation Louis Vuitton di Parigi, dove dallo scorso 17 aprile è in corso una sua monumentale mostra personale. Descritta dal museo come una “retrospettiva eccezionale, senza pari sia per dimensioni che per ampiezza cronologica” conta un totale di 257 opere tra dipinti a olio, sculture in vetro e acciaio, disegni a matita e inchiostro, acquerelli e fotografie sovradipinte datate dal ’62 in avanti. Come già quella dedicata a David Hockney la scorsa primavera, l’esposizione, occupa interamente le undici gallerie dell’edificio progettato dall’archistar canadese-americano, Frank Gehry (le sale in totale sono invece 34) e comprende pezzi cardine della sua carriera ultra sessantennale, arrivati apposta da musei e istituzioni in tutto il mondo (non c’è tutto quel che ha prodotto, ma quasi).

La retrospettiva curata da Sir Nicholas Serota (attuale presidente dell'Arts Council England ed ex direttore della Tate Modern di Londra dove aveva già organizzato una mostra del signor Richter) in collaborazione con lo svizzero Dieter Schwarz (che è invece reputato il maggior esperto della sua opera) è stata definita “uno spettacolo di elettrizzante genialità” dal critico Adrian Searle su The Guardian e prosegue la serie di “mostre monografiche epocali- ha invece scritto la fondazione stessa- dedicate a figure di spicco dell'arte del XX e XXI secolo, tra cui Jean-Michel Basquiat, Joan Mitchell, Mark Rothko e David Hockney”.

Per quanto il signor Richter abbia smesso di dipingere nel 2017 (in merito a questa scelta, sebbene rilasci rare interviste, ha fatto varie dichiarazioni come: “Avevo detto che a 88 anni avrei smesso di dipingere e così ho fatto”; anche se sono state la difficoltà del processo con l’avanzare dell’età a motivarlo), non ha mai abbandonato il lavoro. Da allora prevalentemente disegna ma si dedica pure ad altri media meno impegnativi dal punto di vista fisico della pittura. Il gallerista David Zwirner (attuale rappresentante del signor Richter dopo la chiacchierata rottura con la sua storica mercante newyorkese, Marian Goodman), che ospita nella sua sede parigina una personale dell’artista tedesco proprio in parallelo alla retrospettiva al Bois de Boulogne, ha detto: “C'è un'aura enorme attorno a lui a livello internazionale, ma poi lo incontri in studio e lo vedi semplicemente seduto in una stanza, a creare qualcosa dal nulla. È molto umile. È un uomo straordinariamente serio e umile". Anche le opere più recenti sono in mostra alla Fondation Louis Vuitton.

Gerhard Richter, Venedig (Treppe) [Venezia (staircase)], 1985 (CR 586-3) Gerhard Richter, Venedig (Treppe) [Venezia (staircase)], 1985 (CR 586-3) Oil on canvas, 51,4 x 71,8 cm The Art Institute of Chicago. Gift of Edlis Neeson Collection © Gerhard Richter 2025 (18102025)

Il signor Richter, che non dipinge mai direttamente il soggetto rappresentato ma lo filtra attraverso una fotografia o un disegno (gli schizzi sono sempre suoi, mentre le fotografie a volte sono state scattate da lui altre provengono da fonti varie, come riviste o quotidiani, tanto che anni fa le ordinò e le usò per comporre un atlante visivo), nel tempo ha esplorato tutti i generi pittorici tradizionali: ritratto, occasionalmente autoritratto, paesaggio, natura morta, dipinti storici e rappresentazioni religiose. Ha anche adottato uno stile eterogeneo durante il medesimo corso (che è stato descritto come “una rottura di stile come principio stilistico”): pittura in bianco e nero o a colori, composizioni freddamente iperrealiste o romanticamente evocative, astrattismo informale o concreto. Per poi ritornare sull’uno o sull’altro metodo a scadenza ciclica. Dal punto di vista tecnico a farlo conoscere sono state le sfocature (in pratica, prima copiava un soggetto con la massima ricchezza di sfumature, chiaroscuri e dettagli, dopo, mentre il colore era ancora fresco, vi passava sopra un pennello pulito e piatto spostando letteralmente parti dell’immagine qua e là) che in seguito avrebbe eseguito più visceralmente con raschietti di varie dimensioni. Tanto che si può dire che buona parte di quanto sia possibile fare con la pittura lui l’abbia fatto.

Gerhard Richter, Ema (Akt auf einer Treppe) [Ema (Nude on a Staircase)], 1966 (CR 134) Gerhard Richter, Ema (Akt auf einer Treppe) [Ema (Nude on a Staircase)], 1966 (CR 134) Oil on canvas, 200 x 130 cm Museum Ludwig, Cologne / Donation Ludwig Collection 1976 © Gerhard Richter 2025 (18102025)

Gerhard Richter è nato a Dresda (in quella che in seguito sarebbe diventata la Germania dell’Est) il 9 febbraio del ’32, figlio di un insegnante e di una libraia che suonava il piano per passione. Quando era ancora un bambino il padre (che non aveva mai espresso apprezzamento per il nazionalsocialismo ma in quanto impiegato pubblico aveva dovuto tesserarsi) partì per il fronte e il piccolo Gerhard insieme a quel che rimaneva della famiglia si trasferì in campagna. Per quanto la guerra da dove stava apparisse lontana, il dolore che portava con sé non mancò di travolgerlo: due suoi zii morirono al fronte (negli anni ’90 dichiarò di sentire ancora le urla delle donne dopo averlo saputo; uno di loro il signor Richter lo avrebbe poi dipinto in bianco e nero con la sua divisa militare e un sorriso goffamente dolce stampato in volto) e la sorella di sua madre a cui era stata diagnosticata la schizofrenia venne prima sterilizzata e poi “letteralmente lasciata morire di fame” in un ospedale psichiatrico parte di un programma di omicidio medico nazista (avrebbe poi ritratto pure lei: giovanissima, quasi una bambina, con Gerhard neonato in braccio, nel quadro appare bella e sorridente ma il suo sguardo sfuggente di fronte all’obbiettivo e le sfocature che ne cancellano parte del volto, fa percepire una vaga ed inquietante cupezza incombente all’osservatore). Il padre dopo la guerra, invece, tornò a casa, ma come reduce del terzo reich non potè più fare l’insegnante (in seguito si sarebbe suicidato).

La famiglia era molto più povera di prima e i Comunisti esercitavano attraverso la Stasi un controllo opprimente sulla vita di chiunque. Il signor Richter frequentò l’accademia di Belle Arti di Dresda, si fidanzò e poi sposò con la figlia di uno stimato ginecologo, Marianne Eufinger (Ema, appunto). Per un po' visse a casa dei genitori di lei, e in quel periodo ritrasse il suocero, ma quando cominciarono a costruire il muro lui e la moglie scapparono ad ovest. Il signor Richter portò con sé solo delle foto di una famiglia che non avrebbe mai più rivisto e che alcuni anni dopo gli sarebbero servite per dipingere gran parte delle opere ora esposte a Parigi nella Prima Galleria.  

Gerhard Richter, Onkel Rudi [Uncle Rudi], 1965 (CR 85)  Gerhard Richter, Onkel Rudi [Uncle Rudi], 1965 (CR 85) Huile sur toile, 87 x 50 cm Collection Lidice Memorial, Czech Republic © Gerhard Richter 2025 (18102025)

In Occidente frequentò Accademia d'arte di Düsseldorf e più avanti vi insegnò. Il matrimonio con Ema finì e lui si risposò. Nel frattempo il suo nome era sempre più conosciuto e le quotazioni delle sue opere esplosero. Proprio mentre il mercato gli si inchinava (all’asta il suo lavoro in genere arriva alle decine di milioni) incontrò quella che sarebbe diventata la sua terza moglie.

Nei primi anni duemila un giornalista investigativo del quotidiano berlinese, Tagesspiegel, si interessò della storia personale del Signor Richter e scoprì il tragico destino di sua zia Marianne, ma anche che il suo primo suocero era stato tra i responsabili del programma di sterilizzazione forzata cui venne sottoposta. Lui non ne sapeva niente.

Nel 2019 tutta questa vicenda, che fino ad allora era stata dibattuta nella sola Germania, attirò l’attenzione del mondo intero, quando un regista hollywoodiano di origine tedesca (rimasto particolarmente colpito dal ritratto di Ema) presentò un film ad essa ispirato. Il signor Richter che si è sempre sforzato di proteggere la propria vita privata si arrabbiò moltissimo.

 Série Birkenau de Gerhard Richter lors de l'exposition "Gerhard Richter. Neupräsentation im Albertinum" en 2015 Vue d'installation de la série Birkenau de Gerhard Richter lors de l'exposition "Gerhard Richter. Neupräsentation im Albertinum", de février à septembre 2015 à la Staatliche Kunstsammlungen Dresden Gerhard Richter Birkenau, 2014 Huile sur toile / Oil on canvas 260 x 200 cm chacun / each Neue Nationalgalerie, Stiftung Preußischer Kulturbesitz, Berlin, prêt de la / loan from Gerhard Richter Art Foundation Photographe : David Brandt © Gerhard Richter 2025 (18102025)

Nonostante lui abbia spesso tratto ispirazione da fatti d’attualità destinati a passare alla Storia (ha, ad esempio, effigiato i volti delle otto infermiere uccise dal serial killer Richard Speck e l’attacco alle torri gemelle) quando non dalla Storia stessa, una serie di quattro opere in particolare appartenenti a questo filone è considerata un capolavoro indiscusso. Intitolato “Birkenau”, il ciclo del 2014, riproduce alcune fotografie che un prigioniero era riuscito a scattare all’interno del campo di sterminio di Auschwitz. E lo fa in stile iperrealista con pittura ad olio in bianco e nero minuziosamente applicata. Tuttavia, noi non possiamo vedere l’abilità dell’artista, perché il signor Richter dopo è intervenuto sui dipinti finiti: li ha coperti con numerosi strati di pigmento, che a tratti ha spostato con i raschietti e dipinto ancora, trasformandoli in composizioni astratte. Così gli orrori storici impressi sulla tela come gli eventi che catturano sono vivi sotto la superficie ma celati agli occhi del presente.

Esposti prima in Germania, poi in Inghilterra e in occasione della retrospettiva dell'artista al Metropolitan Museum of Art di New York nel 2020, i dipinti di Birkenau sono attualmente nella Galleria 10 insieme ad altri capolavori astratti dello stesso periodo.

La retrospettiva dedicata all’opera di Gerhard Richter alla Fondation Louis Vuitton tuttavia non si limita a questo: ci sono paesaggi che riattualizzano e smorzano le emozioni forti dei romantici tedeschi; una serie di ritratti in bianco e nero di personaggi illustri (“48 Ritratti”) con cui ha rappresentato la Germania alla Biennale di Venezia del 1972 (il Leone d’oro alla carriera gli è stato invece assegnato nel 2003); una galleria è dedicata interamente ai lavori su carta; un’altra ricostruisce la storia della realizzazione della vetrata composta da “11.500 quadrati di vetro antico soffiato a bocca in 72 colori diversi” accostati casualmente, che ha creato per il Duomo di Colonia (città in cui vive).  L’esposizione resterà a Parigi fino al 2 marzo 2026.

Gerhard Richter, Gudrun, 1987 (CR 633) Gerhard Richter, Gudrun, 1987 (CR 633) Oil on canvas, 250 x 250 cm Fondation Louis Vuitton, Paris © Gerhard Richter 2025 (18102025)

Gerhard Richter, Kerze [Candle], 1982 (CR 511-1) Gerhard Richter, Kerze [Candle], 1982 (CR 511-1) Oil on canvas, 95 x 90 cm Collection Institut d'art contemporain, Villeurbanne/Rhône-Alpesm © Gerhard Richter 2025 (18102025)

Gerhard Richter, Gegenüberstellung 2, 1988 (CR 671-2) : Gerhard Richter Gegenüberstellung 2, 1988 (CR 671-2) [Confrontation 2] Huile sur toile / Oil on canvas 112 x 102 cm The Museum of Modern Art, New York. The Sidney and Harriet Janis Collection, gift of Philip Johnson, and acquired through the Lillie P. Bliss Bequest (all by exchange); Enid A. Haupt Fund; Nina and Gordon Bunshaft Bequest Fund; and gift of Emily Rauh Pulitzer, 1995 © Gerhard Richter 2025 (18102025)

Gerhard Richter, Verkündigung nach Tizian, 1973 (CR 343-1) Gerhard Richter Verkündigung nach Tizian, 1973 (CR 343-1) [Annonciation d’après le Titien] Huile sur toile / Oil on canvas 125 x 200 cm Hirshhorn Museum and Sculpture Garden, Smithsonian Institution, Washington DC, Joseph H. Hirshhorn Purchase Fund, 1994 © Gerhard Richter 2025 (18102025)

Gerhard Richter, Birkenau, 2014 (CR 937-4) Gerhard Richter Birkenau, 2014 (CR 937-4) Huile sur toile / Oil on canvas 260 x 200 cm Neue Nationalgalerie, Stiftung Preußischer Kulturbesitz, Berlin, prêt de la / loan from Gerhard Richter Art Foundation © Gerhard Richter 2025 (18102025)

Gerhard Richter, Apfelbäume [Appletree], 1987 (CR 650-1) Gerhard Richter, Apfelbäume [Appletree], 1987 (CR 650-1) Oil on canvas, 67 x 92 cm Private collection © Gerhard Richter 2025 (18102025)

Gerhard Richter, Strip, 2011 (CR 921-2) Gerhard Richter Strip, 2011 (CR 921-2) Impression numérique sur papier entre aluminium et Perspex (Diasec) / Digital print on paper between aluminium and Perspex (Diasec) 200 x 440 cm Fondation Louis Vuitton, Paris Photographe : Louis Bourjac © Gerhard Richter 2025 (18102025)

 Gerhard Richter, Selbstportrait, 1996 (CR 836-1) Gerhard Richter Selbstportrait, 1996 (CR 836-1) [Autoportrait] Huile sur lin / Oil on linen 51 x 46 cm The Museum of Modern Art, New York. Gift of Jo Carole and Ronald S. Lauder and Committee on Painting and Sculpture Funds, 1996 © Gerhard Richter 2025 (18102025)

“When we see us”: la blackness in un affresco senza tempo e senza luogo firmato da Koyo Kouoh (che curerà la prossima Biennale di Venezia)

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

In un parco apparentemente distante dal traffico cittadino un ragazzo e una ragazza si concentrano l’uno sull’altra, il loro atteggiamento è rilassato, intenerito, forse stanno chiacchierando e malgrado si possa immaginare il tono scuro della loro pelle, le innumerevoli sfumature di blu che compongono l’immagine rendono la caratteristica una vaga congettura. Non molto lontano, invece, un uomo mette in risalto la sua carnagione nerissima con un completo turchese, una camicia bianca e un fiore arancio, è vanitoso (si intuisce fiero di essere guardato), mentre appare al centro di un dipinto dai toni vivi, quasi caraibici.

Sono protagonisti diversi di opere diverse. Tutti però accumunati dall’essere neri, colti in un momento ordinario (diventato straordinario attraverso l’arte). E felici di essere vivi.

Il romantico pic-nic monocromatico (“Blue Park Lovers”) dell’artista originario del Missuri (che adesso vive in Connecticut) Dominic Chambers; e il ritratto variopinto (“View of Yoei William”) del ghanese-statunitense, Otis Kwame Kye Quaicoe; sono solo due delle innumerevoli interpretazioni della blackness espresse in “When We See Us: A Century of Black Figuration in Painting”. La mostra, che si è inaugurata il 7 febbraio scorso al Centro per le Arti Bozar di Bruxelles (Belgio), curata da Koyo Kouoh e Tandazani Dhlakama, è infatti, un affresco senza tempo ne luogo sull’autorappresentazione nera.

Malgrado “When We See Us”, ideata e promossa dallo Zeitz MOCAA di Città del Capo (il museo sudafricano diretto dal critico camerunense, Koyo Kouoh), sia stata già allestita lo scorso anno al Museo d’Arte di Basilea (Svizzera), è balzata al centro dell’interesse del pubblico internazionale da quando la signora Kouoh è stata nominata curatrice della Biennale di Venezia del prossimo anno (quello belga è il primo evento europeo a sua firma da allora).

Dominic Chambers, Blue Park Lovers, 2020. Jorge M. Pérez Collection, Miami © Courtesy of the artist and Luce Gallery

La mostra, che ispira il proprio titolo alla famosa serie Netflix del 2019 “When They See Us” della regista Ava DuVernay, espone opere di artisti africani, afroamericani e della diaspora, per di più nati in periodi storici molto differenti (il lavoro più antico è datato 1930 mentre il più recente è di appena due anni fa). D’altra parte “When We See Us”, chiarisce di non avere pretese ortodosse, nel momento in cui rinuncia a disporre in successione cronologica le opere, e a raggrupparle in base al paese di origine o di residenza degli artisti, ma sceglie invece di dividere il materiale in sei capitoli diversi (Quotidianità; Riposo; Trionfo ed Emancipazione; Sensualità; Spiritualità; Gioia e Svago) accumunati da un approccio nuovo all’argomento.

When We See Us”, infatti, rispetto alla serie di DuVernay (afroamericana anche lei; racconta la storia vera di un gruppo di bambini di colore ingiustamente condannati per un grave reato che non avevano commesso) decide di dar conto della gioia di essere neri.

Koyo Kouoh e la co-curatrice della mostra Tandazani Dhlakama, hanno così spiegato la loro scelta: "Questa mostra si rifiuta di mettere in primo piano il dolore e l'ingiustizia e invece ci ricorda che l'esperienza dei neri può anche essere vista attraverso la lente della gioia. Per celebrare il modo in cui gli artisti africani e della sua diaspora hanno immaginato, posizionato, commemorato e affermato le esperienze africane e degli afrodiscendenti, la mostra contribuisce al discorso critico sui movimenti di liberazione, intellettuali e filosofici africani e neri".

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

La signora Kouoh sembra poi dirci che il mondo è piccolo e quello dell’arte lo è ancora di più: gli artisti di colore (come gli altri, del resto) si informano e si guardano vicendevolmente, alla ricerca di un’identità nera condivisa, ma soprattutto nel tentativo di trovare le travi portanti di una storia dell’arte a loro misura.

I numeri di “When They See Us”(in effetti piuttosto impressionanti) si spiegano proprio in quest’ottica. Con 52 prestatori provenienti da 17 paesi e 5 continenti, l’esposizione, presenta la bellezza di 155 opere di 118 artisti diversi. Alcuni conosciuti (ci sono ad esempio: la famosa pittrice britannica Lynette Yiadom-Boakye; oltre agli afroamericani Kehinde Wiley ed Amy Sherald che vennero scelti per fare i ritratti ufficiali dell’ex presidente Obama e dell’allora first lady) altri meno. Tanto diversi che l’autodidatta afroamericana Clementine Hunter (nata in Luisiana nel 1887 e scomparsa a 99 anni dopo aver lavorato in una piantagione e conosciuto il successo artistico in tarda età) è esposta insieme alla sudafricana ventiseienne, Zandile Tshabalala.

Sempre da questo punto di vista va guardata la cronologia grafica in mostra (che dalla Rivoluzione haitiana arriva al movimento Black Lives Matter). E il paesaggio sonoro del compositore e sound artist sudafricano Neo Muyanga, che riecheggia di musiche provenienti da tutto il mondo in risposta ai vari capitoli della mostra.

Stilisticamente, invece, si può dire che la signora Kouoh abbia preferito dar voce a una moltitudine di dialetti della stessa lingua madre, visto che pur esponendo artisti figurativi (il più delle volte pittori) ci fa notare quanto le loro forme espressive si discostino le une dalle altre con tessuti e glitter che fanno la loro comparsa accanto a pennellate e tavolozze ben distinte.

Pur se tutte le opere sono accostate o giustapposte per mettere in luce nuove similitudini (che senza il loro incontro non sarebbe stato possibile cogliere)

Nell'ultimo decennio- ha detto la curatrice- la pittura figurativa di artisti neri ha raggiunto una nuova importanza nell'arte contemporanea. Non c'è momento migliore per una mostra di questa natura, che collega queste pratiche e rivela i contesti storici più profondi e le reti di genealogie artistiche complesse e sottorappresentate che derivano dalle modernità africane e nere; una mostra che dimostra come più generazioni di tali artisti si siano deliziate e si siano impegnate in modo critico nel proiettare varie nozioni di nerezza e africanità”.

Le opere poi, lungi dall’essere appese su muri bianchi senza nulla che distragga lo sguardo, sono evidenziate da pareti intensamente laccate, con colori in qualche modo contrastanti per rendere ancora più drammatico il passaggio da un punto di vista all’altro. Anche in questo Koyo Kouoh dimostra momenti di contatto con lo stile curatoriale del brasialiano Adriano Pedrosa (dirige il Museu de arte de São Paulo e ha firmato la scorsa edizione della Biennale di Venezia).

When We See Us”, esteticamente, è una mostra dalla forte personalità e, malgrado sia fuori dagli schemi, non rinuncia né a lavorare su una Storia dell’arte in versione black, né a riflettere sugli strumenti di lavoro necessari ad una nuova critica. Come testimoniano le tante pubblicazioni messe a disposizione dei visitatori (monografie, cataloghi di mostre, testi di teoria critica e raccolte, compresi scritti importanti che hanno plasmato il canone storico dell'arte nera). La scelta di evitare il solito copione (incluso il razzismo) poi, è segno di una acuta sensibilità (molto femminile) che sottolinea la forza, la libertà e l’autosufficienza delle persone di colore.

When We See Us” è il risultato dell’ampia ricerca di Koyo Kouoh sull’arte nera e rimarrà nelle spaziose sale dell’edificio liberty in cui ha sede il Bozar (nel cuore del quartiere reale di Bruxelles) fino al 10 agosto 2025. All’esposizione il museo ha affiancato eventi di ogni genere (concerti, conferenze, dibattiti, aperture notturne, visite guidate, film, spettacoli, e persino videogiochi).

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

Otis Kwame Kye Quaicoe, View of Yoei William, 2020.© Courtesy the artist and Roberts Projects, Los Angeles, California; Foto Mario Gallucci

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

Wangari Mathenge (b.1973, Nairobi, Kenya) Sundials and Sonnets 2019 Oil on canvas CollecƟon of Pascale M. Thomas and Tayo E. Famakinwa, courtesy of Roberts Projects, Los Angeles, California © Courtesy of the arƟst and Roberts Projects, Los Angeles, California; Photo Robert Wedemeyer

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

Thenjiwe Niki Nkosi (b.1980, New York City, USA) Ceremony 2020 Oil on canvas Courtesy of Homestead CollecƟon © Thenjiwe Niki Nkosi. Courtesy of Stevenson, Amsterdam/Cape Town/Johannesburg. Photo Nina Lieska

Bozar When We SeeUs Credit: Julie Pollet

Zandile Tshabalala (b.1999, Soweto, South Africa)Two Reclining Women 2020 Acrylic on canvas Courtesy of the Maduna CollecƟon © Zandile Tshabalala Studio

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

BOZAR, When We See Us Photo credit: We Document Art

BOZAR, When We See Us Photo credit: We Document Art

Koyo KOUOH, portrait. Courtesy of Zeitz MOCAA

Yan Pei-Ming: “Dipingo direttamente sulla tela. Cerco di domare la pittura”

Yan Pei-Ming Pittore di Storie, Palazzo Strozzi. Veduta dell'installazione © Photo: Ela Bialkowska OKNO studio

Di origini cinesi ma naturalizzato francese, Yan Pei-Ming, ha saputo fare tesoro della tradizione pittorica occidentale guardando tanto ai grandi maestri del passato quanto a quelli più recenti. Raccogliendo, tuttavia, nelle sue opere anche riferimenti ai lavori su carta dei classici orientali, ai dipinti astratti e alla Pop Art. Ma l’elenco potrebbe essere molto più lungo perché Pei-Ming è un professionista tanto scrupoloso quanto curioso, e la sua opera, capace di fondere passato e presente attraverso l’instancabile dedizione al mestiere, tende all’universalità. Dove i formati grandi, anzi mastodontici, delle sue tele, talvolta concepiti come polittici, si sposano alla tavolozza “controllata” (ha per lungo tempo lavorato quasi esclusivamente in bianco e nero o nelle sfumature del rosso, per approdare, in tempi più recenti, a una forma di policromia). E a un numero di pennellate limitato (per raggiungere questo risultato usa pennelli enormi, persino scope).

Spesso riunisce i suoi dipinti in monumentali gruppi, appositamente concepiti, per abbattere il confine che separa le icone collettive dalla dimensione intima (dell’artista e dello spettatore). Utilizzando come soggetti, oltre ai capolavori del passato, anche immagini tratte da riviste, quotidiani e foto di famiglia. In una rilettura, a tratti onirica e dolente, il più delle volte tragica, di quando in quando venata d’ironia, delle immagini e degli eventi che definiscono la contemporaneità e la memoria comune.

La pittura di Yan Pei-Ming è feroce.

Conosciuto per ritratti ed autoritratti ha, di volta in volta, rivisitato anche il genere del paesaggio, della pittura storica, di quella religiosa, della vanitas e la natura morta in genere. Da inizio mese Palazzo Strozzi (Firenze) gli dedica un’ampia personale. La più grande mai tenutasi in Italia con oltre 30 opere, che coprono un piuttosto vasto arco temporale nella sua produzione (dal primo decennio del 2000 fino all’anno in corso). L’esposizione si intitola Yan Pei-Ming Pittore di Storie e, in occasione della quale, l’artista donerà un suo autoritratto (Yan Pei-Ming, Autoportrait, 2022) alle Gallerie degli Uffizi. E’ curata dal direttore di Palazzo Strozzi e Presidente della Fondazione Palazzo Strozzi, Arturo Galansino. Quest’utimo gli ha fatto una lunga intervista che insieme ad approfondimenti e splendide riproduzioni è stata pubblicata sul catalogo della mostra (edito da Marsilio). Eccone alcuni ampi stralci per voi:

Yan Pei-Ming di fronte a un'opera a Palazzo Strozzi Foto: Gianmarco Rescigno

Negli anni Ottanta, quando hai cominciato a lavorare, il figurativo non era molto di moda. Perché hai deciso di continuare a utilizzare questo linguaggio, in un mondo dell’arte che spesso ha intrapreso strade diverse?

Mi è sempre piaciuta la pittura figurativa. Mi permette di esprimermi al meglio. Effettivamente all’epoca non era in voga, ma mi sono rifiutato di seguire la moda. Molto spesso, quando si decide di seguirla, è già passata di moda. Da sempre mi sono impegnato nella pittura figurativa. È con questo linguaggio che mi sento più a mio agio e dunque utilizzo questa forma di espressione.

In che modo le vicende biografiche hanno influenzato il tuo lavoro?

Sono sempre stato interessato ai ritratti di famiglia. Quando ero giovane in Cina, se ero a corto di modelli, potevo sempre chiedere ai membri della mia famiglia di posare per me. È un soggetto piuttosto intimo che mi permette di raccontare un universo familiare attraverso la grandezza della pittura. Dal soggetto della famiglia si può facilmente passare ad altri. Il ritratto è il centro del mio universo.

In che modo i ritratti di Mao hanno avuto un peso nella tua fortuna iniziale?

Sono cresciuto durante la Rivoluzione culturale con il ritratto di Mao Zedong. A quel tempo un’immagine non era mai stata così diffusa. Il soggetto stesso di Mao Zedong è importante: chi conosceva l’artista Yan Pei-Ming da giovane? Nessuno, mentre tutti conoscevano Mao Zedong. I dipinti di Mao Zedong introducono a una lettura contemporanea della Cina. Per me è anche un modo per realizzare ritratti al di fuori della tradizione propagandistica, e molto più personali.

Mao rouge 2006 olio su tela, cm 350 × 350 Collezione privata Photography: André Morin © Yan Pei-Ming, ADAGP, Paris, 2023.

(…)

Dal 1983, dopo il viaggio di istruzione ad Amsterdam, dove hai scoperto gli autoritratti di Rembrandt e Van Gogh, hai smesso di dipingerne e hai ricominciato solo nel 1994. Eri troppo giovane e sei stato sopraffatto dalle loro opere, oppure come spieghi la tua reazione?

Fin da quando ero molto giovane, ho sempre disegnato autoritratti. Quando ho scoperto gli autoritratti di Rembrandt e Van Gogh ero in un periodo in cui dipingevo soprattutto ritratti di persone anonime o scene espressioniste. Non credo di essere stato sopraffatto dalle loro opere, è solo che in quel periodo avevo altri interessi. Volevo anche evitare di realizzare opere troppo figurative.

E i tuoi autoritratti?

L’autoritratto è un soggetto ineludibile e affascinante per tutti i pittori. Dipingere un ritratto di sé stessi significa mettere in gioco l’autostima dell’artista. C’è un lato eterno nell’autoritratto di Rembrandt, Picasso, Van Gogh... Credo che tutti i pittori, me compreso, siano affascinati dagli autoritratti di altri artisti. Direi che rivelano il modo in cui si esprimono.

Arturo Galasino di fronte a un'opera di Yan Pei-Ming a Palazzo Strozzi Foto: Gianmarco Rescigno

A cosa ti sei ispirato per l’autoritratto che donerai agli Uffizi e che entrerà a far parte della collezione iniziata nel 1664 dal cardinale Leopoldo de’ Medici? Si tratta della più vasta e importante collezione di autoritratti al mondo, che continua ad accrescersi grazie alle donazioni dei maggiori artisti contemporanei.

È un autoritratto in bianco e nero, frontale. Molti pittori classici si ritraggono di tre quarti, ma io ho scelto di guardare il mondo. Conosco bene le Gallerie degli Uffizi, perché ci sono stato diverse volte. È uno dei musei più belli del mondo. Consegnare un quadro a un museo del genere è un grande onore per un artista vivente. Entro così in una continuità che mi porrà per i secoli a venire nella schiera dei pittori più illustri.

La mostra a Palazzo Strozzi si apre con un tuo autoritratto («Nom d’un chien! Un jour parfait»), ma per la prima volta è affiancato da un oggetto del tuo studio fatto dei resti dei tuoi dipinti, una sorta di autoritratto tridimensionale legato alla matericità del tuo lavoro. Come si è venuto creando nei decenni?

Ho iniziato ad accumulare la vernice nel 1996, con l’idea di lasciare una traccia. Prima di allora gettavo gli avanzi di pittura nella spazzatura. Poi un giorno ho iniziato a riunire gli avanzi su un vecchio carrello di metallo. Dopo qualche anno, la pila stava già diventando piuttosto alta, così ho deciso di ingrandire il carrello. L’ho tagliato al centro e l’ho reso più largo, mantenendo però le vecchie ruote. Poi ho messo al centro un’asta di metallo con molte croci, per sostenere la materia. Questo accadeva più di 25 anni fa. Quello che mi interessa è il tema del tempo: se ci sono così tanti residui di pittura, significa che c’è altrettanta pittura applicata alle tele. Direi che il 3% dei resti di pittura si trova su questa struttura, il 2% sul pavimento e il 95% sulla tela. Questo carrello con i resti di vernice è in un certo senso il mio autoritratto come pittore. È la rappresentazione del tempo che passa. Volevo esporlo già due o tre anni fa, ma non ne ho avuto la possibilità. Palazzo Strozzi è il luogo ideale per esporlo.

Poiché dai tanta importanza ai titoli che scegli, quale il significato di «Nom d’un chien! Un jour parfait»?

L’espressione «Porca miseria!» esprime sorpresa. Un giorno Xavier Douroux, uno dei fondatori di Le Consortium, venne a trovarmi nello studio. Quando ha visto questo lavoro, ha esclamato: «Nom d’un chien!». Immediatamente mi sono detto che avevo il mio titolo. Era molto sorpreso dal dipinto e io ero sorpreso che avesse gridato in quel modo. Poi ho aggiunto «Un giorno perfetto». Quindi il titolo è stato molto spontaneo. Ma quando mi vengono in mente i titoli, possono essere molto variabili: alcuni sono spontanei, altri sono il risultato di una riflessione accurata, altri ancora sono il risultato di una discussione...

Nom d'un chien ! Un jour parfait, 2012 trittico, olio su tela, n. 2 cm 400 x 280 ciascuno Collezione privata Photography: André Morin © Yan Pei-Ming, ADAGP, Paris, 2023.

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Yan Pei-Ming tra Oriente e Occidente: dragoni, tigri, Bruce Lee e Buddha parlano del tuo mondo ancestrale, ma vivi soprattutto in Occidente e ne hai interiorizzato l’immaginario figurativo e culturale. Ti senti diviso o hai fatto convivere le due realtà?

Sono nato e cresciuto a Shanghai. A venti anni sono arrivato in Francia, dove ho frequentato la scuola d’arte. Questo mi ha permesso di comprendere l’arte occidentale. Quando si vive a Shanghai per venti anni, non si può mai essere completamente sradicati dalla propria cultura cinese. È come se fossi stato «trapiantato» altrove, in Occidente, il che mi rende una commistione tra le due culture, francese e cinese. Ciò che mi interessa di più è l’espressione personale e artistica. Presumo di essere un artista cinese ed europeo, ma sono prima di tutto un artista.

Per la mostra di Palazzo Strozzi hai dipinto un dragone di grande potenza, una figura che nell’immaginario occidentale si associa immediatamente alla mitologia cinese. Qual è il suo significato per te?

Nell’anno del Drago in Cina ci sono sempre più nascite. Tutti i genitori cinesi sperano che i loro figli siano draghi. Simbolicamente, il drago è legato alla figura dell’imperatore e rappresenta saggezza, potere e fortuna. Per Palazzo Strozzi ho dipinto un drago della stessa altezza di un quadro di Bruce Lee: entrambi saranno nella stessa sala. Il nome di battesimo di Bruce Lee in cinese è Li Xiao Long, che significa «il piccolo drago».

Nel 1978 a Shanghai hai visitato la mostra «Paesaggio francese e contadini: la vita rurale in Francia nel XIX secolo, 1820-1905», eri giovanissimo, appena diciottenne. In che modo l’esposizione ha influenzato il tuo lavoro? Eri più interessato ai soggetti o al tipo di pittura?

Quella mostra si è tenuta a Shanghai presso il Palazzo dell’Amicizia sino-sovietico. Ho passato la notte in coda per acquistare il biglietto d’ingresso. Si trattava di una delle prime mostre di dipinti originali francesi in Cina. Tutti gli artisti, studenti e insegnanti delle Accademia d’Arte erano venuti per l’occasione. A quel tempo, la Cina subiva unicamente l’influenza della pittura accademica dell’Unione Sovietica, e per quanto riguarda la pittura francese, avevamo visto solo brutte riproduzioni di dipinti in bianco e nero. La mostra ebbe un grandissimo successo e ha influenzato un gran numero di artisti cinesi, al tempo dell’apertura della Cina da parte di Deng Xiaoping. I soggetti erano molto classici, ma sono state soprattutto le pennellate a commuovermi. Era la prima volta che vedevo dei «tocchi pittorici» nella realtà. Rimasi a lungo ad ammirare i dipinti. A posteriori, credo che questa mostra abbia avuto un’influenza sul mio lavoro, soprattutto perché ha accresciuto il mio interesse e il mio desiderio di andare in Francia.

Marat (13 July 1793, Paris) 2014 trittico, olio su tela cm 180 × 180 ciascuno Collezione privata Photography: André Morin © Yan Pei-Ming, ADAGP, Paris, 2023.

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Qual è il tuo rapporto con l’Italia? Hai soggiornato a Roma come borsista all’Accademia di Francia a Villa Medici nel 1993-94, poi hai esposto proprio a Villa Medici nel 2016 in una mostra curata da un altro ex borsista di Villa Medici, Henri Loyrette. Sarà stato un momento di grande emozione questo ritorno in grande in un luogo che ti ha visto giovane studente.

Direi che ero un giovane borsista, più che un giovane studente. Quando ero ancora in Cina conoscevo l’Italia solo attraverso il ritratto di Monna Lisa e i dipinti di Michelangelo. Nel 1982, dopo il primo anno di scuola d’arte, ho fatto il mio primo viaggio con un amico: siamo andati a Milano, Pisa, Venezia, Firenze, Roma. Abbiamo visitato musei e dormito in campeggio. A Venezia abbiamo trascorso la notte alla stazione ferroviaria. L’Italia è stata una scoperta fondamentale.

Dieci anni dopo, nel 1993-94, sono tornato in Italia come borsista a Villa Medici, con mia moglie Beatrice e mia figlia di un anno. Questo mi ha permesso di realizzare un’opera monumentale: «Les 108 brigands» (I 108 briganti), costituita da 120 ritratti, tutti realizzati ritraendo dei modelli. È stato un anno di lavoro sul genere del ritratto in cui ho conosciuto meglio Roma, i suoi musei, le sue chiese, i suoi luoghi di cultura e alcuni buoni ristoranti. All’epoca facevo solo ritratti, soprattutto di persone all’interno di Villa Medici. Ritratti di italiani. Quando sono tornato alla Villa nel 2016 per celebrare il 350mo anniversario di Villa Medici, mi sono aperto all’Italia dipingendo quadri legati alla storia del Paese e di Roma: papi, rivisitazioni dei quadri di Caravaggio a San Luigi dei Francesi, il ritrovamento del corpo di Aldo Moro, quadri in omaggio a film come «Mamma Roma» di Pasolini o «Roma città aperta» di Rossellini... È stato un grande piacere per me lavorare con Henri Loyrette. È una figura di spicco nel mondo dell’arte e conosce Roma come le sue tasche. È stato bello fare questo trionfale ritorno in Italia, in questa straordinaria e mitica istituzione nel cuore di Roma.

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Quali altre parti d’Italia hai amato o ti hanno ispirato?

Mi piacciono molto la Toscana e la Lombardia. Visitare i musei mi ha ispirato molto. In effetti, tutte le regioni hanno contribuito all’arte italiana.

Qual è il tuo approccio ai grandi maestri del passato?

Mi sono nutrito di grandi maestri italiani fin da quando ero molto giovane: Caravaggio, Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Tiziano... Per loro uso la pittura monocroma. Non li affronto sul piano del colore, ma su quello dell’ombra e della luce, del formato, del gesto pittorico. Se mi occupo di soggetti eterni, li affronto in modo contemporaneo, come quando rappresento una crocifissione desunta dal film «Il Vangelo secondo Matteo» di Pasolini.

Crucifixion (Il Vangelo secondoMatteo) 2023 olio su tela, cm 400 × 300 Courtesy MASSIMODECARLO e Thaddaeus Ropac gallery Photography: Clérin-Morin © Yan Pei-Ming, ADAGP, Paris, 2023

Con quale criterio scegli le opere che evochi? Empatico? Estetico? Formale?

Mi piacciono i soggetti tragici perché li trovo eterni. L’empatia è un modo per esprimermi nella pittura. I soggetti che scelgo suscitano in me un’emozione immensa, come «Tres de mayo» di Goya. Mi chiedo: come può un uomo fucilare un altro uomo?

E con altri artisti come Bacon? In mostra abbiamo il «Ritratto di papa Innocenzo X» di Velázquez. Ha avuto un peso per te l’ossessione che il dipinto ha rappresentato per Bacon?

Bacon dipinge d’après Velázquez e anch’io dipingo d’après Velázquez. Bacon trasmette un’emozione del dopoguerra: mostra l’angoscia dell’uomo, la tragedia, la deformazione. È una pittura forte sull’immagine, sulla pittoricità, sul colore, sulla deformazione. È uno dei miei pittori preferiti, è inevitabile. Per me è più difficile dipingere d’après Bacon, preferisco dipingere après Velazquez. Sono rimasto affascinato quando ho scoperto i ritratti di papa Innocenzo X: il colore è fantastico. Mi ha ispirato molto e volevo lavorare, come Bacon, d’après Velázquez.

Pape Innocent X bleu 2022 olio su tela, cm 250 × 200 Collezione privata Photography: Clérin-Morin © Yan Pei-Ming, ADAGP, Paris, 2023

Il potere è al centro del tuo progetto «Game of Power» che comprenderà circa 300 ritratti di personaggi famosi, ma che è stato preannunciato dalla scelta di soggetti affrontati da artisti del passato, come «L’Empereur Napoléon 1er se couronnant lui même» di David o il «Ritratto di Innocenzo X» di Velázquez. Da dove nasce il tuo interesse per il tema?

Fin da quando ero molto giovane, ho sempre realizzato ritratti legati al potere. All’epoca, in Cina, ho iniziato con la pittura di propaganda. «Game of Power» è una serie in evoluzione che svilupperò nel corso degli anni. Potrebbero esserci 300, 400, 500 dipinti... Ne aggiungerò altri ogni anno. Per il resto, scelgo soggetti affrontati da grandi pittori che influenzano, e hanno influenzato, generazioni di pittori (come Velázquez). Ciò che mi interessa, al di là del potere, è piuttosto la storia degli uomini di potere. La storia contemporanea diventa la storia di domani. Per esempio, quando dipingo l’arciduca Francesco Ferdinando, questo quadro evoca l’evento che ha causato la Prima guerra mondiale. La storia è fatta di conflitti ricorrenti.

In molte tue opere parli di funerali. Sono immagini che danno anche una visione fisica della morte, un tema che affronti sia da un’ottica privata (i tuoi genitori, che riesci però a elevare a Storia), sia pubblica, rendendo esplicito il tuo «gusto del tragico». Hai affermato: «La tragedia mi si addice perfettamente». Come convivi con questo mondo interiore?

Il giorno in cui ho capito che la morte era inevitabile, mi sono ribellato violentemente. L’ho capito molto presto, quando avevo circa cinque o sei anni. Le ansie cominciarono a farsi vive di notte, quando ero solo. Per prepararmi ad affrontare un giorno la mia morte, ho iniziato a interessarmi alla morte degli altri e delle persone a me care. Quest’ansia è permanente, a volte mi sfugge e poi ritorna. Ho tanta voglia di vivere. Questo crea un contrasto tra il desiderio di vivere, di essere eterno, pur sapendo che un giorno ci sarà la morte. Credere che la pittura renda eterni mi dà la forza di continuare a dipingere: mi dico che la pittura è eterna e la vita temporanea.

Aldo Moro (9 May 1978, Rome) 2017 olio su tela, cm 250 × 300 Collezione privata Photography: André Morin © Yan Pei-Ming, ADAGP, Paris, 2023.

In mostra è esposta una sequenza di opere legate alla storia italiana più drammatica dell’ultimo secolo, riunite quasi in una trilogia: il corpo di Mussolini appeso a testa in giù assieme a quello della sua amante (28 aprile 1945); il ritrovamento del corpo di Pasolini (2 novembre 1975); il ritrovamento del corpo di Aldo Moro (9 maggio 1978). In tutti e tre i casi non è il momento della morte, ma quello in cui l’immagine della morte è stata mostrata al mondo. Spesso rappresenti funerali, ma in questi casi si tratta invece della dimensione «spettacolarizzata» di un evento storico: nessuno si ricorda le esequie pubbliche, mentre queste immagini sono entrate nell’immaginario collettivo.

Le immagini desunte dagli organi di stampa costituiscono una documentazione importante, a volte sono quelle di grandi reporter. Grazie alla pittura a olio l’immagine diventa un quadro. Questo le conferisce una qualità sacra. Quello che mi interessa è lavorare sulla storia, in particolare su quella italiana. Questo ci permette di vedere la forza della pittura. La scala gioca un ruolo importante: lo spettatore può entrare nel quadro, che è realizzato in un formato gigantesco. La morte è la tragedia dell’uomo, non possiamo essere indifferenti.

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Come affronti la storia dell’oggi? In mostra ci sono due trittici (hai utilizzato un formato antico), uno raffigura Vladimir Putin, «Tsar of The New Russia» (2008), a cui hai affiancato più recentemente «Volodymyr Zelensky & The Spirit of Ukraine» (2022). Un pittore oggi affrontando temi politici deve prendere una posizione?

Il trittico «Vladimir Putin, Zar della Nuova Russia» (2008) è stato realizzato quando ho visto una copertina del «Time» del 2007. Ho reagito immediatamente: «Questo è il mio soggetto». A Palazzo Strozzi ci sono due piccole sale. Volevo esporre quest’opera, ma non ne avevo motivo. Quando ho visto Zelensky sulla copertina del «Time» nel 2022, ho capito come le due opere si sarebbero scontrate. L’arte della pittura è già un impegno. Faccio una dichiarazione, mi esprimo nel quadro, lo mostro agli spettatori e poi sta a loro reagire. Piango i nostri tempi e allo stesso tempo sono felice di vivere in questo mondo. Siamo tutti di passaggio, mentre la Terra continuerà a girare.

Vladimir Putin, Tsar of The New Russia 2008 trittico, acquarello su carta cm 210 × 154 ciascuno Collezione privata Photography: André Morin © Yan Pei-Ming, ADAGP, Paris, 2023.

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Secondo l’oroscopo cinese sei nato sotto il segno del Topo. Hai mai dedicato opere all’animale del tuo o ad altri segni zodiacali cinesi?

Ho già realizzato un dipinto con i topi, ma mai con uno solo. Ne ho dipinti diversi, in una sorta di fogna. I ratti sono sempre in famiglia. Ho dipinto anche altri animali dell’astrologia cinese (Cane, Tigre, Scimmia ecc.). Recentemente ho ridisegnato la «gara dello zodiaco cinese» con i dodici animali, per Hennessy. Il Topo è arrivato primo nella gara indetta da Buddha secondo cui avrebbero dovuto sfidarsi per stabilire l’ordine degli animali dei dodici anni del ciclo lunare. Si trattava di attraversare un fiume, e il Topo, fu il primo.

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Come affronti tecnicamente le tue opere? Il tuo è un gesto ampio, rapido, fatto di pennellate riconoscibili. Come procedi nel tuo lavoro?

Prima ho un’idea, poi dipingo direttamente sulla tela. Tecnicamente, è molto aleatorio. Cerco di domare la pittura. Mi esprimo liberamente: per ogni quadro seguo esigenze e tecniche pittoriche diverse. Nella pittura c’è un’evoluzione a lungo termine, risolvo sempre ogni quadro in modo diverso.

Hai affermato: «La pittura non è una carezza», e la frase è perfettamente comprensibile pensando sia alla vibrante potenza delle tue pennellate, sia ai temi forti e spesso drammatici che affronti: più percosse che gesti affettuosi.

I soggetti drammatici mi interessano sempre. È come quando si guarda un film drammatico: dopo lo spettacolo ci si interroga. Ogni spettatore vuole percepire una sensazione. Per questo dico che «la pittura non è una carezza». L’idea è quella di esprimere, di mostrare un sentimento, una sensazione, attraverso la pittura. «La pittura non è una carezza» significa che mi piace il gusto pungente. Non dipingo mai in salsa agrodolce. Ma l’empatia è sempre nella pittura, anche se il gesto è drammatico, violento.

Hitler, d’après Hubert Lanzinger 2012 olio su tela, cm 280 × 280 Collezione privata - Courtesy M. Ars SA Photography: André Morin © Yan Pei-Ming, ADAGP, Paris, 2023.

Perché hai scelto d’ispirarti al quadro di Hubert Lanzinger che raffigura Adolf Hitler come antico guerriero teutonico, simbolo del potere, ma a cui i militari americani in una furia iconoclasta forarono l’occhio, confiscandolo poi e portandolo a Washington, all’United States Army Center of Military History?

Francesco Bonami mi ha mostrato questo quadro di propaganda, che all’epoca mi ha molto colpito e interessato. In seguito ho fatto delle ricerche. Ispirarsi a questo quadro significa ricreare l’epoca dei pittori di propaganda tedeschi. Mostra anche il periodo della Seconda guerra mondiale. Non è un quadro realistico, è più un quadro di propaganda. Quando i soldati americani l’hanno scoperto hanno forato la tela sotto l’occhio. Anch’io volevo dare l’impressione che la tela avesse un buco, mettendo una macchia nera sul volto di Hitler.

Perché hai voluto l’opera nella stessa sala dell’immagine di Mussolini?

È per parlare della Seconda guerra mondiale. Non l’ho vissuta, ma l’abbiamo studiata a scuola, nei documentari, sui libri. Così ho fatto una constatazione: la Seconda guerra mondiale è il disastro della nostra umanità. Spero di non vedere mai, nel corso della mia vita, una terza guerra mondiale. Ho questa consapevolezza che hanno tutti gli esseri viventi: la paura di essere uccisi. Ho tanta voglia di vivere. E che il mondo sia in pace. La nostra generazione tende a credere che non vedremo mai una guerra di questa portata. Faremo di tutto per evitarla.

In che modo ti ha ispirato lavorare a Palazzo Strozzi?

Palazzo Strozzi è un luogo mitico, un riferimento assoluto nel mondo dell’arte contemporanea. Per questa mostra ho creato una dozzina di nuove opere. Ho pensato molto a come muovermi nelle diverse sale di Palazzo Strozzi, guardando il modello, e a come collegare ciascuna delle dieci sale tra loro. © Riproduzione riservata