Un uomo ha spruzzato vernice su "Fuck Abstration" la contestatissima opera Miriam Cahn al Palais de Tokyo di Parigi

Miriam Cahn, fuck abstraction! (2007-2022). Courtesy the artist, Galerie Jocelyn Wolff and Meyer Riegger Berlin/Karlsruhe. Particolare del lavoro danneggiato

C’era mancato poco che la mostra chiudesse in tranquillità. Attenuatesi le polemiche, respinti i ricorsi, “Ma Pensée Sérielle” di Miriam Cahn, al Palais de Tokyo di Parigi, domenica scorsa si avviava alla conclusione (prevista per il 14 maggio), quando un uomo, dopo aver regolarmente pagato il biglietto, si è avvicinato al grande dipinto “Fuck abstration!” e l’ha deturpato con della vernice spray viola.

L’opera, che rappresenta una possente figura maschile con il pene eretto, che tiene una mano sulla testa di una fragile figura inginocchiata e legata di fronte a lui, è stata al centro di contestazioni fin dal principio dello show, tributato dall’importante museo di arte contemporanea della Ville Lumière all’artista settantatreenne. Dopo una carriera ultra-trentennale e dopo aver ricevuto un rilevante spazio alla Biennale di Venezia dello scorso anno (“Il Latte dei Sogni” di Cecilia Alemani).

Anzi, “Fuck abstration!” ha scatenato un putiferio. L’immagine, malgrado l’artista e il Palais abbiano spiegato che non è affatto così, secondo alcuni, sarebbe pedopornografica. Così, contro l’opera sono stati presentati un ricorso al Tar di Parigi e uno al Consiglio di Stato (il più alto tribunale in grado di Parigi). Entrambi li hanno respinti. Il Consiglio di Stato ha argomentato la sua scelta scrivendo: "Il Consiglio di Stato ha rilevato oggi che l'esposizione del dipinto ‘Fuck abstraction!’ al Palais de Tokyo, luogo dedicato al design contemporaneo, non tende a ledere seriamente e illegittimamente l'interesse superiore del minore o la dignità della persona umana (...)" Nonostante ciò. il 2 maggio, un gruppo composto da sedici associazioni per la difesa dei diritti dell'infanzia ha inviato una lettera aperta ai “membri, amici e amministratori del Palais de Tokyo” chiedendo il ritiro del dipinto, mentre una petizione online ha raccolto 14mila firme allo stesso scopo. E adesso l’opera è stata seriamente danneggiata.

Eppure, per evitare l’ingresso alla mostra a minori o persone particolarmente suscettibili, un cartello, ben leggibile, recita chiaramente : “Alcune opere potrebbero urtare la sensibilità del pubblico”. E dopo le prime polemiche il museo d’arte contemporanea parigino, ha anche messo un cartellino che spiega “Fuck Abstraction!”. E’ l’unico lavoro in tutta l’esposizione, che pure conta oltre 200 opere dagli anni ‘80 fino ad oggi, ad avere un cartellino. Per gli altri non sono indicati nemmeno titolo, tecnica, dimensioni ed anno, giacchè l’artista voleva che “Ma Pensée Sérielle” sembrasse un flusso ritmico e semi-ininterrotto e che generasse nuovi punti di vista e considerazioni, accostando semplicemente lavori vecchi e nuovi.

Pensata per denunciare la violenza dei conflitti armati e gli stupri di guerra, “Fuck abstraction!” (anche se in questo caso l’artista aveva in testa l’Ucraina, questo tipo di denunce sono tipiche del lavoro di Cahn, e riguardano le guerre in genere), vuole essere un dipinto forte. Non è certamente adatto ai bambini e può urtare anche gli adulti. Ma la sproporzione tra le due figure rappresentate e il fatto che la vittima sembri asessuata, non servono ad altro che a sottolineare l’universalità della sofferenza e l’indicibile brutalità della violenza. Le persone che hanno cercato, con pervicacia e uno spreco d’energie che potrebbe persino essere ammirevole se non fosse mal indirizzato, di far rimuovere il quadro, avrebbero potuto semplicemente guardarsi intorno per fugare i loro dubbi. In oltre 200 opere non c’è una sola rappresentazione di bambino. Senza contare che, i volti dei molti ritratti, sono tutti indeterminati, spesso ridotti a maschere (la sofferenza così come la solitudine o lo smarrimento sono universali).

Cahn, non è nota per avere un carattere accomodante ed arrendevole. Femminista convinta, ha anzi posizioni radicali, e si è rifiutata di prendere in mano colori e pennelli per oltre trent’anni (nel frattempo disegnava in modo performativo) perchè riteneva che astrattismo e minimalismo, allora imperanti, fossero forme espressive maschili. Ma quando l’ha fatto ha creato delle opere potenti e magistrali. Adesso è da molti considerata come uno degli artisti viventi occidentali più rappresentativi. E le sue quotazioni di mercato, dopo aver lungamente languito, sono cresciute considerevolmente: dai 50mila ai 105mila dollari per opere di medie dimensioni, fino ad oltre1 milione i grandi lavori.

E questa non è una buona notizia per l’uomo, che, domenica ha deliberatamente deturpato il quadro esposto, perchè “scontento della rappresentazione sessuale di un bambino e di un adulto presentata nel dipinto” come ha detto il museo all'agenzia France Press. Il Palais de Tokyo intende, infatti, procedere con la denuncia per danni e intralcio alla libertà d’espressione.

Nel frattempo “Ma Pensée Sérielle” di Miriam Cahn, al Palais de Tokyo di Parigi (se volete saperne di più leggete l’approfondimento dedicato alla grande e bella mostra da Artbooms), continua, forte degli 80mila visitatori già conteggiati. E “Fuck abstraction!” resta fermo al suo posto di combattimento.

Miriam Cahn, RAUM-ICH/ räumlich-ich : gelblichich, 2010, oil on canvas, 42 x 31 cm , courtesy of the artist and galeries Jocelyn Wolff and Meyer Riegger, photo : François Doury

Vues d’exposition, Miriam Cahn Ma pensée sérielle - Palais de Tokyo (17/02/2023 – 14/05/2023) Crédit photo : Aurélien Mole

David Popa, che realizza giganteschi ed effimeri graffiti sulle lastre di ghiaccio alla deriva

“Mirage” All images © David Popa via Colossal

Di orgini newyorkesi, l’artista David Popa, vive in Finlandia, dove ha sviluppato un modo del tutto personale di fare street-art. Realizza, infatti, dei grandi graffiti in mezzo alla natura selvaggia del nord Europa. Su scogli, campi, ma soprattutto lastre di ghiaccio alla deriva.

Popa, sul suo sito web, ha scritto di essere figlio di uno dei primi a scrivere del Graffitsmo. Cresciuto con la passione per la street-art, ha finito per coniugarla con l’amore per gli spazi aperti e l’avventura. Le opere di Popa, in particolare quelle tracciate sul ghiaccio, richiedono una buona dose di coraggio. Dopo una ricognizione attraverso un drone, infatti, l’artista, si muove direttamente sulla superficie ghiacciata sul punto di sciogliersi.

Su instagram ha raccontato, a proposito di un lavoro recente: "L'anno scorso in Finlandia abbiamo avuto alcune sporadiche settimane fredde con alcuni giorni molto più caldi, causando la frattura del ghiaccio e la formazione di bellissime forme intorno alla costa. Questo giorno specifico (quello in cui ha realizzato l’opera in questione ndr) è stato impegnativo poiché la temperatura era sopra lo zero, causando lo scioglimento della superficie e la formazione di ristagni d'acqua mentre lavoravo. Tuttavia è stato questo tipo di tempo che ha fatto sì che l'acqua si accumulasse un po' al di fuori delle varie fratture nel ghiaccio, consentendo alla neve alla deriva di aderire al bordo delle fessure, così si è verificato un fenomeno molto simile (almeno in apparenza) a ciò che succede alla pietra e che viene chiamato venatura. Un processo in cui le vene sono formate da minerali cristallizzati depositati dall'acqua che scorre attraverso la pietra ed evapora. Quando ho fatto volare il mio drone, sapevo che ci sarebbe stata la possibilità di utilizzare queste bellissime striature lungo il ghiaccio per delineare un ritratto, quasi come se uno spirito stesse attraversando la superficie del ghiaccio".

Popa usa solo colori naturali, per non alterare in alcun modo l’acqua, a cui i suoi graffiti ritornano velocemente. In genere si tratta di gesso bianco della regione di Champagne-Ardenne in Francia, ma anche ocre francesi ed italiane. Oltre al carbone in polvere che produce lui stesso e che purifica l’acqua anzichè inquinarla.

D’altra parte è cmprensibile che Popa si preoccupi di non alterare l’ecosistema in cui lavora, visto che le sue opere non possono fare a meno di parlarci della bellezza della natura, dei ritmi ineludibili della ciclicità stagionale a cui tutti gli esseri (umani compresi) sono legati. Ed anche ovviamente di ecologia e cambiamenti del clima.

Un’altra caratteristica delle opere dell’artista di origine statunitense, è la fragilità, il loro essere estremamente effimere. Nel giro di un giorno, se non di poche ore, dei graffiti non restano che fotografie scattate dall’alto (con un drone). Come sottolinea Popa stesso: "Quando lavoro sul ghiaccio spesso mi sembra di lavorare in una capsula del tempo, come se potessi assistere all'erosione del tempo davanti ai miei occhi, dove persino il grande dio del sole Apollo è ridotto a resti al calare della notte".

L’opera, durante la sua breve vita, è anche permeabile ai cambiamenti dell’ambiente circostante, alle condizioni di luce nel momento in cui vengono scattate le fotografie ed alle sollecitazioni incontrate dall’artista nell’atto di dipingere. In questo modo, è talmente legata al paesaggio da divenatarne parte integrante.

Spesso l’artista usa il nome di antiche divinità per intitolare le sue opere. In questo modo fa riferimento all’inarrestabile scorrere del tempo, a volte all’immutabile forza degli elementi, ma soprattutto al modo diverso in cui viene percepita la bellezza oggi rispetto ad altre epoche.

David Popa, vende le stampe delle fotografie delle sue fragili opere in edizione limitata (una nuova sarà disponibile il mese prossimo) e degli Nft che catturano il lavoro dell’artista stesso. Si possono vedere altre sue opere sul sito internet ma anche sull’account instagram.

“Fractured”

“Redemption”

“Bemuse.”

Varsavia venne ricostruita con materiali di recupero. Questa storia è al centro di una mostra, insieme ad opere d'arte contemporanea

La mostra "Warsaw 1945-1949: Rising from Rubble", in corso al Museo di Varsavia (Muzeum Warszawy), racconta con reperti vari ed eterogenei, la ricostruzione post-bellica della capitale polacca. Che avvenne attraverso materiali di recupero. Del resto, da riutilizzare c’era parecchio, visto che il conflitto si lasciò dietro 22milioni di metri cubi di macerie.

In mostra ci sono mattoni, resti di vasi, sculture e quant’altro, oltre a fotografie, disegni e quadri. Ma anche opere contemporanee, che suggeriscono che questa pagina della Storia del Paese, abbia influenzato in maniera indelebile anche l’arte, oltre all’architettura della Polonia.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, le città di tutta Europa, fecero ricorso a grandi quantità di materiali edilizi, per ricostruire tutto ciò che era andato distrutto nei bombardamenti. In genere, si utilizzavano materie prime prodotte sul territorio e in qualche modo emblematiche. Ma, appunto, non fu così per Varsavia.

"Il marmo di Carrara a Roma - spiega il curatore della mostra, Adam Przywara - il calcare di Portland a Londra o la 'pietra di Parigi' a Parigi: le storie di molte capitali europee possono essere decifrate osservando i materiali con cui sono state costruite. Nella seconda metà del XX secolo, Varsavia si distingueva anche per il suo carattere materiale unico: la città è stata ricostruita dalle macerie".

Sulle prime, anche i polacchi non pensavano ad altro che a buttare quella massa apparentemente inesauribile di macerie. Ma dopo un po’, cominciarono a raccogliere le rovine e ad utilizzarle per produrre nuovi materiali da costruzione. Si recuperavano mattoni e ferro, e si producevano blocchi di cemento e pietrisco. Fu un lavoro durissimo, massacrante (compiuto anche da squadre di donne), che il regime comunista, trasformò nel simbolo del futuro radioso che spettava al popolo polacco.

Tuttavia, oggi, questa storia, secondo gli organizzatori di "Warsaw 1945-1949: Rising from Rubble", ha qualcosa da insegnarci, per l’involontaria sostenibilità del monumentale progetto portato a termine in quegli anni.

La storia della rivalutazione delle macerie- continua Adam Przywara- può servire come riferimento diretto al dibattito contemporaneo sull'edilizia sostenibile al tempo della crisi climatica, basata sul recupero e il riciclo dei materiali. Il principio delle 3R (vale a dire ridurre, riutilizzare, riciclare) è stato applicato su vasta scala nella Varsavia del dopoguerra ".

"Warsaw 1945-1949: Rising from Rubble", conta su oltre 500 reperti, distribuiti in sette sale. La narrazione procede in ordine cronologico, dalle immagini della capitale devastata dai bombardamenti, le demolizioni, fino al riutilizzo delle macerie di cemento. La mostra si chiude con uno sguardo al paesaggio urbano di Varsavia, che ha subito un'importante trasformazione, evidente nella griglia stradale e nello sviluppo edilizio. Adesso della capitale polacca fanno parte anche il Warsaw Uprising Mound, il Moczydłowska e la Szczęśliwicka Hill (tutti fatti di macerie).

Oltre alle macerie originali e ai materiali utilizzati durante la ricostruzione della città, fotografie, cartoline, mariali video e mappe sono esposte anche opere di artisti del tempo (Zofia Chomętowska , Jan Bułhak , Alfred Funkiewicz , Wojciech Fangor , Antoni Suchanek) . Ma anche lavori d'arte contempornea di: Monika Sosnowska (particolamente interessante in questa cornice, perchè Sosnowska, che qui presenta un’installazione site-specific, è una scultrice che si appropria di materiali da costruzione), Tymek Borowski o Diana Lelonek (anche lei presente con un lavoro fatto per l’occasione, in cui riflette sulla collezione del Museo di Varsavia, composta da 300mila pezzi, e sulla vita quotidiana degli oggetti tutelati).

"Warsaw 1945-1949: Rising from Rubble", rimarrà al Museo di Varsavia (Muzeum Warszawy) fino al 3 settembre 2023. Organizzata anche per celebrare il settantesimo anniversario della ricostruzione, la mostra, è affiancata da un nutrito programma di eventi collaterali. Tra i quali, va citato un tour in bicicletta, sulle orme dell'architettura e dei paesaggi urbani del primo periodo della ricostruzione, guidato dal curatore dell’esposizione (si terrà a giugno).

Warsaw 1945-1949 Rising from Rubble, exhibiton view. Phot. T. Kaczor

Zofia Chom ®towska, Rubble clearance effort at the site of the Blank Palace on Theatre Square, 1945, Museum of Warsaw

Warsaw 1945-1949 Rising from Rubble, exhibiton view. Phot. T. Kaczor

Alfred Funkiewicz, Demolition of houses on Wilcza Street, 1945, Museum of Warsaw

Warsaw 1945-1949 Rising from Rubble, exhibiton view. Phot. T. Kaczor

Tymek Borowski, Rubble above Warsaw, 2015, Museum of Warsaw

Warsaw 1945-1949 Rising from Rubble, exhibiton view. Phot. T. Kaczor

Alfred Funkiewicz, Three Crosses Square, 1947, Museum of Warsaw

Warsaw 1945-1949 Rising from Rubble, exhibiton view. Phot. T. Kaczor

Alfred Funkiewicz, Clearing the Warsaw Ghetto of rubble, 1947, Museum of Warsaw

Warsaw 1945-1949 Rising from Rubble, exhibiton view. Phot. T. Kaczor

Fragments of porcelain vase (17th-18th ct.), Museum of Warsaw, collection of Barbara Baziõska (1925-2015), phot. A. Czechowski

Warsaw 1945-1949 Rising from Rubble, exhibiton view. Phot. T. Kaczor

Warsaw 1945-1949 Rising from Rubble, exhibiton view. Phot. T. Kaczor