A Letter from the Front: Gli artisti ucraini mandano film dalla guerra, mentre un'organizzazione lavora per metterli in salvo

Oleksiy Sai, The longest, the most productive - Deep cleansing power, 2021, color, sound, 3:29 min. Courtesy the artists

Nel 2009 l’artista ucraino Oleksiy Sai è stato inserito nella ristretta rosa di candidati al prestigioso premio del Pinchuk Art Centre. Da quel momento in avanti ha esposto in numerose sedi ma nulla è paragonabile alla visibilità che la sua opera ha ricevuto dalla stampa nelle ultime settimane. D’altra parte con una serie intitolata Bombed (composta da rappresentazioni di mappe aeree del Donbas bucate con una smerigliatrice, a simulare la devastazione dei bombardamenti), non poteva essere altrimenti.

E’ quello che ha attirato l’attenzione del New York Times che recentemente ha raccontato la fortunata storia dei galleristi Julia e Max Voloshyn (si sono presi il covid e non sono potuti partire poi è scoppiato il conflitto) e della loro mostra pop-up di Miami prorogata ad oltranza, di cui l’opera di Sai faceva parte. Non si sa se l’artista sia stato tra quelli che si sono rifugiati nella galleria dei coniugi Voloshyn a Kiev (è sotto un palazzo di sette piani ed è stata un rifugio anti-aereo nella seconda guerra mondiale, così gli artisti della galleria sono stati invitati a usarla come riparo).

Di certo l’opera di Oleksiy Sai fa parte della mostra A Letter from the Front (Una Lettera dal Fronte; Ein Brief von der Front) organizzata dal Castello di Rivoli (Torino), in collaborazione con il museo d’arte contemporanea di Monaco, Haus der Kunst. Insieme a quella di: Yaroslav Futymsky, Katya Libkind, AntiGonna con Nikita Kadan, Yarema Malashchuk, Roman Himey, REP, Nikolay Karabinovych, Dana Kavelina, Daniil Revkovsky, Andriy Rachinsky, Alina Kleytman, Lada Nakonechna, Yuri Leiderman con Andrey Silvestrov, Lesia Khomenk®, Mykola Ridny.

L’opera in questo caso è un video, come quella di tutti gli altri artisti ucraini, chiamati in fretta e furia a fare un ritratto di una terra diventata tristemente centro delle cronache.

"Alcuni degli artisti ucraini che partecipano a questo evento con le loro opere - spiegano gli organizzatori- sono attualmente intrappolati nelle città assediate o sono fuggiti nelle zone di confine o nei paesi limitrofi. Si mobilitano all'interno o al di là dei confini di un paese dilaniato dalla guerra, sfidando le distanze con i loro corpi. Alcuni di loro non hanno potuto salvare i loro dischi rigidi prima di lasciare le loro case e gli studi. Pertanto, nell'ambito di questo progetto, le opere d'arte possono essere mostrate solo nella forma in cui sono state archiviate digitalmente su server, cloud e piattaforme web".

Curiosamente le opere in mostra (ed alcune in particolare) sono animate da una tensione intensa che annichilisce chi le guarda anche se sono tutte ampiamente precedenti allo scoppio del conflitto.

A Letter from the Front dopo essere stata esposta al Castello di Rivoli (dal 10 al 13 marzo soltanto), va in scena all’Haus der Kunst di Monaco con tempi un po’ meno compressi (da ieri fino al 5 aprile). Tuttavia è possibile vedere i video anche online sul sito del museo torinese.

Mostre a parte, la vita degli artisti come degli altri civili in Ucraina, resta precaria. Ad andare in loro soccorso ci pensa l’organizzazione senza scopo di lucro Artists at Risk. Cui l’esposizione A Letter from the Front fa riferimento e che da qualche anno a questa parte si occupa proprio di mettere in salvo gli artiti minacciati da un governo ostile, ma soprattutto da veri e propri conflitti armati. Si può contribuire ad Artists at Risk, mettendo a disposizione un alloggio, o comperando un’opera grafica (donata all’associazione da alcuni tra i nomi più noti dell’arte contemporanea come Nan Goldin, Julian Schnabel o Luc Tuymans).

Yaroslav Futymsky, Flag is burning, 2019, color, sound, 1:51 min. Courtesy the artist

Lesia Khomenkо, Self-portrait, 2013, 7:33 min. Courtesy the artist

AntiGonna Enter the War, 2017, color, sound, 3:57 min. Courtesy the artist

R.E.P. Smuggling, 2007, color, sound, 10 min. Courtesy the artists

Dana Kavelina, There are no Monuments to Monuments, 2021, color, sound, 34:35 min. Courtesy the artist

Scopri i nidi impermanenti e poetici di Tadashi Kawamata nascosti nel centro di Milano

Nest, Tadashi Kawamata, Fondazione Cariplo. Photo: Daniele Perani

L’artisita giapponese Tadashi Kawamata ha disseminato il centro di Milano con delle installazioni site-specific pensate per essere smantellate alla fine dell’esposizione (Nests in Milan, fino al 23 luglio). Le opere pubbliche riproducono dei grandi nidi, attraverso una fitta griglia di assi di legno. Collocate, talvolta sulle facciate, altre sui tetti degli edifici, non sono immediate da individuare.

Nato nel ‘53 sull’Isola di Hokkaido, Tadashi Kawamata, a soli 28 anni è già un astro in ascesa. Nell’82 rappresenterà il Giappone insieme ad altri artisti alla Biennale di Venezia e poi pareteciperà a due edizioni consedutive di Documenta di Kassel. In seguito insegnerà all’Università di Belle Arti di Tokyo, prima e all’Accademia Nazionale di Belle Arti di Parigi, poi. I suoi interventi, nel tempo, sono stati ospitati da locations molto prestigiose tra le quali: Palazzo Strozzi a Firenze, il Madison Square Park di New York, il Centre Pompidou di Parigi e Place Vendôme sempre a Parigi.

La sua opera dialoga strettamente con l’architettura e il tessuto urbano. Ma anche con psicologia e sociologia. Ed è anche per questo che gli piace proporre la forma del nido. Costruzione archetipica essenziale che "rimanda-spiegano gli organizzatori dell'evento- alla necessità universale di costruire, sia nel mondo animale che in quello umano, un luogo in cui trovare riparo". Il senso di vulnerabilità e la presenza di potenziali pericoli sono quindi sottintesi. Allo stesso modo il nido comunica sicurezza e la laboriosa gioia della primavera. Un senso di serena freschezza sottolineato dai colori discreti delle installazioni.

Ma le opere di Kawamata sono ingannevoli. E i suoi nidi hanno un lato oscuro. Se da una parte, infatti , non fanno altro che spingerci a riflettere sugli edifici in cui viviamo e sugli spazi che ci circondano. Dall’altra, sono simili a bozzoli, corpi estranei che si insionuano nel tessuto urbano pronti ad ospitare una creatura aliena. Per non parlare, poi, di quando l’artista gira i nidi su se stessi, trasformandoli in igloo tratteggiati ed insidiosi.

Com’è successo nell’antico palazzo parigiono di cui Artbooms ha parlato tempo fa. Questa volta i nidi di Tadashi Kawamata sono stati, invece, collocati sul Grand Hotel et de Milan, al Centro Congressi Fondazione Cariplo e nel Cortile della Magnolia di Palazzo Brera. Tutti edifici scelti per il loro valore simbolico, sia civile che culturale. Le tre opere pubbliche sono state realizzate in occasione della mostra Nests in Milan (a cura di Antonella Soldaini) che si terrà alla Building gallery dal 31 di marzo. Per l’inaugurazione Kawamata realizzarà anche un quarto intervento sulla facciata dell’edificio che ospita la galleria.

Nest, Tadashi Kawamata, Fondazione Cariplo. Photo: Daniele Perani

Nest, Tadashi Kawamata, Cortile della Magnolia Photo: Daniele Perani

Nest, Tadashi Kawamata, Cortile della Magnolia Photo: Daniele Perani

Nest, Tadashi Kawamata, Grand Hotel et de Milan. Photo: Daniele Perani

Nest, Tadashi Kawamata, Grand Hotel et de Milan. Photo: Daniele Perani

Tadashi Kawamata, Tree Huts at Place Vendôme, 2013 Installation in situ, Place Vendôme, Parigi Ph. Fabrice Seixas © Tadashi Kawamata Courtesy of the artist

Tadashi Kawamata, Tree Huts, 2013 Installation in situ, Palazzo Strozzi, Firenze Ph. Martino Margheri, Markus Bader © Strozzina, Fondazione Palazzo Strozzi, Firenze Courtesy of the artist

Tadashi Kawamata, The Shower, 2017 Installazione in situ, Fondazione Made in Cloister, Chiostro della Chiesa di Santa Caterina a Formiello, Napoli Ph. Riccardo Piccirillo © Fondazione Made in Cloister, Napoli Courtesy of the artist

Tadashi Kawamata, Nests in Milan, 2020, matita, pastello e penna su carta / pencil, crayon, and pen on paper, 29,7 × 21 cm disegno preparatorio, progetto per la facciata del Grand Hotel et de Milan / preliminary sketch, project for the facade of Grand Hotel et de Milan, via Monte di Pietà 24, Milano Ph. Paolo Riolzi Studio

Una bambola kokeshi affamata e dei leoni komainu robotici salutano i visitatori al tempio Kiyomizu-dera di Kyoto

Fino al 13 marzo all’ingresso del tempio di Kiyomizu-dera, una gigantesca bambola tradizionale kokeshi accoglieva i visitatori insieme a una coppia di leoni guardiani komainu in versione robotica. Le opere, realizzate rispettivamente dal collettivo giapponese Yotta e dall’artista Kenji Yanobe sono state posizionate in occasione della fiera degli artisti di Kyoto 2022. E sono due rivisitazioni della scultura monumentale.

La bambola kokeshi, da sempre modellata in legno e dipinta con vari colori fino a riprodurre un kimono, resta un simbolo del Giappone, ma in passato fu talmente famosa da ispirare il design della matrioska russa. Quella del collettivo Yotta si chiama “Hanako” e si prende molte libertà rispetto alla sua antenata. Tanto per cominciare nelle dimensioni: la bambola posizionata all’ingresso del tempio patrimonio Unesco misura 12 metri e mezzo. Altezza monumentale, che contraddice, con la posizione (quella di un giocattolo caduto a terra). E con il peso. “Hanako”, infatti, è un leggerissimo gonfiabile.

Ma la bambola kokeshi del collettivo Yotta (composto dagli artisti: Kizaki Kimitaka, Kanetani Koji e Yamawaki) non si limita a questo. E’ anche parlante. Recita filastrocche, canta canzoncine allegre, borbotta e ogni tanto dice: “Ho fame!”

Stanno zitti e si limitano a 3 metri e 30, i komainu di Kenji Yanobe. I leoni giapponesi che fanno la guardia ai templi per allontanare gli spiriti maligni, qui, mixano tradizione e contemporaneità senza dimenticare l’ironia. Una ha le fauci splancate l’altra chiuse.

Wikipedia spiega: "La bocca aperta pronuncia la prima lettera dell'alfabeto sanscrito , che si pronuncia "a", mentre la chiuso è pronunciare l'ultima lettera, che si pronuncia "um", per rappresentare l'inizio e la fine di tutte le cose. Insieme formano il suono Aum , una sillaba sacra in diverse religioni come l'induismo , il buddismo e il giainismo" .

Ma nella versione di Yanobe i komainu si trsformani nei robottini di un manga e hanno pose da animale domestico.

Image Courtesy of @yanobekenji

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