Psichedelica e bugiarda, la carriera ultrasessantennale di Yayoi Kusama, alla Fondazione Beyeler

Installation view "Yayoi Kusama", Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 Narcissus Garden, 1966/2025 © YAYOI KUSAMA Photo: Matthias Willi

È un gioco di specchi quello che i visitatori della grande retrospettiva di Yayoi Kusama vedono messo in scena nel parco della Fondazione Beyeler di Riehen (Basilea). Ci sono le alte vetrate dell’edificio di Renzo Piano che riflettono i colori delle foglie autunnali, il laghetto e la vastità dei giardini, mentre ai loro piedi l’acqua moltiplica i riverberi e, sopra di essa, le sfere rivestite di metallo che compongono la storica installazione “Narcissus Garden”, galleggiando pigramente, si mostrano a loro volta nel momento in cui assorbono il mondo circostante piegandolo a nuovi miraggi. Tutto è molto stile Kusama: meditativo e onirico, reale però mendace.

Eppure “Narcissus Garden” non è l’opera più psichedelica che l’artista giapponese abbia ideato nella sua lunga carriera (non quanto le zucche almeno), ma anche lei affascina e disorienta un po’ lo spettatore. Di certo produsse questo effetto sui carabinieri quando, nel 1966, chiamati a intervenire alla Biennale di Venezia, dove una giovane partecipante in kimono vendeva sfere specchianti a 1.200 lire l’una, affermarono che non si può «vendere opere d’arte come hot dog o coni gelato». Lei, disorientata, nonostante tutto, lo era molto meno: l’installazione era composta da 1.500 elementi e, se fosse riuscita a venderli tutti, avrebbe messo insieme un bel po’ di soldi, senza contare che l’intervento delle forze dell’ordine attirava la stampa e interessava il pubblico, generando pubblicità gratuita. Anche questo la signora Kusama lo sapeva bene e sarebbe stata una tecnica di marketing estrema di cui avrebbe fatto largo uso durante tutto il suo periodo newyorkese, quando il denaro per lei era un cruccio.

Nonostante oggi, a 96 anni, Yayoi Kusama sia considerata la più importante artista giapponese vivente, capace di muovere folle tanto grandi quanto eterogenee (la scorsa primavera la sua mostra alla National Gallery of Victoria di Melbourne ha distaccato abbondantemente il Gran Premio di Formula 1 per numero di biglietti venduti), cui non a caso la Fondazione Beyeler dedica una corposa retrospettiva che ripercorre una carriera ultrasessantennale (la prima in Svizzera, con oltre 300 opere provenienti da Giappone, Singapore, Paesi Bassi, Germania, Austria, Svezia, Francia e Svizzera), per lei non è sempre stato tutto rose e fiori. Ha anzi dovuto aspettare circa vent’anni perché cominciasse ad essere riconosciuto l’influsso del suo lavoro sulla produzione di famosi colleghi uomini (come Andy Warhol, Claes Oldenburg e Donald Judd), la cui strada lei aveva incrociato.

Anni fa, riguardo ad alcune assonanze delle sue stanze di specchi con quelle del greco-americano Lucas Samaras, ha detto: «Quando le ho viste, la mia reazione è stata: ‘L'ha fatto di nuovo’. Spero che d'ora in poi Lucas segua la strada della creatività e del dolore insiti negli artisti, invece di seguire ciò che ha fatto Kusama».

Installation view «Yayoi Kusama», Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 Infinity Mirrored Room – The Hope of the Polka Dots Buried in Infinity Will Eternally Cover the Universe, 2025 © YAYOI KUSAMA Photo: Mark Niedermann

Nata a Matsumoto (una cittadina ai piedi delle montagne nella prefettura di Nagano) da una famiglia benestante, Yayoi Kusama non ebbe un’infanzia felice. Il padre era un donnaiolo impenitente e la madre, furiosa per le offese e la gelosia, se la prendeva con la figlia minore; più o meno tutte le biografie riportano l’episodio in cui la piccola Yayoi venne mandata a spiare il padre. Così come è noto che, ancora bambina, dovette contribuire allo sforzo bellico del Paese lavorando in una fabbrica di paracaduti, e che l’esperienza non le piacque affatto.

Da questo punto in poi, però, tutto si fa confuso e non perché la signora Kusama si sia dimostrata reticente sull’argomento, anzi. In un articolo del 2012, il giornalista statunitense Arthur Lubow ha scritto: «Kusama racconta versioni diverse della sua vita da così tanto tempo che nessuno, nemmeno lei, può garantire i fatti specifici».

Particolarmente avvolta nel mistero è l’origine della sua malattia mentale. Nella sua autobiografia, pubblicata nei primi anni 2000, la signora Kusama ha fatto risalire le sue prime visioni agli anni della Seconda guerra mondiale, quando un gruppo di violette dal volto umano cominciò a parlarle mentre motivi floreali si propagavano per l’intera stanza. Quando aveva allucinazioni prese l’abitudine di disegnare ciò che le era apparso.

Il significato primigenio e la fonte dei suoi motivi ricorrenti, tuttavia, è di nuovo poco chiaro. Riguardo ai punti che invadono a migliaia, quando non a milioni, quadri e installazioni a sua firma, lei ha parlato di vuoti nello spazio, li ha persino spiegati con il suo desiderio di pace nel mondo e di amore tra le creature, facendone risalire l’intuizione a una delle sue visioni. Ma il gallerista Hidenori Ota, che la rappresenta da tempo, in un’intervista ha affermato: «Sua madre era gelosa e la sua energia si riversava su Kusama-san. La pizzicava forte, e questo le lasciava dei puntini sulla pelle. Kusama-san mi ha detto due volte che era quella l'origine dei puntini».

Sia come sia, su una cosa non ci sono discrepanze: lei la madre non l’ha mai perdonata

Yayoi Kusama, No. N2, 1961 Oil on canvas, 125 x 178 cm, Private collection, deposit YAYOI KUSAMA MUSEUM © YAYOI KUSAMA

Comprensibilmente, la giovane artista, dopo un periodo di studi a Kyoto, se ne andò il più lontano possibile: «Ho lasciato il Giappone — ha detto anni fa — determinata a vivere e morire negli Stati Uniti. Non sarei dovuta tornare in Giappone, nemmeno temporaneamente».

Stavano per iniziare gli anni degli hippy e della controcultura, e la signora Kusama, dopo aver dipinto senza posa in un appartamento freddo e malconcio, li cavalcò inventandosi performance sfacciate e provocatorie chiamate “Orge” (in genere lei se ne stava in disparte, ma in un’occasione venne arrestata). Sempre in quegli anni diede vita alle sculture ricoperte di protuberanze che cuciva lei stessa e alle prime “Infinity Mirrored Room”. Nel frattempo fondò due brand di abbigliamento (uno semplicemente imprimeva i suoi motivi ricorrenti su stoffa, mentre l’altro presentava collezioni bizzarre in cui gli abiti, per esempio, lasciavano scoperti seno o glutei). Continuava ad avere allucinazioni, ma pare che non disdegnasse neppure le visioni indotte dall’LSD. Tuttavia questo non la distoglieva dal lavoro: era abilissima nelle pubbliche relazioni e la sua opera cresceva giorno dopo giorno in qualità e notorietà.

I soldi erano un’altra faccenda; così, quando i suoi genitori, dopo essere venuti a sapere delle performance, decisero di non mandargliene più, se ne tornò in Giappone. Era il 1978, e da allora la signora Kusama ha scelto di vivere in un ospedale psichiatrico. Ha anche un piccolo studio vicino alla clinica, dove tutti i giorni si sposta per dipingere e incontrare i suoi assistenti.

Yayoi Kusama, Infinity Mirrored Room – Illusion Inside the Heart, 2025 Inside view, Mirror-polished stainless steel with glass mirrors and colored acrylic, 300 x 300 x 300 cm, Collection of the artist © YAYOI KUSAMA

L’opera di Yayoi Kusama è stata determinante sia per lo sviluppo della Pop Art sia per quello del Minimalismo, ma non si può dire che questi movimenti abbiano lasciato un segno indelebile in essa. È anzi per sua natura molto intima, più incline a portare dentro di sé il ricordo del Surrealismo (che però usava un linguaggio completamente diverso). L’atmosfera magica e allucinata sembra in qualche modo ispirata a Van Gogh; i puntini richiamano l’Impressionismo e il Divisionismo, ma fanno anche pensare alla griglia luminosa della televisione e ai pixel. Insomma, volendo, i riferimenti alla Storia dell’arte nel lavoro della signora Kusama si sprecherebbero, non fosse che lei ha sempre percorso una strada del tutto singolare e, anche per questo, il pubblico la ama.

Le sue zucche gialle ricoperte da migliaia di pois neri non assomigliano a quelle che i suoi genitori coltivavano nel loro vivaio di Matsumoto, ma si piegano alla visione dell’artista diventando enormi e protettive come caverne, o avvolgenti e vagamente inquietanti come tentacoli, a seconda della necessità. I bambini le adorano e gli appassionati d’arte più alla moda le sfoggiano durante le occasioni speciali, impresse su borse e foulard (la sua collaborazione con il brand Louis Vuitton nel 2013 ha inaugurato una partnership tra artisti e marchi di lusso che negli anni successivi sarebbe diventata un’abitudine). Anche i dipinti dai colori vibranti, spesso in contrasto tra loro ma non tanto da urtare gli occhi, e l’essenzialità compositiva, mettono d’accordo persone per il resto completamente diverse (in Svizzera oltre a quelli della serie "My Eternal Soul" ci sono anche quelli del primo periodo newyorkese e alcuni rari lavori giovanili). Chi vuole farsi un selfie o produrre un contenuto da condividere sui social non riesce a resistere agli ambienti immersivi. Anche se sono le stanze specchianti, con le luci che sembrano moltiplicate all’infinito, a imprimersi nel cuore di tutti indiscriminatamente. La scorsa primavera la National Gallery of Victoria, per permettere a tutti di vedere le “Infinity Mirrored Room della signora Kusama, ha dovuto introdurre un sistema di code e un limite di tempo di 30-40 secondi, tanto era grande la richiesta da parte del pubblico.

La retrospettiva di Yayoi Kusama alla Fondazione Beyeler, curata dal critico indipendente francese Mouna Mekouar insieme alla tedesca associata Charlotte Sarrazin e organizzata in collaborazione con il Museum Ludwig di Colonia e con lo Stedelijk Museum di Amsterdam, resterà aperta fino al 25 gennaio 2026. Inutile dire che si tratta di un successo annunciato.

Installation view "Yayoi Kusama", Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 Narcissus Garden, 1966/2025 © YAYOI KUSAMA Photo: Matthias Willi

Kusama with her installation Narcissus Garden at the 33rd Venice Biennale, 1966 © YAYOI KUSAMA

Installation view «Yayoi Kusama», Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 © YAYOI KUSAMA Photo: Mark Niedermann

Yayoi Kusama, Everything about My Love, 2013from the My Eternal Soul series, 2009–2021, Acrylic on canvas, 194 x 194 cm, Collection of the artist © YAYOI KUSAMA

Yayoi Kusama, Death of My Sorrowful Youth Comes Walking with Resounding Steps, 2017 from the My Eternal Soul series, 2009–2021, Acrylic on canvas, 194 x 194 cm, Collection of the artist © YAYOI KUSAMA

Installation view «Yayoi Kusama», Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 Infinity Mirrored Room – The Hope of the Polka Dots Buried in Infinity Will Eternally Cover the Universe, 2025 © YAYOI KUSAMA Photo: Mark Niedermann

Installation view «Yayoi Kusama», Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 Infinity Mirrored Room – The Hope of the Polka Dots Buried in Infinity Will Eternally Cover the Universe, 2025 © YAYOI KUSAMA Photo: Mark Niedermann

Yayoi Kusama in her studio in New York in 1971 photographed by Tom Haar Photo: Tom Haar © YAYOI KUSAMA

Installation view «Yayoi Kusama», Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 © YAYOI KUSAMA Photo: Mark Niedermann

Yayoi Kusama, Untitled (Chair), 1963. Stuhl, genähter und gefüllter Stoff und Farbe, 81 x 93 x 92 cm, Collection of the artist © YAYOI KUSAMA

Yayoi Kusama, Pumpkin, 1991. Acrylic on canvas, 91 x 116.7 cm, Collection of the artist © YAYOI KUSAMA

KUSAMA with YELLOW TREE / Living Room at the Aichi Triennale, 2010 © YAYOI KUSAMA, Courtesy of Ota Fine Arts, Victoria Miro, David Zwirner

Rigore e caso giocano a dadi nella pittura di Gerhard Richter. Alla Fondation Louis Vuitton di Parigi con una monumentale retrospettiva

 Gerhard Richter, Lesende, 1994 (CR 804) : Gerhard Richter Lesende, 1994 (CR 804) [Femme lisant] Huile sur toile / Oil on canvas 72 x 102 cm Collection San Francisco Museum of Modern Art. Purchase through the gifts of Mimi and Peter Haas and Helen and Charles Schwab, and the Accessions Committee Fund: Barbara and Gerson Bakar, Collectors Forum, Evelyn D. Haas, Elaine McKeon, Byron R. Meyer, Modern Art Council, Christine and Michael Murray, Nancy and Steven Oliver, Leanne B. Roberts, Madeleine H. Russell, Danielle and Brooks Walker, Jr., Phyllis C. Wattis, and Pat and Bill Wilson © Gerhard Richter 2025 (18102025)

E’ il 1966, una giovane donna scende le scale, è nuda, tuttavia la scena non trasmette erotismo (lei sembra anzi molto concentrata a non inciampare durante la discesa nel chiaro scuro della sera), ai lati il dipinto è sfocato fin quasi a dissolversi. L’immagine, infatti, moderata eppure vibrante, ha le caratteristiche e il realismo di un’istantanea ma è un ritratto che Gerhard Richter fece all’allora moglie Marianne Eufinger (detta Ema). L’opera, attualmente in mostra alla Fondation Louis Vuitton di Parigi, che è insieme una prima esplorazione del colore da parte di un artista che fino a quel momento si era dedicato al bianco e nero, un omaggio a Marcel Duchamp e una celebrazione della gravidanza appena scoperta di Ema, oltre cinquant’anni dopo sarebbe stata al centro di un film, lo avrebbe fatto stringere amicizia e poi litigare con un regista premio-oscar e avrebbe riportato alla luce uno scherzo del destino, oltre ad una tragedia familiare sepolta.

D’altra parte la biografia del signor Richter è piena di drammi. Così come il caso (che lo ha portato dalle miserie del Nazismo a quelle del Comunismo, dall’essere un rispettabile insegnante d’Accademia a uno degli uomini più ricchi della Germania), sembra avervi avuto un ruolo. Lui, l’intervento di eventi fortuiti, lo ha spesso cercato durante il suo lavoro, ma sul fatto che da anni sia considerato come uno degli artisti più influenti a livello mondiale, il fato nulla ha potuto. Quella è stata una questione di talento, disciplina e dedizione incrollabile.

Gerhard Richter, che adesso ha 93 anni, ne sta dando prova per l’ennesima volta alla Fondation Louis Vuitton di Parigi, dove dallo scorso 17 aprile è in corso una sua monumentale mostra personale. Descritta dal museo come una “retrospettiva eccezionale, senza pari sia per dimensioni che per ampiezza cronologica” conta un totale di 257 opere tra dipinti a olio, sculture in vetro e acciaio, disegni a matita e inchiostro, acquerelli e fotografie sovradipinte datate dal ’62 in avanti. Come già quella dedicata a David Hockney la scorsa primavera, l’esposizione, occupa interamente le undici gallerie dell’edificio progettato dall’archistar canadese-americano, Frank Gehry (le sale in totale sono invece 34) e comprende pezzi cardine della sua carriera ultra sessantennale, arrivati apposta da musei e istituzioni in tutto il mondo (non c’è tutto quel che ha prodotto, ma quasi).

La retrospettiva curata da Sir Nicholas Serota (attuale presidente dell'Arts Council England ed ex direttore della Tate Modern di Londra dove aveva già organizzato una mostra del signor Richter) in collaborazione con lo svizzero Dieter Schwarz (che è invece reputato il maggior esperto della sua opera) è stata definita “uno spettacolo di elettrizzante genialità” dal critico Adrian Searle su The Guardian e prosegue la serie di “mostre monografiche epocali- ha invece scritto la fondazione stessa- dedicate a figure di spicco dell'arte del XX e XXI secolo, tra cui Jean-Michel Basquiat, Joan Mitchell, Mark Rothko e David Hockney”.

Per quanto il signor Richter abbia smesso di dipingere nel 2017 (in merito a questa scelta, sebbene rilasci rare interviste, ha fatto varie dichiarazioni come: “Avevo detto che a 88 anni avrei smesso di dipingere e così ho fatto”; anche se sono state la difficoltà del processo con l’avanzare dell’età a motivarlo), non ha mai abbandonato il lavoro. Da allora prevalentemente disegna ma si dedica pure ad altri media meno impegnativi dal punto di vista fisico della pittura. Il gallerista David Zwirner (attuale rappresentante del signor Richter dopo la chiacchierata rottura con la sua storica mercante newyorkese, Marian Goodman), che ospita nella sua sede parigina una personale dell’artista tedesco proprio in parallelo alla retrospettiva al Bois de Boulogne, ha detto: “C'è un'aura enorme attorno a lui a livello internazionale, ma poi lo incontri in studio e lo vedi semplicemente seduto in una stanza, a creare qualcosa dal nulla. È molto umile. È un uomo straordinariamente serio e umile". Anche le opere più recenti sono in mostra alla Fondation Louis Vuitton.

Gerhard Richter, Venedig (Treppe) [Venezia (staircase)], 1985 (CR 586-3) Gerhard Richter, Venedig (Treppe) [Venezia (staircase)], 1985 (CR 586-3) Oil on canvas, 51,4 x 71,8 cm The Art Institute of Chicago. Gift of Edlis Neeson Collection © Gerhard Richter 2025 (18102025)

Il signor Richter, che non dipinge mai direttamente il soggetto rappresentato ma lo filtra attraverso una fotografia o un disegno (gli schizzi sono sempre suoi, mentre le fotografie a volte sono state scattate da lui altre provengono da fonti varie, come riviste o quotidiani, tanto che anni fa le ordinò e le usò per comporre un atlante visivo), nel tempo ha esplorato tutti i generi pittorici tradizionali: ritratto, occasionalmente autoritratto, paesaggio, natura morta, dipinti storici e rappresentazioni religiose. Ha anche adottato uno stile eterogeneo durante il medesimo corso (che è stato descritto come “una rottura di stile come principio stilistico”): pittura in bianco e nero o a colori, composizioni freddamente iperrealiste o romanticamente evocative, astrattismo informale o concreto. Per poi ritornare sull’uno o sull’altro metodo a scadenza ciclica. Dal punto di vista tecnico a farlo conoscere sono state le sfocature (in pratica, prima copiava un soggetto con la massima ricchezza di sfumature, chiaroscuri e dettagli, dopo, mentre il colore era ancora fresco, vi passava sopra un pennello pulito e piatto spostando letteralmente parti dell’immagine qua e là) che in seguito avrebbe eseguito più visceralmente con raschietti di varie dimensioni. Tanto che si può dire che buona parte di quanto sia possibile fare con la pittura lui l’abbia fatto.

Gerhard Richter, Ema (Akt auf einer Treppe) [Ema (Nude on a Staircase)], 1966 (CR 134) Gerhard Richter, Ema (Akt auf einer Treppe) [Ema (Nude on a Staircase)], 1966 (CR 134) Oil on canvas, 200 x 130 cm Museum Ludwig, Cologne / Donation Ludwig Collection 1976 © Gerhard Richter 2025 (18102025)

Gerhard Richter è nato a Dresda (in quella che in seguito sarebbe diventata la Germania dell’Est) il 9 febbraio del ’32, figlio di un insegnante e di una libraia che suonava il piano per passione. Quando era ancora un bambino il padre (che non aveva mai espresso apprezzamento per il nazionalsocialismo ma in quanto impiegato pubblico aveva dovuto tesserarsi) partì per il fronte e il piccolo Gerhard insieme a quel che rimaneva della famiglia si trasferì in campagna. Per quanto la guerra da dove stava apparisse lontana, il dolore che portava con sé non mancò di travolgerlo: due suoi zii morirono al fronte (negli anni ’90 dichiarò di sentire ancora le urla delle donne dopo averlo saputo; uno di loro il signor Richter lo avrebbe poi dipinto in bianco e nero con la sua divisa militare e un sorriso goffamente dolce stampato in volto) e la sorella di sua madre a cui era stata diagnosticata la schizofrenia venne prima sterilizzata e poi “letteralmente lasciata morire di fame” in un ospedale psichiatrico parte di un programma di omicidio medico nazista (avrebbe poi ritratto pure lei: giovanissima, quasi una bambina, con Gerhard neonato in braccio, nel quadro appare bella e sorridente ma il suo sguardo sfuggente di fronte all’obbiettivo e le sfocature che ne cancellano parte del volto, fa percepire una vaga ed inquietante cupezza incombente all’osservatore). Il padre dopo la guerra, invece, tornò a casa, ma come reduce del terzo reich non potè più fare l’insegnante (in seguito si sarebbe suicidato).

La famiglia era molto più povera di prima e i Comunisti esercitavano attraverso la Stasi un controllo opprimente sulla vita di chiunque. Il signor Richter frequentò l’accademia di Belle Arti di Dresda, si fidanzò e poi sposò con la figlia di uno stimato ginecologo, Marianne Eufinger (Ema, appunto). Per un po' visse a casa dei genitori di lei, e in quel periodo ritrasse il suocero, ma quando cominciarono a costruire il muro lui e la moglie scapparono ad ovest. Il signor Richter portò con sé solo delle foto di una famiglia che non avrebbe mai più rivisto e che alcuni anni dopo gli sarebbero servite per dipingere gran parte delle opere ora esposte a Parigi nella Prima Galleria.  

Gerhard Richter, Onkel Rudi [Uncle Rudi], 1965 (CR 85)  Gerhard Richter, Onkel Rudi [Uncle Rudi], 1965 (CR 85) Huile sur toile, 87 x 50 cm Collection Lidice Memorial, Czech Republic © Gerhard Richter 2025 (18102025)

In Occidente frequentò Accademia d'arte di Düsseldorf e più avanti vi insegnò. Il matrimonio con Ema finì e lui si risposò. Nel frattempo il suo nome era sempre più conosciuto e le quotazioni delle sue opere esplosero. Proprio mentre il mercato gli si inchinava (all’asta il suo lavoro in genere arriva alle decine di milioni) incontrò quella che sarebbe diventata la sua terza moglie.

Nei primi anni duemila un giornalista investigativo del quotidiano berlinese, Tagesspiegel, si interessò della storia personale del Signor Richter e scoprì il tragico destino di sua zia Marianne, ma anche che il suo primo suocero era stato tra i responsabili del programma di sterilizzazione forzata cui venne sottoposta. Lui non ne sapeva niente.

Nel 2019 tutta questa vicenda, che fino ad allora era stata dibattuta nella sola Germania, attirò l’attenzione del mondo intero, quando un regista hollywoodiano di origine tedesca (rimasto particolarmente colpito dal ritratto di Ema) presentò un film ad essa ispirato. Il signor Richter che si è sempre sforzato di proteggere la propria vita privata si arrabbiò moltissimo.

 Série Birkenau de Gerhard Richter lors de l'exposition "Gerhard Richter. Neupräsentation im Albertinum" en 2015 Vue d'installation de la série Birkenau de Gerhard Richter lors de l'exposition "Gerhard Richter. Neupräsentation im Albertinum", de février à septembre 2015 à la Staatliche Kunstsammlungen Dresden Gerhard Richter Birkenau, 2014 Huile sur toile / Oil on canvas 260 x 200 cm chacun / each Neue Nationalgalerie, Stiftung Preußischer Kulturbesitz, Berlin, prêt de la / loan from Gerhard Richter Art Foundation Photographe : David Brandt © Gerhard Richter 2025 (18102025)

Nonostante lui abbia spesso tratto ispirazione da fatti d’attualità destinati a passare alla Storia (ha, ad esempio, effigiato i volti delle otto infermiere uccise dal serial killer Richard Speck e l’attacco alle torri gemelle) quando non dalla Storia stessa, una serie di quattro opere in particolare appartenenti a questo filone è considerata un capolavoro indiscusso. Intitolato “Birkenau”, il ciclo del 2014, riproduce alcune fotografie che un prigioniero era riuscito a scattare all’interno del campo di sterminio di Auschwitz. E lo fa in stile iperrealista con pittura ad olio in bianco e nero minuziosamente applicata. Tuttavia, noi non possiamo vedere l’abilità dell’artista, perché il signor Richter dopo è intervenuto sui dipinti finiti: li ha coperti con numerosi strati di pigmento, che a tratti ha spostato con i raschietti e dipinto ancora, trasformandoli in composizioni astratte. Così gli orrori storici impressi sulla tela come gli eventi che catturano sono vivi sotto la superficie ma celati agli occhi del presente.

Esposti prima in Germania, poi in Inghilterra e in occasione della retrospettiva dell'artista al Metropolitan Museum of Art di New York nel 2020, i dipinti di Birkenau sono attualmente nella Galleria 10 insieme ad altri capolavori astratti dello stesso periodo.

La retrospettiva dedicata all’opera di Gerhard Richter alla Fondation Louis Vuitton tuttavia non si limita a questo: ci sono paesaggi che riattualizzano e smorzano le emozioni forti dei romantici tedeschi; una serie di ritratti in bianco e nero di personaggi illustri (“48 Ritratti”) con cui ha rappresentato la Germania alla Biennale di Venezia del 1972 (il Leone d’oro alla carriera gli è stato invece assegnato nel 2003); una galleria è dedicata interamente ai lavori su carta; un’altra ricostruisce la storia della realizzazione della vetrata composta da “11.500 quadrati di vetro antico soffiato a bocca in 72 colori diversi” accostati casualmente, che ha creato per il Duomo di Colonia (città in cui vive).  L’esposizione resterà a Parigi fino al 2 marzo 2026.

Gerhard Richter, Gudrun, 1987 (CR 633) Gerhard Richter, Gudrun, 1987 (CR 633) Oil on canvas, 250 x 250 cm Fondation Louis Vuitton, Paris © Gerhard Richter 2025 (18102025)

Gerhard Richter, Kerze [Candle], 1982 (CR 511-1) Gerhard Richter, Kerze [Candle], 1982 (CR 511-1) Oil on canvas, 95 x 90 cm Collection Institut d'art contemporain, Villeurbanne/Rhône-Alpesm © Gerhard Richter 2025 (18102025)

Gerhard Richter, Gegenüberstellung 2, 1988 (CR 671-2) : Gerhard Richter Gegenüberstellung 2, 1988 (CR 671-2) [Confrontation 2] Huile sur toile / Oil on canvas 112 x 102 cm The Museum of Modern Art, New York. The Sidney and Harriet Janis Collection, gift of Philip Johnson, and acquired through the Lillie P. Bliss Bequest (all by exchange); Enid A. Haupt Fund; Nina and Gordon Bunshaft Bequest Fund; and gift of Emily Rauh Pulitzer, 1995 © Gerhard Richter 2025 (18102025)

Gerhard Richter, Verkündigung nach Tizian, 1973 (CR 343-1) Gerhard Richter Verkündigung nach Tizian, 1973 (CR 343-1) [Annonciation d’après le Titien] Huile sur toile / Oil on canvas 125 x 200 cm Hirshhorn Museum and Sculpture Garden, Smithsonian Institution, Washington DC, Joseph H. Hirshhorn Purchase Fund, 1994 © Gerhard Richter 2025 (18102025)

Gerhard Richter, Birkenau, 2014 (CR 937-4) Gerhard Richter Birkenau, 2014 (CR 937-4) Huile sur toile / Oil on canvas 260 x 200 cm Neue Nationalgalerie, Stiftung Preußischer Kulturbesitz, Berlin, prêt de la / loan from Gerhard Richter Art Foundation © Gerhard Richter 2025 (18102025)

Gerhard Richter, Apfelbäume [Appletree], 1987 (CR 650-1) Gerhard Richter, Apfelbäume [Appletree], 1987 (CR 650-1) Oil on canvas, 67 x 92 cm Private collection © Gerhard Richter 2025 (18102025)

Gerhard Richter, Strip, 2011 (CR 921-2) Gerhard Richter Strip, 2011 (CR 921-2) Impression numérique sur papier entre aluminium et Perspex (Diasec) / Digital print on paper between aluminium and Perspex (Diasec) 200 x 440 cm Fondation Louis Vuitton, Paris Photographe : Louis Bourjac © Gerhard Richter 2025 (18102025)

 Gerhard Richter, Selbstportrait, 1996 (CR 836-1) Gerhard Richter Selbstportrait, 1996 (CR 836-1) [Autoportrait] Huile sur lin / Oil on linen 51 x 46 cm The Museum of Modern Art, New York. Gift of Jo Carole and Ronald S. Lauder and Committee on Painting and Sculpture Funds, 1996 © Gerhard Richter 2025 (18102025)

Dimenticata, riscoperta e oggi celebrata a Parigi, Vivian Suter si racconta con dipinti tropicali

Exhibition view, Vivian Suter, "Disco", Palais de Tokyo (Paris), 12.06-07.09.2025  Copyright Vivian Suter Courtesy of Karma International, Zurich; Gladstone, New York / Bruxelles / Séoul; Gaga, Mexico DF; Proyectos Ultravioleta, Guatemala City Photo credit: Aurélien Mole

Una saga familiare che dall’800 conduce fino ai giorni nostri attraverso vicende che si svolgono in due continenti, mentre, sullo sfondo, si consumano guerre e persecuzioni ma anche amori e ambizioni; il rapporto strettissimo e sottilmente conflittuale tra una madre e una figlia, entrambe artiste, che continuano a esporre insieme anche dopo la scomparsa della prima; una pittrice dimenticata e in bolletta insofferente alle convenzioni sociali, che sta per vendere la casa proprio quando viene riscoperta e raggiunge il successo. Potrebbe sembrare la trama inverosimile e un po’ ingenua di uno scrittore d’altri tempi e invece è la storia, tutt’altro che romanzata, dell’artista argentino-svizzera Vivian Suter, oggi celebrata come proto-ambientalista dopo aver passato decenni a dipingere per se stessa in un giardino tropicale caotico ricavato in una ex-piantagione di caffè in Guatemala.

In questi mesi Vivian Suter è protagonista della grande mostra “Disco” (il nome non ha a che fare con dj o luci stroboscopiche ma è quello di uno dei suoi cani) al museo d’arte contemporanea, Palais de Tokyo di Parigi. Dove i dipinti gestuali, dagli accesi colori tropicali, rigorosamente non incorniciati invadono l’ampia superficie delle sale appesi in blocco su stenders metallici, sospesi al soffitto, adagiati per terra, o fissati alle pareti in modo apparentemente casuale fino a sovrapporsi l’un l’altro.

L'allestimento è molto empirico- ha detto il curatore François Piron- Avevamo un piano, ma non lo abbiamo seguito. Abbiamo solo rispettato alcune regole: doveva essere denso, doveva occupare l'intera superficie delle pareti dall'alto al basso e doveva esserci un'ampia gamma di contrasti”. Le opere inoltre sono illuminate dalla luce naturale, e in mostra è presente anche un nutrito gruppo di acquerelli della scomparsa madre della pittrice (Elisabeth Wild, che era un’artista a propria volta).

Il Palais de Tokyo è una sede prestigiosa, ma da quando il curatore polacco Adam Szymczyk (nel 2011) ripescò il lavoro dimenticato da un trentennio della signora Suter (includendolo in diverse mostre e nel 2017 nella quattordicesima edizione di Documenta di Kassel), la sua carriera ha il vento in poppa. Tra i musei in cui è stata solista ci sono ad esempio: la Tate Liverpool, il museo Reina Sofia di Madrid e, in Italia, la Gamec di Torino.

Exhibition view, Vivian Suter, "Disco", Palais de Tokyo (Paris), 12.06-07.09.2025  Copyright Vivian Suter Courtesy of Karma International, Zurich; Gladstone, New York / Bruxelles / Séoul; Gaga, Mexico DF; Proyectos Ultravioleta, Guatemala City Photo credit: Aurélien Mole

I collage laboriosi e precisi della madre sono in genere parte del pacchetto: le due donne per parecchi anni, e fino alla scomparsa della signora Wild (avvenuta nel 2020 quando aveva 97 anni), hanno abitato nella stessa ex-piantagione di caffè ed erano molto legate (tanto che i curatori tendono ad esporle insieme per rendere comprensibile il loro percorso agli spettatori).

Tuttavia, l’affetto e il sentire condiviso, non vuol dire che artisticamente fossero sovrapponibili. Quello tra loro è anzi un confronto fatto di macro-differenze che nascondono centinaia di minute consonanze. La signora Suter anche recentemente ha ricordato: “A volte spostavo un piccolo dettaglio (nei collage della madre ndr) quando non guardava, ma lei lo notava sempre immediatamente!

Resta il fatto però che tutt’e due abbiano dovuto adottare simili stratagemmi nel lungo periodo di ristrettezze economiche (Suter ha cominciato a usare colla di pesce e colori da rigattiere che trovava nei mercati della zona, mentre Wild si faceva regalare le riviste per fare i suoi collages) e che la loro vita sia stata sballottata da un continente all’altro dalla stessa, potente, ondata di marea.

Infatti, sebbene la passione per l’arte fosse molto più antica di entrambe (sia la nonna che la bisnonna della signora Suter dipingevano), la storia di fughe e drastici cambiamenti della famiglia ha origine proprio nella biografia di Elisabeth Pollack Wild. Che, nata a Vienna nel ’22 da una cattolica e un ebreo, dovette emigrare in Argentina ancora adolescente per sfuggire alle persecuzioni naziste. Lì completò gli studi artistici e sposò l’industriale tessile August Wild e nel ’49 mise al mondo Vivian.

Tuttavia, il clima politico nel paese sudamericano era in rapido cambiamento, e quando il regime di Peron decise di nazionalizzare le aziende private, la famiglia Wild tornò in Europa. Non in Austria: per esorcizzare i fantasmi del passato scelsero Basilea in Svizzera. Vivian Suter allora aveva dodici anni e si adattò bene al nuovo contesto.

Exhibition view, Collages by Elisabeth Wild in "Disco", Vivian Suter. Palais de Tokyo (Paris), 12.06-07.09.2025

Studia arte; negli anni ’70 già partecipa a una collettiva e nell’81 viene addirittura inserita in una mostra nel museo d’arte contemporanea di Basilea. Nel frattempo però coltiva una crescente insofferenza per l’ambiente sociale dell’epoca (è timida e le pubbliche relazioni non le vanno giù). Ma soprattutto conosce e sposa, Martin Suter (che sarebbe diventato un famoso scrittore). Artisticamente decide di prenderne il cognome, ma il matrimonio non è altrettanto durevole: divorzia.

A questo punto parte per un viaggio alla scoperta dei siti archeologici mesoamericani; e un giorno raggiunge la cittadina di Panajachel, sulla sponda nord-orientale del lago Atitlán in Guatemala. Ci arriva per caso, all’inizio degli anni ’80, quando il Paese era immerso in una sanguinosa guerra civile che si sarebbe conclusa solo nel decennio successivo. “Nessuno- ha raccontato- mi aveva detto che c’era una guerra in corso”.

Fatto sta che rimane folgorata dalla bellezza del lago: si trasferisce lì, compra casa, si innamora e fa un figlio (lui oggi è un musicista e ha preso il cognome della nonna: si chiama Franck Wild). Non molto tempo dopo la raggiunge la madre.

Copyright Vivian Suter. Courtesy of the artist and Karma International, Zurich; Gladstone Gallery, New York and Brussels; House of Gaga, Mexico City and Los Angeles; and Proyectos Ultravioleta, Guatemala City. Photo credit: Flavio Kerrer

La signora Suter attraversa indenne la guerra civile guatemalteca ma non è così fortunata quando (nei primi anni duemila) degli eventi metereologici estremi colpiscono la zona: è un disastro, acqua e fango si abbattono sulla ex-piantagione di caffè e rovinano tutto, inclusi i dipinti dell’artista.

Quello però per lei è anche il momento della svolta: “All'epoca la consideravo semplicemente una catastrofe- ha raccontato in un’intervista rilasciata qualche anno fa- ma man mano che le opere si asciugavano, i colori hanno cominciato a emergere e ho capito che dovevo iniziare a lavorare con la natura e non contro di essa”.

Da allora dipinge tutti i giorni all’aperto (sia con il sole che sotto la pioggia). E non solo non cerca di ricoverare le opere ma le espone volontariamente agli elementi e al caso (mette le tele ad asciugare per terra, in vari punti del giardino, o le appende in un angolo senza curarsene). Talvolta si serve volontariamente di elementi organici (come l’acqua piovana e certe piante), ma più spesso sono loro a entrare a far parte dei lavori: come le foglie che cadendo si attaccano alla colla con cui impregna la superficie delle tele, la terra che incrosta qua e là il pigmento, o le impronte che i suoi cani, ogni tanto, lasciano sulla pittura fresca.

I dipinti (sempre senza data e titolo) sono un susseguirsi di pennellate veloci, spesse, gestuali, molto espressive; da cui emergono forme semplici come cerchi o onde, foglie e fiori stilizzati. Complessi nella tessitura e nello stratificarsi della materia mentre i colori colano, si spandono e lottano per prendere il sopravvento o semplicemente si adagiano pigri in forme seminali. Cromaticamente sono ricchi, a momenti allegri; qualcuno li ha definiti “un distillato di tropici”. La signora Suter invece ha detto: “Dipingo principalmente la natura, come foglie, alberi, rami e frutta. Mi piace anche dipingere i suoni. Quando sono fuori in giardino, sento i suoni del paese: la chiesa, gli uccelli, i cani...

Disco” di Vivian Suter (con ben 500 opere esposte) è una personale completa, al limite della retrospettiva, anche se le tele non sono disposte in ordine cronologico (impresa per altro impossibile, visto che la stessa artista non è in grado di capire precisamente a quando risalgano). Rimarrà al PalaPalais de Tokyo di Parigi fino al 7 settembre 2025.

Copyright Vivian Suter. Courtesy of the artist and Karma International, Zurich; Gladstone Gallery, New York and Brussels; House of Gaga, Mexico City and Los Angeles; and Proyectos Ultravioleta, Guatemala City. Photo credit: Sebastian Lendenmann

Exhibition view, Vivian Suter, "Disco", Palais de Tokyo (Paris), 12.06-07.09.2025  Copyright Vivian Suter Courtesy of Karma International, Zurich; Gladstone, New York / Bruxelles / Séoul; Gaga, Mexico DF; Proyectos Ultravioleta, Guatemala City Photo credit: Aurélien Mole

Copyright Vivian Suter. Courtesy of the artist and Karma International, Zurich; Gladstone Gallery, New York and Brussels; House of Gaga, Mexico City and Los Angeles; and Proyectos Ultravioleta, Guatemala City. Photo credit: Flavio Kerrer

Exhibition view, Vivian Suter, "Disco", Palais de Tokyo (Paris), 12.06-07.09.2025  Copyright Vivian Suter Courtesy of Karma International, Zurich; Gladstone, New York / Bruxelles / Séoul; Gaga, Mexico DF; Proyectos Ultravioleta, Guatemala City Photo credit: Aurélien Mole

Copyright Vivian Suter. Courtesy of the artist and Karma International, Zurich; Gladstone Gallery, New York and Brussels; House of Gaga, Mexico City and Los Angeles; and Proyectos Ultravioleta, Guatemala City. Photo credit: Flavio Kerrer

Exhibition view, Vivian Suter, "Disco", Palais de Tokyo (Paris), 12.06-07.09.2025  Copyright Vivian Suter Courtesy of Karma International, Zurich; Gladstone, New York / Bruxelles / Séoul; Gaga, Mexico DF; Proyectos Ultravioleta, Guatemala City Photo credit: Aurélien Mole

Exhibition view, Vivian Suter, "Disco", Palais de Tokyo (Paris), 12.06-07.09.2025  Copyright Vivian Suter Courtesy of Karma International, Zurich; Gladstone, New York / Bruxelles / Séoul; Gaga, Mexico DF; Proyectos Ultravioleta, Guatemala City Photo credit: Aurélien Mole

Exhibition view, Collages by Elisabeth Wild in "Disco", Vivian Suter. Palais de Tokyo (Paris), 12.06-07.09.2025

Exhibition view, Vivian Suter, "Disco", Palais de Tokyo (Paris), 12.06-07.09.2025  Copyright Vivian Suter Courtesy of Karma International, Zurich; Gladstone, New York / Bruxelles / Séoul; Gaga, Mexico DF; Proyectos Ultravioleta, Guatemala City Photo credit: Aurélien Mole

Exhibition view, Vivian Suter, "Disco", Palais de Tokyo (Paris), 12.06-07.09.2025  Copyright Vivian Suter Courtesy of Karma International, Zurich; Gladstone, New York / Bruxelles / Séoul; Gaga, Mexico DF; Proyectos Ultravioleta, Guatemala City Photo credit: Aurélien Mole

Exhibition view, Vivian Suter, "Disco", Palais de Tokyo (Paris), 12.06-07.09.2025  Copyright Vivian Suter Courtesy of Karma International, Zurich; Gladstone, New York / Bruxelles / Séoul; Gaga, Mexico DF; Proyectos Ultravioleta, Guatemala City Photo credit: Aurélien Mole

Vivian Suter Portrait, Guatemala City. Photo credit: Flavio Kerrer