La grande ed attesa retrospettiva di Jack Whitten al Moma sta per concludersi. Ma quando sarà possibile ammirare le sue opere in Europa?

“9.11.01” installato in una sala del Moma. Installation view of Jack Whitten: The Messenger, on view at The Museum of Modern Art, New York, from March 23 through August 2, 2025. Photo: Jonathan Dorado.

L’ 11 settembre del 2001, Jack Whitten era di fronte al suo palazzo a Lispenard (nel quartiere di Tribeca a New York), che aveva ristrutturato da solo dopo un incendio e che stava vendendo. Era alle prese con i pompieri e una fuga di gas, quando un aereo basso e dalla traiettoria instabile sfrecciò sopra la sua testa. Quel giorno insieme a loro c’era anche un uomo con una telecamera, che stava girando un documentario sui vigili del fuoco, così, quando tutti alzarono gli occhi al cielo e videro il primo aereo schiantarsi sul World Trade Center (poco lontano), il signor Whitten rimase nell’inquadratura che venne trasmessa nei notiziari di tutto il mondo. In seguito, tutto ciò che caratterizza quelle iniziali immagini dell’attacco (il cielo di porcellana, i riflessi di vetro e acciaio nella luce viva di fine estate, le ombre scure, il fumo, le fiamme, la polvere, il nero della tragedia) confluirono nel suo maestoso “9.11.01”. Tre metri per sei di dipinto, realizzato a mosaico con tessere di colore acrilico tagliate e riassemblate a mano, oltre ad altri materiali improbabili e pionieristici (come ceneri dell’attentato stesso e sangue).

Adesso “9.11.01” è esposto insieme ad altre oltre 175 opere dell’artista afroamericano allo Steven and Alexandra Cohen Center for Special Exhibitions del Museum of Modern Art di New York. La mostra, intitolata “Jack Whitten: the Messenger”, si dipana tra gli esordi (negli anni ’60) fin quasi alla sua morte (arriva al 2010 mentre il signor Whitten è mancato nel 2018). Presentando, oltre ai dipinti, anche sculture, lavori su carta e materiali d’archivio. Quella del Moma è la prima retrospettiva importante a lui dedicata ed era davvero molto attesa. Tanto che il New York Times l’ha inserita nell’elenco delle migliori mostre del 2025 (secondo loro undici in tutto, comprese quelle di Caravaggio, Caspar David Friedrich e Piet Mondrian).

9.11.01” è uno dei capolavori dell’esposizione. Del resto l’evento lo colpì talmente che, quando venne a sapere che i pompieri con cui aveva parlato alla mattina (poi corsi sul luogo del disastro) erano sopravvissuti, scoppiò a piangere. Tuttavia quello non è stato l’unico cambiamento epocale a cui aveva assistito nella sua non lunghissima vita.

Jack Whitten. Atopolis: For Édouard Glissant. 2014. Acrylic on canvas, 8 panels, overall 124 1/2 × 248 1/2″ (316.2 × 631.2 cm). The Museum of Modern Art, New York. Acquired through the generosity of Sid R. Bass, Lonti Ebers, Agnes Gund, Henry and Marie-Josée Kravis, Jerry Speyer and Katherine Farley, and Daniel and Brett Sundheim. © 2025 The Museum of Modern Art, New York, Photo by Jonathan Muzikar.

Nato nel ’39 a Bessemer in Alabama, proprio nel cuore del sud segregazionista degli Stati Uniti di allora, Jack Whitten, ebbe modo di vedere fin troppe violenze ed ingiustizie durante l’infanzia. In merito ha, ad esempio, raccontato: “Per tutto il liceo e le medie (scuole con insegnanti di colore e alunni di colore ndr), quando ci portavano in gita scolastica, non ci portavano mai al museo perché era off-limits per i neri. Ci portavano alle acciaierie e alle miniere di carbone, ma mai ai musei”. Oppure: “in Alabama, l'estate era calda, umida, disgustosamente calda. Una delle cose più difficili per noi bambini era passare davanti alla piscina, di proprietà comunale, pagata con i soldi dei contribuenti, e vedere ragazzi bianchi che nuotavano, mentre noi non potevamo entrare. Era dura. Era dura. Persino il parco pubblico (la piccola area ombreggiata con gli alberi, con una fontana al centro) potevamo attraversarlo a piedi, ma non ci si poteva sedere all’ombra e Dio non voglia che si andasse alla fontana”.

Forse per questo, dopo essersi iscritto a medicina nel college di Tuskegee in Alabama (in quel periodo aveva anche sentito parlare Marthin Luther King) e aver lasciato per studiare arte alla Southern University di Baton Rouge in Luisiana (entrambe università per soli neri), fu tra gli organizzatori di una delle prime marce per i diritti civili degli afroamericani. Evento che, avrebbe detto in seguito, per lui fu uno spartiacque: “Per me c’è stato un prima e un dopo”. Infatti, nonostante credesse fermamente nelle proteste non violente, l’atteggiamento della gente che aveva assistito a quella manifestazione era stato talmente aggressivo (“buttavano di tutto dalle finestre-ha ricordato una volta- la gente imprecava, ti picchiava”) da spingerlo a tagliare i ponti con il passato e trasferirsi a New York (dove continuò i suoi studi d’arte alla Cooper Union; un’università finalmente rivolta a tutti).

Lì il signor Whitten, prima da studente e poi da giovane esordiente, fece di tutto per mantenersi (dal manovale all’insegnante) mentre frequentava jazz clubs ed entrava in contatto con la vivace scena artistica newyorkese degli anni ’60 (tra gli altri conobbe: Wayne Thiebaud, Andy Wharol, che non gli era simpatico, Roy Lichtenstein, che invece stimava, e poi gli astrattisti della prima generazione come Willem de Kooning, Franz Kline, Barney Newman e Mark Rotko, oltre ai neri Romare Bearden, Jacob Lawrence e Norman Lewis; anni dopo avrebbe frequentato anche altri artisti molto diversi da lui come Jean Michael Basquiat, Nam June Paik e David Hockney).

Jack Whitten. Birmingham 1964. 1964. Aluminum foil, newsprint, stocking and oil on board, 16 5/8 x 16″ (42.2 x 40.6 cm). Collection of Joel Wachs. © Photo by John Berens, Courtesy the Jack Whitten Estate and Hauser & Wirth.

Stilisticamente (dopo l’amore per il Rinascimento italiano), sulle prime coltivò soprattutto l’affinità con Gorky e de Kooning. Faceva cose che lui stesso ha descritto come “un espressionismo figurativo astratto”, ma non ci mise molto a dedicarsi completamente all’astrattismo. Il suo però era un linguaggio diverso da quello dei suoi predecessori bianchi o neri che fossero, pionieristico e sperimentale. Sempre artigianale, perché credeva nella “trasmigrazione dello spirito” dall’artista alla materia. Caratterizzato da una ricerca incessante sui colori e gli strumenti, che a livello concettuale si tingeva di mille sfaccettature (tante quante i suoi interessi; che andavano dalla scienza, alla tecnologia, alla letteratura, alla filosofia, fino all’attualità e alla musica, in particolare il Jazz).

Il Moma nel presentare la sua mostra ha scritto: è “una storia rivelatrice dell'esplorazione dell'artista su razza, tecnologia, jazz, amore e guerra”.

Ma non ebbe vita facile: gli altri gli facevano pressione affinchè abbracciasse la figurazione come forma di attivismo. Però non desistette. Anzi, praticamente ad ogni decennio d’attività del signor Whitten, corrisponde una nuova tecnica (ma sempre astratta). Usava ogni volta l’acrilico di cui divenne un esperto (allora erano colori utilizzati in arte da poco tempo).

Detail of Jack Whitten. Four Wheel Drive. 1970. Acrylic on canvas, 98 1/4 × 98 1/4″ (249.6 × 249.6 cm). Private collection. © Jack Whitten Estate. Courtesy the Estate and Hauser & Wirth, Photo by Genevieve Hanson.

Negli anni ’70 stendeva spessi strati di pittura che sovrapponeva; in alcune colate ritardava più o meno l’asciugatura delle vernici; e poi con un grande strumento a T (che si era fatto da solo) raschiava tutto in un unico gesto. Si trattava di un processo immediato, tuttavia, lui disponeva strategicamente sotto la tela oggetti dalla diversa grana, forma e peso, in modo da controllare la quantità di pigmento che sarebbe stata portata via in un punto o nell’altro.

Ma Jack Whitten era anche capace di fare colori da zero usando polveri di ogni tipo e un legante acrilico. A volte mischiava tutto con un mixer da cucina, altre stendeva strani prodotti concepiti per usi industriali che non permettevano a niente di attaccarsi.

Detail of Jack Whitten. Atopolis: For Édouard Glissant. 2014. Acrylic on canvas, 8 panels, overall 124 1/2 × 248 1/2″ (316.2 × 631.2 cm). The Museum of Modern Art, New York. Acquired through the generosity of Sid R. Bass, Lonti Ebers, Agnes Gund, Henry and Marie-Josée Kravis, Jerry Speyer and Katherine Farley, and Daniel and Brett Sundheim. © 2025 The Museum of Modern Art, New York, Photo by Jonathan Muzikar.

Sua moglie era di origine greca e, durante un viaggio nelle isole elleniche in cui lei cercava le proprie radici e lui un albero che aveva visto in sogno, scoprì i mosaici. Per tutti gli anni ’90 ne avrebbe fatti incessantemente, usando però tessere di colore acrilico invece che di pietra (spesso per frantumarlo meglio prima lo congelava, se doveva riutilizzare le rimanenze lo polverizzava con un mortaio). Le sue tessere, disposte in modi sempre diversi, a volte richiamano dei pixel, altre frazioni di materia, altre un caos armonico, altre ancora costellazioni.

Aveva un debole per i memoriali, che dedicò a persone di colore ma anche bianche, o più raramente ad eventi storici (è il caso di “9.11.01”).

Jack Whitten. The Afro American Thunderbolt. 1983/1984. Black mulberry wood with copper plate and nails, 25 × 9 × 10″ (63.5 × 22.9 × 25.4 cm). Jack Whitten Estate. Courtesy the Estate and Hauser & Wirth. © Jack Whitten Estate. Courtesy the Estate and Hauser & Wirth, Photo by Genevieve Hanson.

Nel frattempo, quando durante l’estate si trasferiva nello studio che aveva comprato a Creta (dopo quel primo viaggio in cui erano approdati proprio lì, e dove lui aveva davvero trovato l’albero del suo sogno, la famiglia Whitten aveva continuato ad andarci), creava sculture che coniugavano l’arte dell’antico Mediterraneo a quella africana, oltre a servirsi di materiali bizzarri (come vecchi chip per computer).

Per quanto Jack Whitten abbia influenzato artisti molto noti in Europa, ha una storia espositiva principalmente centrata negli Stati Uniti e non sembra che la cosa sia destinata a cambiare a breve. La grande retrospettiva a lui dedicata, “Jack Whitten: the Messenger”, curata da Michelle Kuo (curatrice capo ed editor del Dipartimento di pittura e scultura) al Moma di New York, si concluderà il 2 agosto 2025.

Jack Whitten. Siberian Salt Grinder. 1974. Acrylic on canvas, 6’8″ x 50″ (203.2 x 127 cm). The Museum of Modern Art, New York. Nina and Gordon Bunshaft Fund and The Friends of Education of The Museum of Modern Art. © 2025 The Museum of Modern Art, New York, Photo by John Wronn.


Jack Whitten. Mirsinaki Blue. 1974. Acrylic on canvas, 62 1/8 × 72 1/8″ (157.8 × 183.2 cm). Collection of the Herbert F. Johnson Museum of Art, Cornell University. Gift of Leonard and Ruth Bocour. © 2024 Herbert F. Johnson Museum of Art, Cornell University.

Jack Whitten. Liquid Space I. 1976. Acrylic slip on paper, 20 5/8 x 20 5/8″ (52.4 x 52.4 cm). The Museum of Modern Art, New York. Purchased with funds provided by Dian Woodner in honor of The Friends of Education of The Museum of Modern Art. © 2025 The Museum of Modern Art, New York, Photo by Peter Butler.

Installation view of Jack Whitten: The Messenger, on view at The Museum of Modern Art, New York, from March 23 through August 2, 2025. Photo: Jonathan Dorado.

Installation view of Jack Whitten: The Messenger, on view at The Museum of Modern Art, New York, from March 23 through August 2, 2025. Photo: Jonathan Dorado.

Portrait of Jack Whitten with Pink Psyche Queen (1973), ca. 1975 © Jack Whitten Estate. Courtesy the Estate and Hauser & Wirth.

Con “Seasons” Maurizio Cattelan si interroga sui corsi e ricorsi storici e reinventa i cari vecchi monumenti

GAMeC, Pensare come una montagna, Maurizio Cattelan. Seasons. Bergamo 2025. Photo: Lorenzo Palmieri

Per quanto “Seasons” di Maurizio Cattelan, presentata come mostra diffusa dalla Gamec (Galleria di Arte Moderna e Contemporanea) di Bergamo che l’ha organizzata, non sia una vera e propria personale, è forse una delle esposizioni più belle dell’artista da un po’ tempo a questa parte. In cui, abbandonate le provocazioni, si concentra sulle stagioni della Storia legandole al mutare dei sentimenti umani attraverso le generazioni. Riuscendo ad accennare alla nascita delle nazioni ed alla caduta degli imperi, come a soffermarsi sulla tensione tra individuo e collettività, mentre è intento a rileggere (e in maniera radicale) i cari vecchi, talvolta discutibili, monumenti.

Seasons” si compone di cinque opere soltanto che conducono lo spettatore in giro per Bergamo. Dal Palazzo della Ragione alla Gamec, dall’Ex- Oratorio di San Lupo alla rotonda Dei Mille; da Bergamo alta a Bergamo bassa. Ma si tratta di una manciata di lavori di peso. Tutti recenti, se non recentissimi, e uno tra loro è un intervento site specific del signor Cattelan, realizzato appositamente per questo appuntamento (che non è nemmeno l’unico da segnalare visto che nel capoluogo c’è anche la performance della famosa danzatrice, coreografa e artista, argentina, Cecilia Bengolea; mentre in provincia sono previste diverse mostre).

Il format della mostra diffusa non è nuovo, fa bene al turismo e gli enti sono ben disposti a sostenerlo. Ma, in genere, nessuno mette in fila i capolavori di un artista record d’asta, tra l’altro poco tempo dopo che una sua opera abbia risollevato una stagione commerciale fiacca, suscitato interesse in tutto il mondo. Infatti, il sindaco della città, Elena Carnevali, ha detto: “Bergamo dimostra di saper abitare il presente internazionale”, anche se è probabile che in gran parte il merito di questa spettacolare mostra, che proietta effettivamente il comune lombardo sulle rotte artistiche internazionali, sia dello storico dell’arte e curatore, Lorenzo Giusti, attualmente al timone della Gamec (ha un curriculum piuttosto importante, che conta, tra le altre cose, collaborazioni con la Biennale di Venezia, Palazzo Strozzi di Firenze e la fiera Artbasel).

Maurizio Cattelan, nato a Padova nel 1960 da una famiglia economicamente svantaggiata (il padre faceva il camionista la madre pulizie), non ha studiato arte ma ha imposto la sua opera piuttosto in fretta sulla scena internazionale (ha detto:"fare mostre è stata la mia scuola"). E’ conosciuto per l’ironia dissacrante e il linguaggio immediato ed innovativo. All’inizio, anche profondamente provocatorio (nel’ 92, ad esempio, creò una fondazione allo scopo di raccogliere denaro per una borsa di studio che sarebbe dovuta andare ad un artista disposto a non realizzare o esporre opere per un anno; mise insieme 10mila dollari e li usò per fare una lunga vacanza a New York; città in cui più o meno da quel momento vive per gran parte dell’anno).

Nonostante abbia più volte dichiarato di non trarre ispirazione dall’attualità il suo lavoro fa immediatamente pensare al presente. Tanto che in una recente intervista ha affermato: “Sebbene tutte le mie opere non si ispirano mai al presente, almeno non in modo esplicito, alla fine arrivano tutte a raccontarlo, arrivano tutte lì. È inevitabile.” Il signor Cattelan ha anche saputo rinnovarsi costantemente nel corso della sua carriera pur rimanendo sempre fedele a se stesso. Ha anche dimostrato cautela e lungimiranza sia nell’affrontare il mercato che nel gestire la propria immagine pubblica. Di recente si è parlato molto di lui in tutto il mondo quando “Comedian(una banana attaccata con il nastro adesivo ad una parete e venduta con un libretto di istruzioni incredibilmente lungo e dettagliato per poterla replicare al deperimento del frutto) è stata battuta all’asta per oltre sei milioni di dollari. Pur non essendo certo la prima volta che le sue sculture superavano il milione (ad esempio “Him” venne acquistato per oltre 17 milioni non molti anni fa) il carattere essenziale di “Comedian” e il periodo difficile in cui versa il mercato dell’arte, hanno contribuito a fare dell’opera un’icona.

Quando gli è stato chiesto cosa gli passasse per la testa mentre da Sotheby’s abbassavano il martello lui ha risposto: “Uno dei miei più grandi rimpianti come artista è di non saper dipingere (…) Quindi attaccare quella banana al muro... è stato il mio modo di dire che questo è il mio dipinto”.

GAMeC, Pensare come una montagna, Maurizio Cattelan. Seasons. Bergamo 2025. Photo: Lorenzo Palmieri

A Bergamo non c’è “Comedian” ma altri lavori che dall’apparente semplicità scivolano imprevedibilmente nella complessità concettuale. Ad esempio, “Empire” in cui un mattone, con incisa sopra appunto la parola ‘empire’, se ne sta imprigionato all’interno di una bottiglia di vetro: il cortocircuito tra i due materiali allude a costrizione e controllo, fragilità e solidità; mentre la forma fa pensare a messaggi attuali da epoche lontane e ad una riflessione sul concetto di limite e sulle idee di espansione e potere.

GAMeC, Pensare come una montagna, Maurizio Cattelan. Seasons. Bergamo 2025. Photo: Lorenzo Palmieri

Pensieri che riecheggiano nell’aquila esanime in marmo bianco collocata in un altra sede. Quest’ultima ritratta con le ali spiegate e nell’atto di stringere qualcosa in una zampa ma stesa a terra con gli occhi chiusi, è, in sintesi, un simbolo di potere privo di vita ma anche una rilettura radicale di un certo tipo di scultura celebrativa. Un’opera poetica e malinconica in cui la caduta personale e collettiva sembrano l’unica, amara, conclusione possibile all’avidità. L’opera, che è pure possibile leggere in maniera ecologista (malgrado questo tema non sia mai stato caro al signor Cattelan), si intitola “Bones”, come la sua mostra personale conclusasi di recente nella sede londinese di Gagosian.

GAMeC, Pensare come una montagna, Maurizio Cattelan. Seasons. Bergamo 2025. Photo: Lorenzo Palmieri

In quella mostra comparivano dei quadri placcati in oro e bucati da alcuni colpi di arma da fuoco, che l’artista aveva presentato per la prima volta lo scorso anno a New York (sempre da Gagosian ma in un’enorme versione multi-pannello trivellata di proiettili durante una performance aperta a pochi vip), proprio quando aveva esposto per la prima volta “November”. Quest’ultima è ora esposta a Bergamo. Si tratta di nuovo di una scultura in marmo bianco, anzi di una fontana monumentale, in cui un uomo sdraiato su una panchina, con una mano sugli occhi per continuare a dormire, fa pipì per terra. Omaggio all’amico e collaboratore storico dell’artista, Giorgio Zotti, è stata descritta dallo stesso signor Cattelan come “un monumento alla marginalità”, anche se intende più che altro essere una scultura commemorativa per un amico, ritratto in un modo inusuale (di nuovo rileggendo un genere artistico senza pietà per le convenzioni). Sottolineando la distanza che separa le persone dal ricordo che ci viene tramandato dall’arte.

GAMeC, Pensare come una montagna, Maurizio Cattelan. Seasons. Bergamo 2025. Photo: Lorenzo Palmieri

No” (2021) interrompe momentaneamente queste considerazioni (non a caso è esposto in una sede diversa) per concentrarsi sull’immagine manipolatoria ed ingannevole del potere, oltre a spingerci a riflettere sulle sue forme di comunicazione e sulla censura. L’opera, infatti, è una reinterpretazione di “Him” (l’Hitler compunto e dall’aria angelica ideato nel 2001) che il signor Cattelan è stato indotto a creare in occasione di una personale a Pechino, dove gli era stato chiesto di non mostrare il volto del fuhrer. Così in “No” porta una busta di carta in testa, come un personaggio dei cartoni animati in cui gli spettatori possono proiettare ansie, o immaginarlo con le fattezze di qualcuno che conoscono.

GAMeC, Pensare come una montagna, Maurizio Cattelan. Seasons. Bergamo 2025. Photo: Lorenzo Palmieri

L’installazione ideata da Maurizio Cattelan appositamente per “Seasons” è una scultura iperrealista policroma posta sulle spalle del monumento ottocentesco a Giuseppe Garibaldi. Si intitola “One” e rappresenta un bambino che con le dita finge di sparare in aria. La statua guarda di fronte a se con un’espressione risoluta e vagamente divertita, a differenza del gigantesco Garibaldi in bronzo su piedistallo che comunica ben poche emozioni. L’opera, descritta così dagli organizzatori dell’evento: “apre a una doppia prospettiva: pubblica e personale. Da un lato, è un intervento che stimola un confronto con il passato nazionale; dall’altro, racconta la relazione tra generazioni”. Mentre in un’intervista l’artista ha spiegato: “Giuseppe Garibaldi, oggi considerato eroe della patria, in passato è stato anche una figura temuta, un personaggio che incuteva timore. Mi affascinava indagare come il tempo cambia la percezione delle cose”. In qualche modo “One” è anche un monumento a tutti gli eroi senza nome e un’affermazione della latente contrapposizione tra individuo e collettività.

Qui però il signor Cattelan fa una cosa molto interessante: cambia completamente il significato di una scultura del passato. E in un periodo in cui lo spazio pubblico è stato messo sotto accusa passando per i propri monumenti (troppi uomini, troppo bianchi, alcuni dalla biografia discutibile per l’attuale sensibilità), l’idea potrebbe permettere di risolvere molti problemi.

Seasons” di Maurizio Cattelan resterà a Bergamo fino al 26 ottobre 2025.

GAMeC, Pensare come una montagna, Maurizio Cattelan. Seasons. Bergamo 2025. Photo: Lorenzo Palmieri

GAMeC, Pensare come una montagna, Maurizio Cattelan. Seasons. Bergamo 2025. Photo: Lorenzo Palmieri

GAMeC, Pensare come una montagna, Maurizio Cattelan. Seasons. Bergamo 2025. Photo: Lorenzo Palmieri

“The Hollow Men”, la personale macabra e futuristica di Giulia Cenci a Palazzo Strozzi

Giulia Cenci, “The Hollow Men”, Palazzo Strozzi. Firenze, 2025. Exhibition view. Photo: ©Ela Bialkowska OKNO studio

Delle figure metalliche fatte di ossa (in realtà un solo osso; l’osso ioide ripetuto più e più volte), con teste canine disarticolate, danzano intorno a una trivella. Forse lo fanno perché quella è la loro religione, o perché stanno celebrando un culto oscuro; chissà. Quel che è certo è che ricordano un po' Terminator e un’era ormai lontana del cinema fantascientifico, sono anche simili a cartoni animati pre-digitali o a inquietanti dipinti medioevali, eppure fanno pensare al futuro. Ed è proprio in questo mix di storia dell’arte (e delle immagini in generale), considerazioni sul presente e suggestioni futuristiche, che sta il fascino della scultura di Giulia Cenci.

Nata nell’88 a Cortona (a sud della Toscana), dov’è tornata a vivere e ha stabilito il suo laboratorio dopo aver studiato a Bologna ed essersi affinata in Olanda, la signora Cenci ha recentemente inaugurato il nuovo spazio espositivo, Project Space, all’interno di Palazzo Strozzi di Firenze, con una sua personale intitolata “The Hollow Men”.

Il Project Space, riservato ad artisti già relativamente affermati ma molto meno delle star che espongono al piano nobile (in questo momento, per fare un esempio, lì c’è Tracey Emin, cui seguirà un tuffo nel passato con Beato Angelico), ha una posizione privilegiata perché vi si accede direttamente dal cortile del palazzo rinascimentale. E si affianca a quest’ultimo, alla Strozzina (cioè all’antica cantina) e al già menzionato piano nobile, nel carnet di offerte espositive del museo fiorentino.

Con il nuovo Project Space - ha dichiarato il curatore e direttore della Fondazione Palazzo Strozzi, Arturo Galansino- apriamo a Palazzo Strozzi un nuovo spazio di riflessione e produzione per il contemporaneo. Inaugurare questo spazio con un progetto di Giulia Cenci significa affermare l’urgenza di una pratica che unisce profondità concettuale e potenza visiva, in cui la materia artistica diventa espressione della condizione contemporanea”.

Giulia Cenci però a Palazzo Strozzi aveva già esposto. Era, infatti, una degli oltre 50 artisti collezionati da Patrizia Sandretto Re Rebaudengo le cui opere hanno composto la collettiva del 2023 “Reaching for the stars. La più giovane, in mezzo a colleghi famosi come Maurizio Cattelan, Tracey Emin o Damien Hirst. Del resto la signora Cenci ha dichiarato di aver trovato il sostegno della signora Sandretto Re Rebaudengo fin dagli esordi della sua carriera. Probabilmente anche il marito di quest’ultima (e co-fondatore insieme a lei della fondazione per l’arte contemporanea torinese) che presiede l’associazione dei maggiori produttori nazionali di energie rinnovabili, avrà apprezzato il lavoro di Giulia Cenci che trova nell’ambientalismo un tema ricorrente.

Giulia Cenci ha poi avuto l’onore di essere intervistata da Maurizio Cattelan (del quale alcune opere, proprio adesso, sono esposte a Bergamo in una mostra diffusa).

Un'altra donna italiana cui la signora Cenci deve molto è invece Cecilia Alemani, che l’ha inserita prima ne’ Il Latte dei Sogni”, la Biennale di Venezia da lei curata, e poi nella programmazione di eventi d’arte pubblica della High Line di New York (parco sopraelevato ricavato da una ex linea ferroviaria di cui la signora Alemani è direttrice e curatrice capo). Nel primo caso l’artista italiana ha presentato una danza macabra horror (“Danza Macabra”), mentre nel secondo si è affidata a una foresta crepuscolare e mutante (“Secondary Forest”).

Anche “The Hollow Men” volendo ben vedere è aperta da una danza macabra, cui segue uno spazio più contemplativo (e spettrale) fino a concludersi con un momento di fusione tech-gotico. Qui però la poesia di “Secondary Forest” e la violenza della scultura sospesa esposta alla Biennale del 2022 si stemperano nel ritmo sincopato evocato dalle opere e in un tocco di ironia che, a momenti, spezza la cupa lettura della realtà che restituiscono (almeno nella prima sala).

Per realizzare questo progetto site-specific la signora Cenci si è ispirata, come suggerisce il titolo della mostra, al poema di Thomas Stearns Eliot “The hollow men” (che in italiano è “Gli uomini vuoti”). “Nel mio processo creativo parto spesso dalla poesia- ha detto- specialmente quando cerco un riferimento che mi guidi nella narrazione, nel titolo e nella parte scritta del mio lavoro”. Ha anche spiegato che: “The Hollow Men di T. S. Eliot parla di una comunità traumatizzata dopo la guerra, incapace di credere ai valori che l’avevano caratterizzata, in un’assenza di moto, di pensiero, di vita”.

Per quanto il lavoro di Giulia Cenci sia saldamente analogico (talmente tanto che per realizzarlo usa materiali di scarto, spesso pezzi di macchinari agricoli ma anche ex-sedili per auto e cabine doccia) ha qualcosa di futuristico, che spinge gli addetti ai lavori a parlare di post-umano nel descriverlo. Lei in merito ha detto: “Le mie sculture parlano di ibridazione e transitorietà nel mondo contemporaneo”. Oltre a fare un ampio uso di temi come caducità, violenza e alienazione.

Le opere che compongono “The Hollow Men” sono state influenzate dalle sale in cui adesso si possono ammirare. La signora Cenci, infatti, ha spesso dichiarato di dare molta importanza ai sopralluoghi (di solito ne fa diversi ed è meticolosa nel prendere nota delle caratteristiche dello spazio). Ma, vista la storica bellezza dell’edificio, in questo caso, ha tenuto conto anche della struttura del palazzo. Le opere, ha affermato: “Si confrontano con un'architettura solida, storica, apparentemente immutabile come quella di Palazzo Strozzi. È in questo attrito che si è generato qualcosa di vivo: un dialogo tra tempo, materia e percezione”.

Non è chiaro invece se Giulia Cenci sapesse fin dall’inizio cosa avrebbe occupato il cortile. Ma il dialogo tra la carnalmente pesante scultura monumentale di Tracey Emin e le scheletriche figure di Cenci, che danno l’impressione di avere l’argento vivo addosso anche se sono ferme, è molto riuscito.

L’artista normalmente impiega molto tempo per portare a termine un progetto. La fusione del metallo, che lei e i suoi assistenti realizzano in un forno, costruito da loro nella porzione di azienda agricola appartenuta al padre (scomparso prematuramente) in cui ha sede lo studio, è già di per se un’operazione lunga. Ma la signora Cenci ha dichiarato che la maggior parte del tempo glielo portano via i sopralluoghi e i disegni preparatori. Blocchi e blocchi di disegni, che, oltre a documentare il progredire e trasformarsi del lavoro, raccontano una storia tutta loro.

A Firenze, per la prima volta, sono in mostra anche questi ultimi.

The Hollow Men” di Giulia Cenci rimarrà nel Project Space di Palazzo Strozzi fino al 31 agosto. Mentre per ammirare la splendida personale di Tracey Emin “Sex and Solitudec’è tempo solo fino al 20 luglio 2025.

Nella prima sala delle figure ibride ballano intorno a una trivella Giulia Cenci, “The Hollow Men”, Palazzo Strozzi. Firenze, 2025. Exhibition view. Photo: ©Ela Bialkowska OKNO studio

Giulia Cenci, “The Hollow Men”, Palazzo Strozzi. Firenze, 2025. Exhibition view. Photo: ©Ela Bialkowska OKNO studio

Giulia Cenci, “The Hollow Men”, Palazzo Strozzi. Firenze, 2025. Exhibition view. Photo: ©Ela Bialkowska OKNO studio

Mentre un personaggio che prende parte alla danza spericolata della prima sala si muove la seconda sala si intravede Giulia Cenci, “The Hollow Men”, Palazzo Strozzi. Firenze, 2025. Exhibition view. Photo: ©Ela Bialkowska OKNO studio

Nella seconda sala i disegni e una figura inquietante e immota Giulia Cenci, “The Hollow Men”, Palazzo Strozzi. Firenze, 2025. Exhibition view. Photo: ©Ela Bialkowska OKNO studio

Giulia Cenci, “The Hollow Men”, Palazzo Strozzi. Firenze, 2025. Exhibition view. Photo: ©Ela Bialkowska OKNO studio

Giulia Cenci, “The Hollow Men”, Palazzo Strozzi. Firenze, 2025. Exhibition view. Photo: ©Ela Bialkowska OKNO studio

Giulia Cenci, “The Hollow Men”, Palazzo Strozzi. Firenze, 2025. Exhibition view. Photo: ©Ela Bialkowska OKNO studio

Giulia Cenci, “The Hollow Men”, Palazzo Strozzi. Firenze, 2025. Exhibition view. Photo: ©Ela Bialkowska OKNO studio

La poesia e la fusione occupano la terza sala Giulia Cenci, “The Hollow Men”, Palazzo Strozzi. Firenze, 2025. Exhibition view. Photo: ©Ela Bialkowska OKNO studio

Giulia Cenci, “The Hollow Men”, Palazzo Strozzi. Firenze, 2025. Exhibition view. Photo: ©Ela Bialkowska OKNO studio

Giulia Cenci, “The Hollow Men”, Palazzo Strozzi. Firenze, 2025. Exhibition view. Photo: ©Ela Bialkowska OKNO studio