A Mendrisio le fotografie dell’architettura di Aglaia Konrad, Armin Linke e Bas Princen

Mostra ʹWHAT MAD PURSUIT. Aglaia Konrad, Armin Linke, Bas Princenʹ, Teatro dell’architettura Mendrisio, Foto di Enrico Cano

Da qualche giorno al Teatro dell’architettura di Mendrisio, nella Svizzera italiana, è in corso, “What Mad Pursuit, una raffinata mostra, che attraverso una nutrita serie (50 foto, scattate in momenti e luoghi diversi) di opere di Aglaia Konrad, Armin Linke e Bas Princen, mette in discussione il ruolo della fotografia dell’architettura e quello della stessa immagine fotografica nello spazio architettonico. Sembra un argomento esclusivo, dannatamente settoriale, persino un po’ noioso, ma non lo è. Grazie all’abilità dei tre artisti scelti, alla asciutta bellezza dell’edificio circolare progettato dall’archistar svizzero Mario Botta, alla studiata e, tutto sommato, anticonvenzionale installazione delle opere.

Mostra ʹWHAT MAD PURSUIT. Aglaia Konrad, Armin Linke, Bas Princenʹ, Teatro dell’architettura Mendrisio, Foto di Enrico Cano

La Sede Espositiva:

Ispirato al teatro anatomico, il Teatro dell’architettura di Mendrisio, è stato eretto all’interno del campus universitario, con tre piani fuori terra e due piani interrati (l’esposizione ne occupa 2), ha una pianta centrale circolare. E proprio questa caratteristica della sede espositiva ha ispirato il tema della mostra, per la sua capacità di creare interferenze nel pensiero e mix inaspettati di immagini e concetti. La mostra, infatti, è stata progettata proprio per l’edificio firmato da Mario Botta. Tuttavia, il materiale esposto già esisteva.

La presentazione della mostra spiega: “Al di là di qualsiasi principio di coerenza cronologica, geografica o stilistica, What Mad Pursuit combina progetti realizzati dai tre autori in momenti diversi, luoghi distanti e per scopi altrettanto eterogenei. Il soggetto dell’architettura e del costruire che unisce le loro ricerche non viene qui osservato in se stesso, ma sulla base di una logica relazionale”.

Che, in poche parole significa che le foto sono state accostate per generare nuovi significati, dialogando tra loro e con lo spazio circostante.

Mostra ʹWHAT MAD PURSUIT. Aglaia Konrad, Armin Linke, Bas Princenʹ, Teatro dell’architettura Mendrisio, Foto di Enrico Cano

Il Titolo:

What Mad Pursuit” è stato preso in prestito da un saggio degli anni ’80 del neuroscienziato britannico Francis Crick. Gli organizzatori della mostra l’hanno scelto per introdurre il tema dell’intersezione (di pensieri, che nascono guardando le opere accostate tra loro nello spazio espositivo e mettono in discussione il ruolo della fotografia come mezzo di documentazione). Nel testo, infatti, Crick stabilisce la priorità della contaminazione sull’isolamento: “In natura le specie ibride sono generalmente sterili, ma nella scienza è spesso vero il contrario. I soggetti ibridi sono molte volte eccezionalmente fertili, mentre se una disciplina scientifica rimane troppo pura è destinata a deperire”.

Mostra ʹWHAT MAD PURSUIT. Aglaia Konrad, Armin Linke, Bas Princenʹ, Teatro dell’architettura Mendrisio, Foto di Enrico Cano

L’Argomento:

L’idea alla base della mostra è che fotografare non significhi documentare, tant’è vero che a seconda del contesto il significato dell’immagine cambia. Una lettura che qui viene applicata alla fotografia dell’architettura ma che riguarda il mezzo in generale (basti pensare ai significati sottintesi nelle foto dei giornali). Se però questo è vero, la fotografia diventa un materiale mutevole, capace di cambiare forma a seconda del luogo in cui è, e delle immagini che le fanno da compagne di viaggio. Una specie di cipolla piena di significati nascosti che diventano visibili solo se la sia mette nella giusta location. Per questo la mostra dà anche importanza alla fotografia come oggetto nello spazio.

Mostra ʹWHAT MAD PURSUIT. Aglaia Konrad, Armin Linke, Bas Princenʹ, Teatro dell’architettura Mendrisio, Foto di Enrico Cano

Gli Artisti:

Tutti e tre particolarmente focalizzati sulla fotografia dell’architettura, Aglaia Konrad, Armin Linke e Bas Princen, con la loro opera, non si litano affatto ad effigiare degli edifici.

Autodidatta nata nel ’60, Konrad mette al centro della sua opera lo spaio urbano fin dagli anni ’90. Al Teatro dell’architettura di Mendrisio ha portato la serie “Shaping Stones”, dove le immagini di edifici progettati da importati architetti sono accostati a palazzi anonimi, le epoche sono diverse come i luoghi in cui sorgono, accumunati solo dalla fotografia in bianco e nero dell’artista austriaca. Il risultato però è di omogeneità.

Di Linke, nato nel ’66 a Milano, Artbooms ha già parlato. Lavora con fotografia e cinema, ed è un artista asciutto nella forma e intellettuale nella sostanza. Per “What Mad Pursuit”, ha selezionato alcune fotografie provenienti da progetti diversi, scattate in periodi diversi, ma tutte consevate nel suo archivio. Così accostando tra loro, per esempio, uno schizzo dell’architetto brasiliano, Oscar Niemeyer, e le recinzioni costruite per il G8 di Genova nel 2001, oppure una nuvola che si appoggia perfettamente sul terreno sconnesso di una montagna in Valle d’Aosta, ne modifica il significato. Per rimescolare ulteriormente le carte ha anche posizionato le opere in corrispondenza di alcuni elementi tecnici dell’edificio.

L’olandese, Bas Princen, è il più giovane dei tre (’75). Proviene dal design industriale per poi studiare architettura, si concentra sul modo in cui le immagini definiscono il paesaggio. Per Mendrisio ha scelto una serie di opere realizzate tra il 2018 e il 2023, in cui cerca di capire la natura più profonda delle immagini. Mette in luce, per esempio, con dei super- ingrandimenti di particolari di foto preesistenti, il fatto che ogni fotografia è un dettaglio, la cui selezione è determinante per interpretarne il significato. Ma anche l’importanza dell’alterazione della scala e la sovrapposizione tra molteplici autorialità (per esempio, quando si fotografa un quadro in un edificio), oltre alla delicatezza del passaggio che tramuta un oggetto tridimensionale in un’immagine bidimensionale. Princeton stampa anche le sue foto in rilievo, trasformandole quasi in sculture.

What Mad Pursuit. Aglaia Konrad, Armin Linke, Bas Princenʹ”, al Teatro dell’architettura di Mendrisio, si potrà visitare fino al 22 ottobre 2023.

Aglaia Konrad, Shaping Stones (Londra, 2013) Stampa digitale su carta in bianco e nero © Courtesy Aglaia Konrad and Gallery Nadia Vilenne

Armin Linke, G8 summit, Genova, Italia, 2001. Stampa cromogenica © Armin Linke 2023, courtesy Vistamare Milano / Pescara

Bas Princen, Detail #4 (Le Stryge, Anonymous cyanotype aprox 1860, collection CCA, Montreal), 2018 Stampa incorniciata a getto d’inchiostro su carta di riso, 212x160 cm, Scala17:1

L'essenza inafferrabile degli autoritratti di Vivian Maier a Palazzo Sarcinelli di Conegliano

Self portrait Estate of Vivian Maier Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery NY

La scomparsa fotografa statunitense, Vivian Maier, conosciuta per aver lavorato come babysitter per mantenersi (nonostante oggi sia considerata una figura cardine della street-photography del ‘900), nella sua vita scattò un gran numero di autoritratti. Si tratta di immagini particolari, veloci eppure strutturate, molto enigmatiche, in cui lei appare e scompare, svelando poco di se (come, del resto, pare fosse solita fare anche di persona). Queste fotografie di Maier, saranno al centro della mostra “Vivian Maier. Shadows and Mirrors”, che si inaugurerà il prossimo 23 marzo, al Palazzo Sarcinelli di Conegliano (in provincia di Treviso).

Scoperta solo dopo la sua morte e presentata al grande pubblico come la tata-fotografa americana, Vivian Maier, di origini austro-francesi ma nata negli Stati Uniti dove trascorse tutta la sua vita adulta, morì in miseria pur non avendo mai smesso di fotografare. Chi l’ha conosciuta l’ha descritta così: eccentrica, forte, supponente, intellettuale e molto riservata. Pare indossasse sempre un cappello floscio, un abito lungo, un cappotto di lana e scarpe da uomo. Aveva anche un passo deciso con cui percorreva le strade di Chicago e New York raccontando le città attaverso i suoi scatti e contemporaneamente un’epoca.

Aveva perso i genitori da giovane e dopo essersi sopostata tra Europa e Stati Uniti mise radici nel Nuovo Continente. Lì si manteneva facendo la babysitter e la badante. Non si sarebbe mai sposata ne avrebbe mai stretto relazioni intime con nessuno. Viaggiò, diventò un’accumulatrice di oggetti di poco conto ed ebbe sempre problemi con i soldi. Problemi seri con i soldi. Tanto che da anziana a salvarla dal finire senza un tetto furono alcuni dei bambini che aveva cresciuto. Eppure nel 2007, solo due anni prima della morte, il contenuto del magazzino dove conservava le sue fotografie venne venduto: c’era un debito da saldare.

Gli scatoloni di rullini della Maier finirono all’asta, dove fruttarono subito 20mila dollari. Da quel momento in avanti il loro valore si sarebbe alzato e il lavoro della fotografa statunitense sarebbe diventato famoso in tutto il mondo. La vendita fu una circostanza fortunata, perchè il materiale avrebbe potuto finire nell’immmondizia. Peccato che l’autrice non ne trasse alcun beneficio

La scoperta tardiva del lavoro di Vivian Maier- ha scritto la curatrice della mostra di Cornegliano, Anne Morin- che avrebbe potuto facilmente scomparire o addirittura essere distrutto, è stata quasi una contraddizione. Ha comportato un completo capovolgimento del suo destino, perché grazie a quel ritrovamento, una semplice Vivian Maier, la tata, è riuscita a diventare, postuma, Vivian Maier la fotografa

Vivian Maier avrebbe lasciato oltre 120mila negativi, filmati super 8mm, tantissimi rullini mai sviluppati, foto e registrazioni audio. Scattò sia in bianco e nero che a colori. In una carriera ultra quarantennale.

Nel vasto archivio fotografico della Maier sono molti anche gli autoritratti. Questi ultimi tradiscono inquietudine e hanno un essenza ineffabile. Maier infatti scattava in esterni e aveva l’abitudine di fotografare la propria ombra o se stessa riflessa in specchi e superfici varie. Nonostante sia il soggetto delle immagini, Maier appare condizionata dall’ambiente che la circonda, a volte fusa ad esso. Come se diventasse invisibile.

L’abilità con cui coglie i giochi di luce e i piani che si formano nella bidimensonalità della fotografia, rendono le immagini incredibilmente sfaccettate. Ma non ci dicono assolutamente nulla su Maier come soggetto di se stessa, anzi, a volte, quest’ultima scompare quasi del tutto.

"Vivian Maier -scrive di nuovo Anne Morin-si destreggiava con una versione di sé sul confine tra la sparizione e l'apparizione del suo doppio, riconoscendo forse che un autoritratto è "una presenza in terza persona (che) indica la simultaneità di quella presenza e della sua assenza".

La mostra degli autoritratti di Vivian Maier, “Vivian Maier. Shadows and Mirrors”, è stata organizzata da ARTIKA in sinergia con diChroma Photography ed è curata da Anne Morin. Sarà a Palazzo Sarcinelli di Conegliano dal 23 marzo all'11 giugno 2023.

Self portrait Chicago 1970 Estate of Vivian Maier Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery NY

New-York, October 18 1953 Estate of Vivian Maier Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery NY

Self portrait NewYork, 1953 Estate of Vivian Maier Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery NY

Self portrait 1959 Estate of Vivian Maier Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery NY

Self portrait NewYork, 1955 Estate of Vivian Maier Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery NY

I colori mai visti di Werner Bischof al Masi di Lugano

“Werner Bischof. Unseen Colour”, vedute dell’allestimento / installation views © MASI Lugano, foto Alfio Tommasini

La mostra di Werner Bischof, “Unseen Colour”, da poco inaugurata al Masi (Museo d’arte della Svizzera italiana) di Lugano, getta uno sguardo inedito su uno dei grandi della storia della fotografia. E per celebrarlo espone un’infilata di immagini mai viste. Dai colori inaspettati.

Bischof, infatti, era un maestro nell’uso del colore Che fino a poco tempo fa si pensava essere solo uomo da bianco e nero.

Nato a Zurigo nel 1916, lo svizzero Werner Bischof, fu uno dei più grandi fotografi del suo tempo. Entrò nell’agenzia Magnum Photos quando ne facevano parte solo: Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, George Rodger, David Seymour e Ernst Haas. Di lui si pensava di sapere tutto: dallo sguardo umanista ma crudo sulla realtà, dell’Europa devastata dalla guerra prima e del resto del mondo poi, fino al virtuosismo nel padroneggiare sia la composizione che la macchina fotografica. D’altra parte, Bischof, a soli 38 anni se ne andò inghiottito da un dirupo sulle Ande. Troppo giovane, troppo famoso, per lasciare zone d’ombra nella sua carriera o materiale inedito. E invece no. Un aspetto nascosto c’era eccome: il colore (che l’artista svizzero usava già quando era considerato un vezzo da fotografi di moda, anzichè mezzo espressivo per un vero fotoreporter). E insieme a quest’ultimo anche scatole su scatole di negativi (tutti scattati tra 1939 e il 1949). Ritrovati dal nipote, Marco Bischof, solo nel 2016.

C’era persino un mistero. Per ogni foto, infatti, sono stati recuperati tre negativi identici, e non se ne capiva il motivo. La risposta stava nella macchina che usava Bischof all’epoca: la preziosa la Devin Tri-Color Camera (normalmente esposta al Musée suisse de l’appareil photographique di Vevey e attualmente in mostra a Lugano), comperata apposta per lui nella seconda metà degli anni ‘30, dall’editore di due famose riviste d’oltralpe dei tempi.

La Devin Tri-Color Camera, infatti, non era solo costosissima e poco o niente maneggevole ma anche prodigiosa.

"Necessitava- spiegano dal museo- di lastre di vetro, considerate più stabili rispetto alle pellicole di celluloide, che, tra l'altro, erano difficili da reperire durante il periodo bellico. Ma soprattutto, il vetro garantiva fotografie di altissima risoluzione e perfezione ottica".

E usava la tecnica della tricromia one-shot. Che se oggi può sembrare complicata, ai tempi era avveniristica. Funzionava così: "L’immagine viene trasmessa simultaneamente a tre lastre di vetro, ognuna delle quali registra, tramite un filtro, un singolo colore (rosso, verde, blu). Per ottenere una stampa a colori è poi necessario unire le informazioni registrate dai tre negativi".

Per “Unseen Colour” il Masi ha restaurato, scansionato e stampato quei negativi, trovandone la giusta successione, oltre a cercare di non prendere abbagli. E questo ha significato studio e ricerca: . “Dovevamo ritrovare il linguaggio visivo, il linguaggio di quelle immagini. Per ritrovarlo, occorreva studiare e guardare il materiale dell'epoca. Fare uno sforzo di interpretazione. In particolare sono state fatte ricerche sulle copertine a colori della rivista “Du”, con cui il fotografo svizzero collaborava.” 

Oltre alle immagini inedite, su cui ha lavorato un team del Masi coordinato da Marco Bischof (composto da: Rolf Veraguth, fotografo ed esperto di tecnica fotografica e Ursula Heidelberger insieme ai suoi collaboratori, del Laboratorium di Zurigo), “Unseen Colour”, espone anche molti altri scatti a colori di Bischof dei decenni successivi.

Inutile dire che, con gli anni, cambiano le macchine fotografiche (prima una Rolleiflex 6x6, poi un'iconica Leica) e con loro tutto il resto. Lo spirito del tempo, sempre intercettato da Bischof e tradotto in immagini via via più libere e puntuali anche se sempre formalmente perfette, la composizione, l’angolazione degli scatti. E il colore stesso.

La mostra “Unseen Colour”, attraverso circa 100 stampe digitali, da negativi originali dal 1939 agli anni '50, copre l'intera carriera di Werner Bischof e tratta il tema del colore nella sua fotografia con una completezza senza precedenti. L’esposizione, che inaugura la stagione espositiva del Masi, resterà aperta fino al 2 luglio 2023.

“Werner Bischof. Unseen Colour”, vedute dell’allestimento / installation views © MASI Lugano, foto Alfio Tommasini

“Werner Bischof. Unseen Colour”, vedute dell’allestimento / installation views © MASI Lugano, foto Alfio Tommasini

“Werner Bischof. Unseen Colour”, vedute dell’allestimento / installation views © MASI Lugano, foto Alfio Tommasini

“Werner Bischof. Unseen Colour”, vedute dell’allestimento / installation views © MASI Lugano, foto Alfio Tommasini

“Werner Bischof. Unseen Colour”, vedute dell’allestimento / installation views © MASI Lugano, foto Alfio Tommasini

“Werner Bischof. Unseen Colour”, vedute dell’allestimento / installation views © MASI Lugano, foto Alfio Tommasini

“Werner Bischof. Unseen Colour”, vedute dell’allestimento / installation views © MASI Lugano, foto Alfio Tommasini

“Werner Bischof. Unseen Colour”, vedute dell’allestimento / installation views © MASI Lugano, foto Alfio Tommasini