Biennale di Venezia| “Compose” il padiglione Giappone sulla magia della creatività quotidiana di Yuko Mohri

Pavilion of JAPAN, Compose, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Matteo de Mayda  Courtesy: La Biennale di Venezia

Frizzante e denso di riferimenti alla bizzarria della quotidianità, “Compose”, il Padiglione Giappone di Yuko Mohri per la 60esima Esposizione Internazionale d’Arte, è piaciuto un po’ a tutti. Sarà che l’artista originaria di Kanagawa (una cittadina a sud di Tokyo) ha comperato tutti gli oggetti che sono serviti per le sue sculture cinetiche nelle botteghe del centro storico di Venezia, sarà che i suoni e le luci prodotti dal marcire della frutta suscitano meraviglia. Tuttavia, il Giappone (come l’Italia del resto) è uno dei pochi Paesi con una democrazia compiuta e un passato importante a non essersi lasciati coinvolgere dall’argomento portante della Biennale 2024 (la decolonizzazione). E questo lo ha fatto apparire un po’fuori dal coro.

Curato dal critico coreano, Sook-Kyung Lee (“Per la prima volta quest'anno, un cittadino non giapponese –ha spiegato l’artista in un’intervistaè stato invitato a supervisionare il padiglione giapponese”), “Compose”, come in genere le opere di Mohri, sollecita più sensi contemporaneamente. C’è il suono a cui l’artista attribuisce molta importanza (ha, tra l’altro, lavorato con affermati musicisti in Giappone), l’olfatto (che qui non sarà centrale come nel vicino Padiglione Corea ma riveste un suo ruolo) e naturalmente la vista, cui le forme e i colori degli oggetti assemblati da Mohri, regalano una piacevole esperienza. Sono, infatti, esposti dei mobiletti (anche loro reperiti in laguna) con sopra fruttiere, piene di arance, mele, angurie; a volte, poi, i frutti sono disposti direttamente sul piano, ma poco importa, in ognuno c’è un sensore che traduce il variare della composizione chimica dell’alimento in suoni e luci.

L’opera, che si intitola “Decomposition”, di fatto cambia in continuazione: muta l’odore (della frutta in decomposizione), l’intensità delle luci e cambiano i suoni. Mohri, infatti, sostituisce i prodotti abbastanza spesso (anche perché acquista frutta già molto matura, tanto da non essere più commerciabile), per poi farne compost per il parco in cui si tiene la Biennale (i Giardini). Il lavoro fa riferimento al ciclo della vita e al tentativo incessante di preservare la memoria. E, naturalmente, all’ecologia.

Ancora più evidente questo aspetto, nell’opera cardine del Padiglione Giappone: “La scultura cinetica di grandi dimensioni ‘Moré Moré (Leaky)’- ha spiegato il curatore, Sook-Kyung Lee- consta di molti oggetti quotidiani e pronti all’uso, come secchi di plastica, tubi traslucidi e piccole pompe che spostano l’acqua da un posto all’altro, presi dalle ferramenta locali (…)”. Per realizzarla Mohri, che in passato era stata colpita da soluzioni di fortuna adottate dal personale della metropolitana di Tokyo, ha creato delle perdite d’acqua appositamente per combatterle con catini, imbuti, bottiglie vuote e quant’altro. Ha anche ripristinato il lucernario e lasciato in bella vista il foro che caratterizza il pavimento dell’edificio costruito nel ’56 dall’architetto nipponico, Takamasa Yoshizaka (allievo di Le Corbusier). In maniera che i temporali potessero contribuire spontaneamente al moto incessante della scultura.

D’altra parte, Mohri, studia con grande attenzione l’ambiente prima di decidere definitivamente il contenuto delle sue mostre. “Per me, iniziare un lavoro- ha affermato in un’altra intervista- è un processo sia cognitivo che fisico. Naturalmente è fondamentale conoscere il sito espositivo e la storia del territorio circostante (…) una volta decisa la sede, mi assicuro di trascorrere più tempo possibile lì, da sola. A quel punto ho bisogno di restare indisturbata, sola, ascoltando direttamente lo spazio. È così che identifico le caratteristiche e gli elementi che lo compongono (…) Trascorro del tempo nelle gallerie finché non vedo la collocazione delle opere, determinata dalle condizioni, inclusa la consistenza del pavimento e le correnti d'aria create dal sistema di aria condizionata. Dall'esterno, questo processo potrebbe sembrare come se fossi semplicemente da sola nella stanza (lol), ma la mia testa gira tutto il tempo”.

Moré Moré (Leaky)” ha a che fare con l’ecologia (il riutilizzo degli oggetti, l’acqua alta di Venezia, le inondazioni e in generale le follie del clima) ma anche con il bagaglio di conoscenze nascoste nella vita di tutti i giorni, e con la poetica fantasia di cui diamo prova quando siamo alle prese coi problemi della quotidianità. Con l’origine della creazione e, in definitiva, con quella dell’arte stessa.

Mohri- scrive sul sito del padiglione il curatore- osserva come le crisi facciano emergere la massima creatività nelle persone (…) Le perdite d’acqua non vengono mai risolte del tutto e la frutta finisce a marcire nel compost, ma questi sforzi apparentemente futili indicano un barlume di speranza che la nostra umile creatività potrebbe portare”.

Compose”, il Padiglione Giappone di Yuko Mohri, vi piacerà. Resterà aperto per tutta la durata della Biennale di Venezia 2024 (fino al 24 novembre).

Pavilion of JAPAN, Compose, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Matteo de Mayda  Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of JAPAN, Compose, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Matteo de Mayda  Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of JAPAN, Compose, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Matteo de Mayda  Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of JAPAN, Compose, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Matteo de Mayda  Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of JAPAN, Compose, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Matteo de Mayda  Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of JAPAN, Compose, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Matteo de Mayda  Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of JAPAN, Compose, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Matteo de Mayda  Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of JAPAN, Compose, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Matteo de Mayda  Courtesy: La Biennale di Venezia

“Dance with Daemons” alla Fondazione Beyeler, per dormire su un letto-robot di Höller con gli occhi al firmamento dell’arte contemporanea

INSTALLATION VIEW Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2024 Philippe Parreno, Membrane, 2023, cybernetic structure with sensorimotor capabilities and generative language processing; courtesy of the artist © Philippe Parreno; Fujiko Nakaya, Untitled, 2024, Potable water, 600 Meefog nozzles, High pressure pump motor system, Courtesy of the artist, © Fujiko Nakaya photo: Mark Niedermann

Fino all’11 agosto i visitatori della Fondazione Beyeler di Riehen (a una manciata di chilometri da Basilea, nella Svizzera tedesca) avranno la possibilità di vedere un museo del tutto trasformato, all’interno di un’esposizione temporanea concepita come “un organismo vivente” che si “evolve e muta nel tempo”. E poi potranno dormire in un’opera dell’artista tedesco Carsten Höller che, insieme al giovane (ma già molto affermato) scienziato Adam Haar, com’è sua abitudine, coglierà l’occasione per studiarli. Perché nell’opera “Dream Hotel Room 1: Dreaming Flying with Flying Fly Agarics” il letto del pubblico è un robot che rileva l’attività onirica delle persone e si muove di conseguenza.

L’esposizione, realizzata in collaborazione con la Luma Foundation di Zurigo, ha un titolo grintoso ed evocativo come “Dance with Daemons”, che ben si adatta ai concerti di musica elettronica che si terranno nel parco del museo per celebrare ed ammirare i tramonti d’estate con la giusta atmosfera. Ma soprattutto, sperimentale e (a suo modo) egualitaria, la mostra mette insieme un firmamento di stelle dell’arte contemporanea ma anche di molti altri campi. Gli organizzatori hanno, infatti, chiamato un gruppo di artisti e curatori (Sam Keller, Mouna Mekouar, Isabela Mora, Hans Ulrich Obrist, Precious Okoyomon, Philippe Parreno e Tino Sehgal) che, oltre ad ideare l’esposizione, a loro volta hanno chiesto di partecipare ad artisti, poeti, architetti, designer, musicisti, compositori, filosofi e ricercatori. “A tutti loro- ha scritto la fondazione svizzera- è stata data licenza di trasformare gli spazi della Fondation Beyeler, siano essi le sale, i giardini, le terrazze, ma anche gli ambienti non convenzionali come la biglietteria, la ‘green room’, lo shop, il foyer e il giardino d’inverno. Per il pubblico è un’opportunità imperdibile di riscoprire in modo inaspettato le sale espositive esistenti e di esplorare le aree meno abituali del museo”.

L’elenco completo comprende trenta nomi di diverse nazionalità (anche se sono molti gli statunitensi e diversi i francesi) e discipline (ma tutti almeno un po’ famosi, alcuni molto). Ci sono: l’artista britannico- keniota, Michael Armitage, la poetessa statunitense, Anne Boyer, il filosofo italiano, Federico Campagna, l’artista statunitense, Ian Cheng, il musicista e poeta statunitense, Chuquimamani-Condor, il musicista statunitense di origine indigena, Joshua Chuquimia Crampton, la pittrice sudafricana, Marlene Dumas, l’architetto messicana, Frida Escobedo, l’artista svizzero, Peter Fischli, l’artista francese, Cyprien Gaillard, il pittore rumeno, Victor Man, l’artista francese, Dominique Gonzalez-Foerster, l’artista statunitense, Wade Guyton, , Carsten Höller con Adam Haar appunto, l’artista francese, Pierre Huyghe, l’artista e cineasta statunitense, Arthur Jafa, l’artista coreana, Koo Jeong A (che quest’anno rappresenta la Corea alla Biennale di Venezia), l’artista statunitense, Dozie Kanu, l’artista brasiliano, Cildo Meireles, l’artista brasiliano, Jota Mombaça, l’artista giapponese, Fujiko Nakaya, la poetessa statunitense, Alice Notley, l’artista e poetessa nigeriano-americana, Precious Okoyomon, l’artista francese, Philippe Parreno, l’artista statunitense, Rachel Rose, l’artista tedesco- indiano, Tino Sehgal, l’artista di origine tailandese ed argentina (ora vive tra NYC, Berlino e Chiangmai), Rirkrit Tiravanija, l’artista franco-marocchino, Ramdane Touhami e lo sculture argentino, Adrián Villar Rojas.

Ad ogni modo gli ideatori, probabilmente prendendo spunto dalla struttura della scorsa edizione di Documenta (lì è stato un mezzo disastro, ma si trattava di collettivi del sud del mondo animati da uno spirito piuttosto sessantottino), hanno deciso di puntare sullo “scambio interdisciplinare e la responsabilità collettiva”. In sostanza si sono consultati a vicenda ma nell’ottica di un’organizzazione orizzontale.

Insieme hanno scelto di costruire la mostra come “un organismo vivente”, cioè di lavorare su un palinsesto dinamico. Sia nel senso che in ogni fase si si sono consultati tra loro, sia che l’hanno riempita con un ricco programma di eventi (mostre, momenti sociali, performance, concerti, letture di poesie, conferenze e attività svolte in comune), che non sono paralleli all’esposizione ma parte di essa e cambiano a seconda dell’ora del giorno in cui si entri nella Beyeler Foundation.

Una proposta dinamica più che statica- hanno spiegato con un linguaggio tutt’altro che chiaro, Parreno e Okoyomon- un progetto ontologico che si evolve e riflette la complessità e molteplicità insite nell’incontro di voci artistiche differenti sotto uno stesso tetto”.

Per tutta la durata dell’esposizione l’artista tedesco Carsten Höller presenterà “Dream Bed”, il suo ultimo progetto realizzato in collaborazione con lo scienziato cognitivo esperto di sonno e sogni, Adam Haar (co-inventore del dispositivo Dormio e della tecnica Targeted Dream Incubation che aiuta le persone a modificare i propri sogni, sta attualmente costruendo strumenti per il trattamento degli incubi). L’opera, che per esteso si chiama “Dream Hotel Room 1: Dreaming Flying with Flying Fly Agarics”, è una camera d’hotel posta all’interno del museo svizzero in cui i visitatori potranno schiacciare un pisolino durante il giorno al prezzo del biglietto, oppure dove potranno trascorrere un’intera notte di sonno (tra il venerdì e il sabato). Chi deciderà di provare l’opera di Höller diventerà, come sempre accade nel suo lavoro, una cavia da laboratorio. Il “Dream bed”, infatti, è un letto-robot che si muove in sincronia con l’attività onirica di chi lo usa, capace di rilevare i sogni attraverso sensori nel materasso (che misurano la frequenza cardiaca, la respirazione e i movimenti). Inoltre, quando l’ospite dell’opera sarà sul punto di addormentarsi o di svegliarsi, sopra la sua testa comincerà a ruotare la riproduzione di un fungo dai riflessi rossi.

Per dormire per davvero nella stanza con letto- robot di Höller bisogna prenotare online. I prezzi dovrebbero essere variabili per adattarsi a tutte le tasche ma, a parte la notte destinata agli studenti (già prenotata), non si possono dire molto abbordabili (mentre questo articolo viene redatto la camera è in vendita tra i 600 e i 2mila franchi svizzeri). Tuttavia, a pochi giorni dell’inaugurazione, oltre la metà delle date disponibili sono già andate esaurite.

Dance with Daemons” alla Beyeler Foundation di Riehen (Basilea) è stata inaugurata il 19 maggio scorso e durerà fino all’11 agosto 2024. “Nel corso della sua durata- promettono gli organizzatori- la mostra di gruppo interdisciplinare si evolverà e cambierà, proprio come un organismo vivente”. Di certo l’esposizione si trasformerà drasticamente, in seguito, quando verrà presentata ad Arles e in altre sedi della Luma Foundation.

INSTALLATION VIEW Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2024 © Gerhard Richter; Marlene Dumas; 2024, ProLitteris, Zurich photo: Mark Niedermann

INSTALLATION VIEW Wade Guyton, Untitled, 2023-24, Twenty-six paintings, all Epson UltraChrome HDX inkjet on linen Each painting: 213.4 x 175.3 cm Installation view photo: Courtesy der Künstler

INSTALLATION VIEW Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2024 Thomas Schütte, Hase, 2013, Patinated bronze; Fujiko Nakaya, Untitled, 2024, Potable water, 600 Meefog nozzles, High pressure pump motor system, Courtesy of the artist © 2024, ProLitteris, Zurich photo: Mark Niedermann

INSTALLATION VIEW Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2024 © Roni Horn; Josef Albers and Anni Albers Foundation; Mondrian/Holtzman Trust c/o HCR International Warrenton, VA USA; Ellsworth Kelly; 2024, ProLitteris, Zurich Photo: Mark Niedermann

INSTALLATION VIEW Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2024 Dominique Gonzalez-Foerster, Untitled (nuage), 2024, LED screen, courtesy of the artist © Dominique Gonzalez-Foerster photo: Mark Niedermann

RACHEL ROSE, WHAT TIME IS HEAVEN, 2024 © Rachel Rose

INSTALLATION VIEW Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2024 Adrián Villar Rojas, The End of Imagination VI, 2024, live simulations of active digital ecologies, and layered composites of organic, inorganic, human and machine-made matter, courtesy the artist © Adrián Villar Rojas photo: Mark Niedermann

INSTALLATION VIEW Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2024 Philippe Parreno, Membrane, 2023, cybernetic structure with sensorimotor capabilities and generative language processing; courtesy of the artist © Philippe Parreno; Fujiko Nakaya, Untitled, 2024, Potable water, 600 Meefog nozzles, High pressure pump motor system, Courtesy of the artist, © Fujiko Nakaya photo: Mark Niedermann

Biennale di Venezia| Il Padiglione Italia di Massimo Bartolini un po’ fuori posto nella biennale della decolonizzazione ma bello

Pavilion of ITALY DUE QUI / TO HEAR 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

A Due qui / To Hear”, il Padiglione Italia di Massimo Bartolini per la 60esima Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, si può accedere da due ingressi. L’artista originario di Cecina (provincia di Livorno) insieme al curatore milanese, Luca, Cerizza, hanno voluto così alludere alla circolarità (del pensiero, dell’esistenza, della storia ecc.) e permettere ai visitatori che arrivano dal giardino di pertinenza dell’edificio (quest’anno trattato come una sala) così come a chi viene dall’ingresso interno all’Arsenale, di incrociarsi nella stanza più grande, quella che ne costituisce il fulcro. Quest’ultima interamente occupata dall’installazione sonora e scultorea, “Due qui” (fatta di ponteggi tramutati in canne d’organo, piante di antichi giardini riadattati in percorsi verso la scoperta di sé) e dalla fontana, “Conveyance” (in cui un’onda conica non smette mai di alzarsi al centro di un cerchio di marmo) è davvero bella. L’intero padiglione lo è.

Magari è firmato da un uomo bianco occidentale, che lavora con un linguaggio tipicamente maschile e tipicamente occidentale come il minimalismo (la cui durezza è appena smussata dal buddismo e dalle filosofie orientali), che nel cuore della biennale della decolonizzazione può apparire un po’ fuori posto, ma è sicuramente un bellissimo padiglione. Uno dei più riusciti delle ultime edizioni.

Anche il carattere del temaStranieri Ovunque”, scelto dal curatore della manifestazione lagunare Adriano Pedrosa (da intendersi in più modi fino al sentirsi “stranieri a sé stessi”), è qui interpretato in maniera diversa: “(…) proponendo- hanno scritto gli organizzatori- un’ulteriore declinazione per la quale il non essere straniero deve iniziare con il non essere stranieri a se stessi”. Il titolo, infatti, partendo dalla traduzione apparentemente sbagliata, “Two here” (due qui) e To hear (sentire/udire), suggerisce come l’ascoltare, il “tendere l’orecchio”, sia già una forma di azione verso l’altro. E come le incomprensioni possano essere occasione di scoperta.

Di certo le polemiche che hanno accolto l’inaugurazione della mostra di Bartolini non lo sono.

L’Italia quest’anno viene rappresentata da un solo artista, è la seconda volta nella storia della Biennale che succede (la prima in assoluto è stata nella scorsa edizione) e a qualcuno la cosa non è piaciuta. Le altre nazioni, occidentali e non (sia che dispongano di padiglioni grandi, o che si adattino a spazi angusti), vengono rappresentate da un solista da decenni, perché è una formula vincente (chi espone è valorizzato, il pubblico capisce meglio, la stampa è più propensa a parlare dell’evento). L’unico Paese che non lo fa è la Repubblica Popolare Cinese (anche lei ha un padiglione che in genere, per quanto riguarda le arti visive, fa poco parlare di sé). Per esempio, alla 60esima Esposizione Internazionale d’Arte, nei Giardini (dove ci sono tutti i padiglioni più antichi e visitati), solo la Germania ha scelto di non veicolare il proprio messaggio attraverso una sola voce (ma due, non quattro o quaranta, a cui sono state comunque allestite mostre separate). Nelle edizioni precedenti però, pure quest’ultima, ha preferito delle personali. Insomma, questo non è un argomento che lascia spazio a pareri divergenti, come dimostrano le scelte adottate dagli altri Paesi.

Due qui / To Hear” era inoltre inadatta a queste critiche. Infatti, sebbene la firma del progetto sia quella di Bartolini, all’opera hanno partecipato anche le musiciste: Caterina Barbieri (italiana, classe 1990) e Kali Malone (statunitense, nata nel ‘94). Oltre al famoso compositore inglese, Gavin Bryars (del ’43) insieme al figlio, Yuri Bryars (nato nel ’99). Ci sono poi due testi commissionati appositamente per il progetto alla scrittrice e illustratrice per l’infanzia Nicoletta Costa (italiana, del ‘53) e al romanziere e poeta Tiziano Scarpa (italiano a sua volta ma del ‘63).

Se si accede dall’Arsenale, il Padiglione Italia, accoglie i visitatori con un minimalismo disarmante. Nella stanza c’è solo una piccola statua in bronzo di un Pensive Bodhisattva (una rappresentazione classica del Buddha, in cui il principe appare assorto e distaccato) collocata all’estremità di un lungo parallelepipedo bianco. Quest’ultimo elemento, che può alludere alla strada compiuta da Siddharta per raggiungere l’illuminazione, è in realtà una canna d’organo che attraverso un ventilatore è in grado di produrre un suono prolungato e continuo. I visitatori, però, se ne accorgono solo passandogli accanto e credono di percepire anche vibrazioni che li disorientano. Le pareti circostanti sono dipinte di verde e viola; i colori, secondo un’antica usanza, invece di costituire un abbellimento, indicano delle note musicali (in questo caso La e La bemolle)

Lo stesso tempo sospeso- ha scritto a proposito dell’opera il curatore, Luca Cerizza- suggerito dal Bodhisattva è rafforzato da questo suono prolungato, che rimanda a un tempo circolare”.

Pavilion of ITALY DUE QUI / TO HEAR 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Ma è la seconda stanza (quella centrale considerando anche il giardino) a lasciare stupiti: di fronte a sé un labirinto di pali per ponteggio in metallo che evoca una cattedrale effimera e luccicante da attraversare percorrendo stretti viottoli. I tubi però sono stati modificati uno ad uno per trasformarsi in canne d’organo (“grazie alla collaborazione di organari e tecnici specializzati”) e suonano al passaggio del pubblico, mentre le melodie composte dalle musiciste Barbieri e Malone, vengono diffuse in loop da due rulli a motorie, che funzionano come grandi carrilon. La pianta dell’installazione, in questa sala, rimanda ai giardini italiani barocchi, mentre i visitatori sono chiamati ad attivare l’opera in maniere potenzialmente infinite: “il suono di questa macchina musicale- continua Cerizza- è percepibile in modi sempre diversi a seconda dei tempi e direzioni di percorrenza dello spettatore. È il nostro movimento a ‘comporre’ parzialmente una musica sempre nuova”.

Al centro della stanza c’è una fontana in marmo (“Conveyance”). Inutile dire che si tratta di un’opera strettamente minimalista, composta da due cerchi concentrici (la vasca e la seduta da cui i visitatori possono contemplarla). L’acqua qui non si perde in giochi, si limita a un’onda conica: “Chiamata in termini scientifici ‘solitone’, è un’onda simile a quella che genera uno ‘tsunami’ ma replicata di continuo come in un esperimento di laboratorio.” A differenza di quanto si potrebbe pensare la fontana è silenziosa (è anzi il punto più propizio per ascoltare le melodie che si alzano dalla foresta di tubi) e se guardata abbastanza a lungo dovrebbe predisporre alla meditazione.

Massimo Bartolini, Due qui, 2024 12×6×50 m 50 minutes of music / 10 minutes of silence iron, cast iron, motors, electronics Music composed by: Caterina Barbieri, Kali Malone Metalwork and engineering: Yari Andrea Mazza Detailed design: Riccardo Rossi Organ builders: Massimo Drovandi, Samuele Frangioni, Samuele Maffucci Electronics: Valerio Marrucci Scaffolding assembly: Euroedile, Postioma (TV) (Alessandro Ballan, Denis Daullja, Fabiano Gregolin, Nicola Lazzari, Vasyl Ozhibko, Rinor Krasniqi, Vitali Serbin) Courtesy the artist, Massimo De Carlo, Frith Street Gallery and Magazzino Photo © Agostino Osio / AltoPiano

Usciti da questa stanza ci si trova nel giardino. In alcuni punti del quale si attivano le melodie dei Bryars ma il pubblico può anche fermarsi ad osservare un cerchio di persone coi piedi sotterranti che cingono un albero (“Lo proteggono e lo contemplano allo stesso tempo, diventando un pubblico che custodisce”). La performance non c’è sempre ma l’installazione sonora si, e accompagna con grazia il passaggio delle persone in mezzo agli alberi secolari.

Nato nel ’62, Massimo Bartolini, che stranamente continua a vivere e lavorare a Cecina, ha una carriera di tutto rispetto alle spalle. Prima di quest’anno ha già partecipato tre volte alla Biennale di Venezia (ma mai da solista). Nel 2012, invece, è stato ospite a Documenta di Kassel. E’ anche insegnate (alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano e all’Accademia di Belle Arti di Bologna).

Per concludere,Due qui / To Hear”, il Padiglione Italia di Massimo Bartolini va assolutamente visitato. Per quanto non sia la partecipazione nazionale più inerente al tema della la 60esima Esposizione Internazionale d’Arte (anzi tra i Paesi occidentali forse è una delle meno consonanti sia stilisticamente che concettualmente), è di certo una gran bella mostra. Inoltre, l’idea di permettere ai visitatori l’ingresso anche dal giardino di pertinenza dell’edificio, potrebbe permettere a qualcuno di sveltire i tempi di attesa per accedere a questa parte della Biennale di Venezia 2024.

Massimo Bartolini, Pensive Bodhisattva on A Flat, 2024 2500×32×32 cm, statue 40×9×9 cm 50 minutes of music / 10 minutes of silence wood, motor, bronze Organ builders: Massimo Drovandi, Samuele Frangioni, Samuele Maffucci Courtesy the artist, Massimo De Carlo, Frith Street Gallery and Magazzino Photo © Agostino Osio / AltoPiano

Pavilion of ITALY DUE QUI / TO HEAR 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ITALY DUE QUI / TO HEAR 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ITALY DUE QUI / TO HEAR 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Massimo Bartolini, Due qui, 2024 12×6×50 m 50 minutes of music / 10 minutes of silence iron, cast iron, motors, electronics Music composed by: Caterina Barbieri, Kali Malone Metalwork and engineering: Yari Andrea Mazza Detailed design: Riccardo Rossi Organ builders: Massimo Drovandi, Samuele Frangioni, Samuele Maffucci Electronics: Valerio Marrucci Scaffolding assembly: Euroedile, Postioma (TV) (Alessandro Ballan, Denis Daullja, Fabiano Gregolin, Nicola Lazzari, Vasyl Ozhibko, Rinor Krasniqi, Vitali Serbin) Courtesy the artist, Massimo De Carlo, Frith Street Gallery and Magazzino Photo © Agostino Osio / AltoPiano

Massimo Bartolini, Due qui, 2024 12×6×50 m 50 minutes of music / 10 minutes of silence iron, cast iron, motors, electronics Music composed by: Caterina Barbieri, Kali Malone Metalwork and engineering: Yari Andrea Mazza Detailed design: Riccardo Rossi Organ builders: Massimo Drovandi, Samuele Frangioni, Samuele Maffucci Electronics: Valerio Marrucci Scaffolding assembly: Euroedile, Postioma (TV) (Alessandro Ballan, Denis Daullja, Fabiano Gregolin, Nicola Lazzari, Vasyl Ozhibko, Rinor Krasniqi, Vitali Serbin) Courtesy the artist, Massimo De Carlo, Frith Street Gallery and Magazzino Photo © Agostino Osio / AltoPiano

Pavilion of ITALY DUE QUI / TO HEAR 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Massimo Bartolini, A veces ya no puedo moverme, 2024 variable dimensions 6 boomboxes, mixer Music composed by: Gavin and Yuri Bryars Percussions: Gavin and Yuri Bryars Voices: Alessandra Fiori, Francesca Santi, Silvia Testoni Sound engineering: Louis McGuire Production assistant: Emanuele Wiltsch Barberio La Biennale di Venezia team: Paolo Zanin, Michele Braga, Dario Sevieri, Enrico Wiltsch Recorded at Cosmogram, Giudecca, Venice, February 24 and 25, 2024 Courtesy the artist, Massimo De Carlo, Frith Street Gallery, and Magazzino Photo © Agostino Osio / AltoPiano

Massimo Bartolini con l’opera Pensive Bodhisattva on A Flat (Bodhisattva pensieroso su La bemolle), 2024, all’interno del Padiglione Italia – Biennale Arte 2024 Foto © Agostino Osio per AltoPiano