Dimenticata, riscoperta e oggi celebrata a Parigi, Vivian Suter si racconta con dipinti tropicali

Exhibition view, Vivian Suter, "Disco", Palais de Tokyo (Paris), 12.06-07.09.2025  Copyright Vivian Suter Courtesy of Karma International, Zurich; Gladstone, New York / Bruxelles / Séoul; Gaga, Mexico DF; Proyectos Ultravioleta, Guatemala City Photo credit: Aurélien Mole

Una saga familiare che dall’800 conduce fino ai giorni nostri attraverso vicende che si svolgono in due continenti, mentre, sullo sfondo, si consumano guerre e persecuzioni ma anche amori e ambizioni; il rapporto strettissimo e sottilmente conflittuale tra una madre e una figlia, entrambe artiste, che continuano a esporre insieme anche dopo la scomparsa della prima; una pittrice dimenticata e in bolletta insofferente alle convenzioni sociali, che sta per vendere la casa proprio quando viene riscoperta e raggiunge il successo. Potrebbe sembrare la trama inverosimile e un po’ ingenua di uno scrittore d’altri tempi e invece è la storia, tutt’altro che romanzata, dell’artista argentino-svizzera Vivian Suter, oggi celebrata come proto-ambientalista dopo aver passato decenni a dipingere per se stessa in un giardino tropicale caotico ricavato in una ex-piantagione di caffè in Guatemala.

In questi mesi Vivian Suter è protagonista della grande mostra “Disco” (il nome non ha a che fare con dj o luci stroboscopiche ma è quello di uno dei suoi cani) al museo d’arte contemporanea, Palais de Tokyo di Parigi. Dove i dipinti gestuali, dagli accesi colori tropicali, rigorosamente non incorniciati invadono l’ampia superficie delle sale appesi in blocco su stenders metallici, sospesi al soffitto, adagiati per terra, o fissati alle pareti in modo apparentemente casuale fino a sovrapporsi l’un l’altro.

L'allestimento è molto empirico- ha detto il curatore François Piron- Avevamo un piano, ma non lo abbiamo seguito. Abbiamo solo rispettato alcune regole: doveva essere denso, doveva occupare l'intera superficie delle pareti dall'alto al basso e doveva esserci un'ampia gamma di contrasti”. Le opere inoltre sono illuminate dalla luce naturale, e in mostra è presente anche un nutrito gruppo di acquerelli della scomparsa madre della pittrice (Elisabeth Wild, che era un’artista a propria volta).

Il Palais de Tokyo è una sede prestigiosa, ma da quando il curatore polacco Adam Szymczyk (nel 2011) ripescò il lavoro dimenticato da un trentennio della signora Suter (includendolo in diverse mostre e nel 2017 nella quattordicesima edizione di Documenta di Kassel), la sua carriera ha il vento in poppa. Tra i musei in cui è stata solista ci sono ad esempio: la Tate Liverpool, il museo Reina Sofia di Madrid e, in Italia, la Gamec di Torino.

Exhibition view, Vivian Suter, "Disco", Palais de Tokyo (Paris), 12.06-07.09.2025  Copyright Vivian Suter Courtesy of Karma International, Zurich; Gladstone, New York / Bruxelles / Séoul; Gaga, Mexico DF; Proyectos Ultravioleta, Guatemala City Photo credit: Aurélien Mole

I collage laboriosi e precisi della madre sono in genere parte del pacchetto: le due donne per parecchi anni, e fino alla scomparsa della signora Wild (avvenuta nel 2020 quando aveva 97 anni), hanno abitato nella stessa ex-piantagione di caffè ed erano molto legate (tanto che i curatori tendono ad esporle insieme per rendere comprensibile il loro percorso agli spettatori).

Tuttavia, l’affetto e il sentire condiviso, non vuol dire che artisticamente fossero sovrapponibili. Quello tra loro è anzi un confronto fatto di macro-differenze che nascondono centinaia di minute consonanze. La signora Suter anche recentemente ha ricordato: “A volte spostavo un piccolo dettaglio (nei collage della madre ndr) quando non guardava, ma lei lo notava sempre immediatamente!

Resta il fatto però che tutt’e due abbiano dovuto adottare simili stratagemmi nel lungo periodo di ristrettezze economiche (Suter ha cominciato a usare colla di pesce e colori da rigattiere che trovava nei mercati della zona, mentre Wild si faceva regalare le riviste per fare i suoi collages) e che la loro vita sia stata sballottata da un continente all’altro dalla stessa, potente, ondata di marea.

Infatti, sebbene la passione per l’arte fosse molto più antica di entrambe (sia la nonna che la bisnonna della signora Suter dipingevano), la storia di fughe e drastici cambiamenti della famiglia ha origine proprio nella biografia di Elisabeth Pollack Wild. Che, nata a Vienna nel ’22 da una cattolica e un ebreo, dovette emigrare in Argentina ancora adolescente per sfuggire alle persecuzioni naziste. Lì completò gli studi artistici e sposò l’industriale tessile August Wild e nel ’49 mise al mondo Vivian.

Tuttavia, il clima politico nel paese sudamericano era in rapido cambiamento, e quando il regime di Peron decise di nazionalizzare le aziende private, la famiglia Wild tornò in Europa. Non in Austria: per esorcizzare i fantasmi del passato scelsero Basilea in Svizzera. Vivian Suter allora aveva dodici anni e si adattò bene al nuovo contesto.

Exhibition view, Collages by Elisabeth Wild in "Disco", Vivian Suter. Palais de Tokyo (Paris), 12.06-07.09.2025

Studia arte; negli anni ’70 già partecipa a una collettiva e nell’81 viene addirittura inserita in una mostra nel museo d’arte contemporanea di Basilea. Nel frattempo però coltiva una crescente insofferenza per l’ambiente sociale dell’epoca (è timida e le pubbliche relazioni non le vanno giù). Ma soprattutto conosce e sposa, Martin Suter (che sarebbe diventato un famoso scrittore). Artisticamente decide di prenderne il cognome, ma il matrimonio non è altrettanto durevole: divorzia.

A questo punto parte per un viaggio alla scoperta dei siti archeologici mesoamericani; e un giorno raggiunge la cittadina di Panajachel, sulla sponda nord-orientale del lago Atitlán in Guatemala. Ci arriva per caso, all’inizio degli anni ’80, quando il Paese era immerso in una sanguinosa guerra civile che si sarebbe conclusa solo nel decennio successivo. “Nessuno- ha raccontato- mi aveva detto che c’era una guerra in corso”.

Fatto sta che rimane folgorata dalla bellezza del lago: si trasferisce lì, compra casa, si innamora e fa un figlio (lui oggi è un musicista e ha preso il cognome della nonna: si chiama Franck Wild). Non molto tempo dopo la raggiunge la madre.

Copyright Vivian Suter. Courtesy of the artist and Karma International, Zurich; Gladstone Gallery, New York and Brussels; House of Gaga, Mexico City and Los Angeles; and Proyectos Ultravioleta, Guatemala City. Photo credit: Flavio Kerrer

La signora Suter attraversa indenne la guerra civile guatemalteca ma non è così fortunata quando (nei primi anni duemila) degli eventi metereologici estremi colpiscono la zona: è un disastro, acqua e fango si abbattono sulla ex-piantagione di caffè e rovinano tutto, inclusi i dipinti dell’artista.

Quello però per lei è anche il momento della svolta: “All'epoca la consideravo semplicemente una catastrofe- ha raccontato in un’intervista rilasciata qualche anno fa- ma man mano che le opere si asciugavano, i colori hanno cominciato a emergere e ho capito che dovevo iniziare a lavorare con la natura e non contro di essa”.

Da allora dipinge tutti i giorni all’aperto (sia con il sole che sotto la pioggia). E non solo non cerca di ricoverare le opere ma le espone volontariamente agli elementi e al caso (mette le tele ad asciugare per terra, in vari punti del giardino, o le appende in un angolo senza curarsene). Talvolta si serve volontariamente di elementi organici (come l’acqua piovana e certe piante), ma più spesso sono loro a entrare a far parte dei lavori: come le foglie che cadendo si attaccano alla colla con cui impregna la superficie delle tele, la terra che incrosta qua e là il pigmento, o le impronte che i suoi cani, ogni tanto, lasciano sulla pittura fresca.

I dipinti (sempre senza data e titolo) sono un susseguirsi di pennellate veloci, spesse, gestuali, molto espressive; da cui emergono forme semplici come cerchi o onde, foglie e fiori stilizzati. Complessi nella tessitura e nello stratificarsi della materia mentre i colori colano, si spandono e lottano per prendere il sopravvento o semplicemente si adagiano pigri in forme seminali. Cromaticamente sono ricchi, a momenti allegri; qualcuno li ha definiti “un distillato di tropici”. La signora Suter invece ha detto: “Dipingo principalmente la natura, come foglie, alberi, rami e frutta. Mi piace anche dipingere i suoni. Quando sono fuori in giardino, sento i suoni del paese: la chiesa, gli uccelli, i cani...

Disco” di Vivian Suter (con ben 500 opere esposte) è una personale completa, al limite della retrospettiva, anche se le tele non sono disposte in ordine cronologico (impresa per altro impossibile, visto che la stessa artista non è in grado di capire precisamente a quando risalgano). Rimarrà al PalaPalais de Tokyo di Parigi fino al 7 settembre 2025.

Copyright Vivian Suter. Courtesy of the artist and Karma International, Zurich; Gladstone Gallery, New York and Brussels; House of Gaga, Mexico City and Los Angeles; and Proyectos Ultravioleta, Guatemala City. Photo credit: Sebastian Lendenmann

Exhibition view, Vivian Suter, "Disco", Palais de Tokyo (Paris), 12.06-07.09.2025  Copyright Vivian Suter Courtesy of Karma International, Zurich; Gladstone, New York / Bruxelles / Séoul; Gaga, Mexico DF; Proyectos Ultravioleta, Guatemala City Photo credit: Aurélien Mole

Copyright Vivian Suter. Courtesy of the artist and Karma International, Zurich; Gladstone Gallery, New York and Brussels; House of Gaga, Mexico City and Los Angeles; and Proyectos Ultravioleta, Guatemala City. Photo credit: Flavio Kerrer

Exhibition view, Vivian Suter, "Disco", Palais de Tokyo (Paris), 12.06-07.09.2025  Copyright Vivian Suter Courtesy of Karma International, Zurich; Gladstone, New York / Bruxelles / Séoul; Gaga, Mexico DF; Proyectos Ultravioleta, Guatemala City Photo credit: Aurélien Mole

Copyright Vivian Suter. Courtesy of the artist and Karma International, Zurich; Gladstone Gallery, New York and Brussels; House of Gaga, Mexico City and Los Angeles; and Proyectos Ultravioleta, Guatemala City. Photo credit: Flavio Kerrer

Exhibition view, Vivian Suter, "Disco", Palais de Tokyo (Paris), 12.06-07.09.2025  Copyright Vivian Suter Courtesy of Karma International, Zurich; Gladstone, New York / Bruxelles / Séoul; Gaga, Mexico DF; Proyectos Ultravioleta, Guatemala City Photo credit: Aurélien Mole

Exhibition view, Vivian Suter, "Disco", Palais de Tokyo (Paris), 12.06-07.09.2025  Copyright Vivian Suter Courtesy of Karma International, Zurich; Gladstone, New York / Bruxelles / Séoul; Gaga, Mexico DF; Proyectos Ultravioleta, Guatemala City Photo credit: Aurélien Mole

Exhibition view, Collages by Elisabeth Wild in "Disco", Vivian Suter. Palais de Tokyo (Paris), 12.06-07.09.2025

Exhibition view, Vivian Suter, "Disco", Palais de Tokyo (Paris), 12.06-07.09.2025  Copyright Vivian Suter Courtesy of Karma International, Zurich; Gladstone, New York / Bruxelles / Séoul; Gaga, Mexico DF; Proyectos Ultravioleta, Guatemala City Photo credit: Aurélien Mole

Exhibition view, Vivian Suter, "Disco", Palais de Tokyo (Paris), 12.06-07.09.2025  Copyright Vivian Suter Courtesy of Karma International, Zurich; Gladstone, New York / Bruxelles / Séoul; Gaga, Mexico DF; Proyectos Ultravioleta, Guatemala City Photo credit: Aurélien Mole

Exhibition view, Vivian Suter, "Disco", Palais de Tokyo (Paris), 12.06-07.09.2025  Copyright Vivian Suter Courtesy of Karma International, Zurich; Gladstone, New York / Bruxelles / Séoul; Gaga, Mexico DF; Proyectos Ultravioleta, Guatemala City Photo credit: Aurélien Mole

Vivian Suter Portrait, Guatemala City. Photo credit: Flavio Kerrer

La grande ed attesa retrospettiva di Jack Whitten al Moma sta per concludersi. Ma quando sarà possibile ammirare le sue opere in Europa?

“9.11.01” installato in una sala del Moma. Installation view of Jack Whitten: The Messenger, on view at The Museum of Modern Art, New York, from March 23 through August 2, 2025. Photo: Jonathan Dorado.

L’ 11 settembre del 2001, Jack Whitten era di fronte al suo palazzo a Lispenard (nel quartiere di Tribeca a New York), che aveva ristrutturato da solo dopo un incendio e che stava vendendo. Era alle prese con i pompieri e una fuga di gas, quando un aereo basso e dalla traiettoria instabile sfrecciò sopra la sua testa. Quel giorno insieme a loro c’era anche un uomo con una telecamera, che stava girando un documentario sui vigili del fuoco, così, quando tutti alzarono gli occhi al cielo e videro il primo aereo schiantarsi sul World Trade Center (poco lontano), il signor Whitten rimase nell’inquadratura che venne trasmessa nei notiziari di tutto il mondo. In seguito, tutto ciò che caratterizza quelle iniziali immagini dell’attacco (il cielo di porcellana, i riflessi di vetro e acciaio nella luce viva di fine estate, le ombre scure, il fumo, le fiamme, la polvere, il nero della tragedia) confluirono nel suo maestoso “9.11.01”. Tre metri per sei di dipinto, realizzato a mosaico con tessere di colore acrilico tagliate e riassemblate a mano, oltre ad altri materiali improbabili e pionieristici (come ceneri dell’attentato stesso e sangue).

Adesso “9.11.01” è esposto insieme ad altre oltre 175 opere dell’artista afroamericano allo Steven and Alexandra Cohen Center for Special Exhibitions del Museum of Modern Art di New York. La mostra, intitolata “Jack Whitten: the Messenger”, si dipana tra gli esordi (negli anni ’60) fin quasi alla sua morte (arriva al 2010 mentre il signor Whitten è mancato nel 2018). Presentando, oltre ai dipinti, anche sculture, lavori su carta e materiali d’archivio. Quella del Moma è la prima retrospettiva importante a lui dedicata ed era davvero molto attesa. Tanto che il New York Times l’ha inserita nell’elenco delle migliori mostre del 2025 (secondo loro undici in tutto, comprese quelle di Caravaggio, Caspar David Friedrich e Piet Mondrian).

9.11.01” è uno dei capolavori dell’esposizione. Del resto l’evento lo colpì talmente che, quando venne a sapere che i pompieri con cui aveva parlato alla mattina (poi corsi sul luogo del disastro) erano sopravvissuti, scoppiò a piangere. Tuttavia quello non è stato l’unico cambiamento epocale a cui aveva assistito nella sua non lunghissima vita.

Jack Whitten. Atopolis: For Édouard Glissant. 2014. Acrylic on canvas, 8 panels, overall 124 1/2 × 248 1/2″ (316.2 × 631.2 cm). The Museum of Modern Art, New York. Acquired through the generosity of Sid R. Bass, Lonti Ebers, Agnes Gund, Henry and Marie-Josée Kravis, Jerry Speyer and Katherine Farley, and Daniel and Brett Sundheim. © 2025 The Museum of Modern Art, New York, Photo by Jonathan Muzikar.

Nato nel ’39 a Bessemer in Alabama, proprio nel cuore del sud segregazionista degli Stati Uniti di allora, Jack Whitten, ebbe modo di vedere fin troppe violenze ed ingiustizie durante l’infanzia. In merito ha, ad esempio, raccontato: “Per tutto il liceo e le medie (scuole con insegnanti di colore e alunni di colore ndr), quando ci portavano in gita scolastica, non ci portavano mai al museo perché era off-limits per i neri. Ci portavano alle acciaierie e alle miniere di carbone, ma mai ai musei”. Oppure: “in Alabama, l'estate era calda, umida, disgustosamente calda. Una delle cose più difficili per noi bambini era passare davanti alla piscina, di proprietà comunale, pagata con i soldi dei contribuenti, e vedere ragazzi bianchi che nuotavano, mentre noi non potevamo entrare. Era dura. Era dura. Persino il parco pubblico (la piccola area ombreggiata con gli alberi, con una fontana al centro) potevamo attraversarlo a piedi, ma non ci si poteva sedere all’ombra e Dio non voglia che si andasse alla fontana”.

Forse per questo, dopo essersi iscritto a medicina nel college di Tuskegee in Alabama (in quel periodo aveva anche sentito parlare Marthin Luther King) e aver lasciato per studiare arte alla Southern University di Baton Rouge in Luisiana (entrambe università per soli neri), fu tra gli organizzatori di una delle prime marce per i diritti civili degli afroamericani. Evento che, avrebbe detto in seguito, per lui fu uno spartiacque: “Per me c’è stato un prima e un dopo”. Infatti, nonostante credesse fermamente nelle proteste non violente, l’atteggiamento della gente che aveva assistito a quella manifestazione era stato talmente aggressivo (“buttavano di tutto dalle finestre-ha ricordato una volta- la gente imprecava, ti picchiava”) da spingerlo a tagliare i ponti con il passato e trasferirsi a New York (dove continuò i suoi studi d’arte alla Cooper Union; un’università finalmente rivolta a tutti).

Lì il signor Whitten, prima da studente e poi da giovane esordiente, fece di tutto per mantenersi (dal manovale all’insegnante) mentre frequentava jazz clubs ed entrava in contatto con la vivace scena artistica newyorkese degli anni ’60 (tra gli altri conobbe: Wayne Thiebaud, Andy Wharol, che non gli era simpatico, Roy Lichtenstein, che invece stimava, e poi gli astrattisti della prima generazione come Willem de Kooning, Franz Kline, Barney Newman e Mark Rotko, oltre ai neri Romare Bearden, Jacob Lawrence e Norman Lewis; anni dopo avrebbe frequentato anche altri artisti molto diversi da lui come Jean Michael Basquiat, Nam June Paik e David Hockney).

Jack Whitten. Birmingham 1964. 1964. Aluminum foil, newsprint, stocking and oil on board, 16 5/8 x 16″ (42.2 x 40.6 cm). Collection of Joel Wachs. © Photo by John Berens, Courtesy the Jack Whitten Estate and Hauser & Wirth.

Stilisticamente (dopo l’amore per il Rinascimento italiano), sulle prime coltivò soprattutto l’affinità con Gorky e de Kooning. Faceva cose che lui stesso ha descritto come “un espressionismo figurativo astratto”, ma non ci mise molto a dedicarsi completamente all’astrattismo. Il suo però era un linguaggio diverso da quello dei suoi predecessori bianchi o neri che fossero, pionieristico e sperimentale. Sempre artigianale, perché credeva nella “trasmigrazione dello spirito” dall’artista alla materia. Caratterizzato da una ricerca incessante sui colori e gli strumenti, che a livello concettuale si tingeva di mille sfaccettature (tante quante i suoi interessi; che andavano dalla scienza, alla tecnologia, alla letteratura, alla filosofia, fino all’attualità e alla musica, in particolare il Jazz).

Il Moma nel presentare la sua mostra ha scritto: è “una storia rivelatrice dell'esplorazione dell'artista su razza, tecnologia, jazz, amore e guerra”.

Ma non ebbe vita facile: gli altri gli facevano pressione affinchè abbracciasse la figurazione come forma di attivismo. Però non desistette. Anzi, praticamente ad ogni decennio d’attività del signor Whitten, corrisponde una nuova tecnica (ma sempre astratta). Usava ogni volta l’acrilico di cui divenne un esperto (allora erano colori utilizzati in arte da poco tempo).

Detail of Jack Whitten. Four Wheel Drive. 1970. Acrylic on canvas, 98 1/4 × 98 1/4″ (249.6 × 249.6 cm). Private collection. © Jack Whitten Estate. Courtesy the Estate and Hauser & Wirth, Photo by Genevieve Hanson.

Negli anni ’70 stendeva spessi strati di pittura che sovrapponeva; in alcune colate ritardava più o meno l’asciugatura delle vernici; e poi con un grande strumento a T (che si era fatto da solo) raschiava tutto in un unico gesto. Si trattava di un processo immediato, tuttavia, lui disponeva strategicamente sotto la tela oggetti dalla diversa grana, forma e peso, in modo da controllare la quantità di pigmento che sarebbe stata portata via in un punto o nell’altro.

Ma Jack Whitten era anche capace di fare colori da zero usando polveri di ogni tipo e un legante acrilico. A volte mischiava tutto con un mixer da cucina, altre stendeva strani prodotti concepiti per usi industriali che non permettevano a niente di attaccarsi.

Detail of Jack Whitten. Atopolis: For Édouard Glissant. 2014. Acrylic on canvas, 8 panels, overall 124 1/2 × 248 1/2″ (316.2 × 631.2 cm). The Museum of Modern Art, New York. Acquired through the generosity of Sid R. Bass, Lonti Ebers, Agnes Gund, Henry and Marie-Josée Kravis, Jerry Speyer and Katherine Farley, and Daniel and Brett Sundheim. © 2025 The Museum of Modern Art, New York, Photo by Jonathan Muzikar.

Sua moglie era di origine greca e, durante un viaggio nelle isole elleniche in cui lei cercava le proprie radici e lui un albero che aveva visto in sogno, scoprì i mosaici. Per tutti gli anni ’90 ne avrebbe fatti incessantemente, usando però tessere di colore acrilico invece che di pietra (spesso per frantumarlo meglio prima lo congelava, se doveva riutilizzare le rimanenze lo polverizzava con un mortaio). Le sue tessere, disposte in modi sempre diversi, a volte richiamano dei pixel, altre frazioni di materia, altre un caos armonico, altre ancora costellazioni.

Aveva un debole per i memoriali, che dedicò a persone di colore ma anche bianche, o più raramente ad eventi storici (è il caso di “9.11.01”).

Jack Whitten. The Afro American Thunderbolt. 1983/1984. Black mulberry wood with copper plate and nails, 25 × 9 × 10″ (63.5 × 22.9 × 25.4 cm). Jack Whitten Estate. Courtesy the Estate and Hauser & Wirth. © Jack Whitten Estate. Courtesy the Estate and Hauser & Wirth, Photo by Genevieve Hanson.

Nel frattempo, quando durante l’estate si trasferiva nello studio che aveva comprato a Creta (dopo quel primo viaggio in cui erano approdati proprio lì, e dove lui aveva davvero trovato l’albero del suo sogno, la famiglia Whitten aveva continuato ad andarci), creava sculture che coniugavano l’arte dell’antico Mediterraneo a quella africana, oltre a servirsi di materiali bizzarri (come vecchi chip per computer).

Per quanto Jack Whitten abbia influenzato artisti molto noti in Europa, ha una storia espositiva principalmente centrata negli Stati Uniti e non sembra che la cosa sia destinata a cambiare a breve. La grande retrospettiva a lui dedicata, “Jack Whitten: the Messenger”, curata da Michelle Kuo (curatrice capo ed editor del Dipartimento di pittura e scultura) al Moma di New York, si concluderà il 2 agosto 2025.

Jack Whitten. Siberian Salt Grinder. 1974. Acrylic on canvas, 6’8″ x 50″ (203.2 x 127 cm). The Museum of Modern Art, New York. Nina and Gordon Bunshaft Fund and The Friends of Education of The Museum of Modern Art. © 2025 The Museum of Modern Art, New York, Photo by John Wronn.


Jack Whitten. Mirsinaki Blue. 1974. Acrylic on canvas, 62 1/8 × 72 1/8″ (157.8 × 183.2 cm). Collection of the Herbert F. Johnson Museum of Art, Cornell University. Gift of Leonard and Ruth Bocour. © 2024 Herbert F. Johnson Museum of Art, Cornell University.

Jack Whitten. Liquid Space I. 1976. Acrylic slip on paper, 20 5/8 x 20 5/8″ (52.4 x 52.4 cm). The Museum of Modern Art, New York. Purchased with funds provided by Dian Woodner in honor of The Friends of Education of The Museum of Modern Art. © 2025 The Museum of Modern Art, New York, Photo by Peter Butler.

Installation view of Jack Whitten: The Messenger, on view at The Museum of Modern Art, New York, from March 23 through August 2, 2025. Photo: Jonathan Dorado.

Installation view of Jack Whitten: The Messenger, on view at The Museum of Modern Art, New York, from March 23 through August 2, 2025. Photo: Jonathan Dorado.

Portrait of Jack Whitten with Pink Psyche Queen (1973), ca. 1975 © Jack Whitten Estate. Courtesy the Estate and Hauser & Wirth.

Sessant’anni d’arte (e pazienza) di Vija Celmins sono in mostra alla Fondazione Beyeler

Vija Celmins, Lamp #1, 1964 Oil on canvas, 62.2 x 88.9 cm Vija Celmins, Courtesy Matthew Marks Gallery © Vija Celmins, Courtesy Matthew Marks Gallery Photo: Aaron Wax, Courtesy Matthew Marks Gallery

La superficie, meticolosamente e uniformemente dipinta, ha un vero e proprio spessore; incrostazioni piccole e lievi di colore si intravedono qua e là, mentre un universo di toni delicati d’azzurro e beige lasciano spazio all’occhio di vagare, prima che stelle scure come la pece ma così distanti da vedersi appena, lo catturino. E’ l’insidia dei particolari.

E per quanto “Astrographic Blue” (realizzato tra il 2019 e il 2024) sia un olio particolarmente ambiguo, l’intera opera dell’artista statunitense di origine lettone, Vija Celmins, tende a giocare lo stesso scherzo: promette allo sguardo la pace di una visione poco impegnativa e alla fine lo intrappola come un insetto su una ragnatela, condannandolo a vagare da un dettaglio all’altro.

D’altra parte le ragnatele sono tra i suoi soggetti preferiti. Insieme a nuvole ma soprattutto: distese oceaniche, cieli stellati, superfici desertiche e, ultimamente, fiocchi di neve colti durante tumultuose tempeste. Si tratta di immagini incredibilmente dense di particolari che però hanno solo una vaga profondità, si ripetono identiche a se stesse, sono prive di un centro, di un inizio o una fine, e rifiutano quasi del tutto il colore. Lei in merito ha detto: “Mi piacciono i grandi spazi, li inserisco in una piccola area e dico: 'Sdraiati e resta lì, come un bravo cane'” (non è una frase casuale: ama i cani anche se adesso vive con un grosso gatto).

Ha anche detto di non copiare le fotografie: “ricostruisco le immagini”.

Tant’è vero che durante la sua carriera sessantennale di pittrice, disegnatrice, incisore e, in qualche modo, scultrice, Vija Celmins ha prodotto soltanto 220 lavori. Novanta di questi sono ora esposti alla Fondazione Beyeler di Riehen (un delizioso comune svizzero a una decina di minuti da Basilea) che le sta dedicando una sontuosa retrospettiva, diretta dalla curatrice capo della fondazione, Theodora Vischer, e dallo scrittore e curatore indipendente, James Lingwood. Cui hanno accostato un importante catalogo che sottolinea il lirismo dell’opera della signora Celmins con testi di scrittori e poeti ma anche la sua disciplina e il suo talento con quelli di altri artisti.

Tra loro la sudafricana Marlene Dumas (che ha recentemente portato a casa un record d’asta da 6,3 milioni, durante una stagione commerciale molto fiacca) ha scritto: “Per quanto tetri siano gli oceani, i campi stellati sono magnifici. Lei ha salvato le stelle dal luccichio di Hollywood. Vuole densità e resistenza, non intrattenimento magico. Nessuno può farle sembrare reali come lei. E poi le ragnatele, sono le più fragili e forse quindi le più belle. Ha pazienza e una disciplina che si vede. Tutto ciò che non è essenziale lo cancella, cancellando così anche se stessa dal risultato finale”.

Anche la signora Celmins da parecchi anni a questa parte economicamente se la cava bene (i suoi dipinti sono in genere venduti per un minimo di tre milioni). E già prima di questa retrospettiva in Svizzera il suo lavoro era stato al centro di mostre al Moma e al Whitney di New York , al Los Angeles County Museum, al San Francisco Museum of Modern Art , all'Institute of Contemporary Arts di Londra e al Centre Pompidou di Parigi. Nonostante ciò al di fuori del mondo dell’arte il suo nome resta poco conosciuto, sia per la sua produzione limitata che per una certa ritrosia a promuovere in qualsiasi modo la propria opera (rilascia rare interviste, ad esempio).

Anche per questo, la retrospettiva alla Fondazione Beyeler, dove viene, tra le altre cose, proiettato il cortometraggio, “Vija”, dei famosi registi Bêka & Lemoine (“in cui l’artista- spiega il museo- riflette sulla pratica artistica di una vita aprendo nel contempo le porte del suo atelier e persino i cassetti del suo archivio”) è un’occasione fuori dall’ordinario per conoscerla.

Vija Celmins, Untitled (Web #1), 1999 Senza titolo (Rete #1) Carbocino su carta, 56,5 x 64,9 cm Tate, ARTIST ROOMS acquisito congiuntamente con le National Galleries of Scotland grazie alla donazione d’Offay con il sostegno del National Heritage Memorial Fund edell’Art Fund 2008 © Vija Celmins, Courtesy Matthew Marks Gallery Foto: Tate

Nata a Riga nel 1938, Vija Celmins, fu costretta a scappare insieme alla sua famiglia dalla Lettonia già nel ’44 mentre l’Armata Rossa stava prendendo il controllo del Paese. Fuggirono su una nave tedesca durante l’epilogo della Seconda guerra mondiale per poi trasferirsi da un campo profughi all’altro, esponendosi al rischio di attacchi americani o inglesi. Ma se la cavarono, e nel ’48 il Church World Service li aiutò a ricominciare una vita negli Stati Uniti. Finirono ad Indianapolis, una città che alla piccola Vija non piaceva.

L’inizio fu difficile, visto che non sapeva nemmeno una parola di inglese e in quel periodo disegnare per lei fu un conforto e una medicina. Leggeva anche molto e le pagine di un fumetto le permisero di imparare l’inglese scritto.

Comunque nel giro di un lasso di tempo non troppo lungo si integrò completamente. Indianapolis però continuava a non piacerle e, quando fu il momento, andò a studiare all’UCLA di Los Angeles in California (tra i suoi insegnanti c’era Robert Irwin). Di lì si sarebbe spostata visitando i deserti che tanto spazio poi avrebbero avuto nella sua opera (li vide anche dall’alto, su aerei pilotati dai colleghi James Turrell e Doug Wheeler).

Ma la decisione di vivere sulla costa Est, avvenuta dopo uno scambio di abitazione con la collega Barbara Kruger, fu più ragionata (gli artisti che conobbe lì le parvero più concentrati ed ambiziosi; tra loro: Richard Serra, Joel Shapiro e Chuck Close; le vibrazioni nell’aria erano più in sintonia con il suo approccio alla pratica e i suoi obiettivi). E per questo definitiva: ancora oggi ha uno studio a Long Island (un’isola costiera di fronte a New York) e un piccolo loft a Soho (nel distretto di Manhattan).

All’inizio della sua carriera la signora Celmins aveva dipinto i pochi oggetti che arredavano il suo appartamento da studentessa (in realtà un negozio sfitto nel quartiere Venice di Los Angeles): una lampada a stelo, una stufetta elettrica ecc. E’ chiaro che la sua intenzione non era quella di esaltare gli oggetti della nuova quotidianità post-bellica, anche se l’influsso delle nature morte di Giorgio Morandi (artista che per lei era un mito e la cui opera aveva avuto modo di vedere nel corso di un viaggio in Italia) li riveste di una patina vitale che, a contatto con il loro aspetto misero, diventa inquietante. Siamo negli anni ’60, quelli della Pop art, che ha influenzato questi dipinti così come le sculture di pettini e matite sovradimensionati (in questo caso anche il Surrealismo ha fatto la sua parte).

La guerra in Vietnam cambierà tutto e la signora Celmins comincerà a dipingere gli aerei militari americani di un'altra guerra, quelli che tanto l’avevano spaventata durante la sua infanzia (oltre a rivolte e conflitti violenti in genere).

Vija Celmins, Untitled (Big Sea #2), 1969 Senza titolo (Grande oceano #2) Grafite su fondo acrilico su carta, 85,1 x 111,8 cm Collezione privata © Vija Celmins, Courtesy Matthew Marks Gallery

Ma lei non era contenta della direzione che stava prendendo il suo lavoro e optò per una mossa drastica: smise di dipingere. Da allora e fino agli anni ’80 disegnò soltanto. Visto che quel che cercava di fare era distaccarsi dall’immagine e indurre lo spettatore ad esplorarla senza innescare in lui alcun sentimento in qualche modo sull’onda del Minimalismo, cancellando di fatto la linea che separa figurazione ed astrazione, le matite le sembravano un mezzo adatto a raggiungere il suo scopo.

Usava fogli piccoli e una sola matita alla volta, abolì completamente il colore. I soggetti li prendeva da fotografie che aveva scattato lei stessa, e che in seguito continuò a riutilizzare (quelle della superficie della luna e dei pianeti erano invece della Nasa). Le onde sull’oceano furono il suo primo esperimento (e sarebbero diventate un tema classico nella sua produzione): cominciava dall’angolo in basso a destra e terminava con quello in alto a sinistra, procedendo dal basso verso l’alto e poi dall’alto verso il basso; per creare i chiaroscuri delle onde, invece, si limitava ad esercitare una pressione diversa sulla matita. Non cancellava mai

Nel ’79 le venne l’idea di raccogliere dei sassi di fiume che trovava particolarmente belli e rappresentativi e provare a riprodurli fedelmente per poi accostare quelli veri alla loro rappresentazione. Per farlo fece fare delle fusioni in bronzo della forma e poi dipinse la superficie con pennelli minuscoli con cui imitava ogni microscopica macchiolina di colore (in quest’opera alcuni hanno visto l’infusso di Jasper Johns, altro maestro che aveva avuto occasione di conoscere). Vennero talmente bene che persino lei pare faccia fatica a distinguerli. Anche se per finirle impiegò cinque anni.

Vija Celmins, To Fix the Image in Memory I-XI, 1977-1982 Fissare l’immagine nella memoria I-XI Undici pietre e undici oggetti creati (bronzo e colore acrilico), dimensioni variabili The Museum of Modern Art, New York. Dono di Edward R. Broida in onore di David e Renee McKee, 2005 © Vija Celmins, Courtesy Matthew Marks Gallery Foto: Digital image, The Museum of Modern Art, New York/Scala, Florence

Da quel momento in avanti riprese a dipingere. Cieli notturni, galassie, porzioni d’oceano, distese desertiche e, in tempi recenti anche neve. La sua tecnica l’autore e critico statunitense, Calvin Tomkins, l’ha descritta così nel ritratto che le ha dedicato sulla rivista New Yorker: “Dopo aver ottenuto l'immagine iniziale su tela, ricopre ogni stella con una minuscola goccia di cemento liquido e, quando questo si indurisce, ridipinge l'immagine. Può ripetere questo processo venti volte o più, carteggiando l'intera superficie, prima di stendere lo strato successivo di nero avorio mescolato con terra d'ombra bruciata, blu oltremare e a volte un tocco di bianco. Quando decide che lo sfondo è sufficientemente sviluppato, raschia via il cemento e, usando il pennello di zibellino più piccolo, riempie i piccoli buchi con vernice bianca mescolata con blu ceruleo, o a volte terra d'ombra naturale o ocra gialla”. La signora Celmins gli ha anche detto che più di una volta ha dovuto buttare dei dipinti per il troppo carteggiare. D’altra parte, lei, non si è mai fatta problemi a ricominciare da capo un lavoro che non la soddisfaceva.

Le ragnatele (altro suo soggetto molto esplorato), a differenza dei disegni delle onde, sono fatte con il carboncino sovrapposto in numerosi strati per poi creare le forme cancellando.

In un modo o nell’altro la tecnica della signora Celmins richiede pazienza, tempo e dedizione. Umiltà e fiducia nella propria perseveranza che si potrebbero paragonare al tentativo di svuotare la mente attraverso l’arte di alcuni suoi colleghi in Oriente. Non fosse che il suo lavoro per gran parte del tempo richiede anche attenzione.

Lei in merito ha detto: “Per quanto il mio lavoro si avvicini ai fatti, rimane pur sempre finzione, inventata e realizzata a mano. Le immagini trovate da cui dipendo mi permettono di dedicare molto tempo alla cura dell'opera, stendendo un'immagine più e più volte sulla superficie in modo che appartenga a quel luogo e a nessun altro. Quest'opera è la registrazione di uno sguardo indagatore e intenso, qualcosa di interiore che passa da me a essa e qualcosa che essa mi dice. Una relazione (…)”.

L’importante retrospettiva che la Fondazione Beyeler dedica a Vija Celmins, prende in considerazione l’intera produzione dell’artista statunitense (comprese stampe e sculture) dagli anni ’60 fino ai giorni nostri. Si concluderà il prossimo 21 settembre.

Vija Celmins, Astrographic Blue, 2019-2024 Blu astrografico Olio su tela, 50 x 33 cm Matthew Marks Gallery © Vija Celmins, Courtesy Matthew Marks Gallery Foto: Aaron Wax, Courtesy Matthew Marks Gallery

Vija Celmins Untitled (Regular Desert), 1973 Senza titolo (Deserto uniforme) Grafite su fondo acrilico su carta, 30,5 x 38,1 cm Collezione privata © Vija Celmins, Courtesy Matthew Marks Gallery Foto: Kent Pell

Vija Celmins Plate, 2013-2023 Oil on canvas, 45.7 x 33.6 Private Collection, Courtesy Matthew Marks Gallery ©Vija Celmins, Courtesy Matthew Marks Gallery Photo: Aaron Wax, Courtesy Matthew Marks Gallery

Vija Celmins, Shell, 2009-2010 Oil on canvas, 45.7 x 33 cm Private Collection ©Vija Celmins, Courtesy Matthew Marks Gallery

Installation view «Vija Celmins», Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 Photo: Mark Niedermann

Installation view «Vija Celmins», Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 Photo: Mark Niedermann

Installation view «Vija Celmins», Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 Photo: Mark Niedermann

Installation view «Vija Celmins», Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 Photo: Mark Niedermann

Installation view «Vija Celmins», Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2025 Photo: Mark Niedermann