I colori incredibili, quasi psichedelici, dell'Europa bellica e post-bellica nella fotografia di Werner Bischof

Werner Bischof Modella con rosa Zurigo, Svizzera 1939. Stampa a getto d'inchiostro da ricostruzione digitale, 2022. C Werner Bischof Estate / Magnum Photos

Werner Bischof, l’artista- fotografo svizzero che, più di ogni altro, raccontò con crudo realismo e poetica partecipazione lo sfacelo prodotto in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale, aprirà la stagione espositiva 2023 del Masi di Lugano. Ma al centro dell’importante mostra, non gli scatti in bianco e nero che hanno fatto la storia, ma un mondo vivo di colori intensissimi ed inaspettati. Mai visti.

Non a caso l’esposizione si intitola proprio così: “Unseen Color”.

Un aspetto quello del colore, trattato poco o niente, all’interno della produzione di Bischof e che introduce sia nuovi elementi nello studio del suo lavoro, che interrogativi su quale sarebbe stato il ruolo della fotografia non in bianco e nero nella sua opera, se fosse vissuto più a lungo.

Nato a Zurigo (nella Svizzera tedesca) da una famiglia benestante di imprenditori, Werner Bischof, che aveva manifestato presto il desiderio di dedicarsi all’arte e altrettanto presto aveva cominciato a scattare fotografie (a 20 anni, appena competati gli studi, apre uno studio fotografico di moda e pubblicità), infatti, morirà a soli 38 anni in un incidente d’auto sulle Ande peruviane.

Di mezzo, il suo servizio nelle forze armate svizzere durante il periodo bellico, un grande impegno nel documentare la bellezza della natura, attraverso composizioni formalmente perfette ed esperimenti pionieristici, per arginare il disgregarsi del mondo che vedeva intorno a lui. E poi l’urgenza di uscire a documentare il dolore e la devastazione prodotta in Europa dal conflitto. Fino all’adesione alla neocostituita agenzia Magnum Photos e ai viaggi in India, sud-est asiatico, Giappone, Stati Uniti e America centrale.

Saranno proprio le fotografie a colori del Giappone ad avere la maggior eco tra quelle scattate in tutta la sua carriera. Vuoi perchè Bischof, qui usa il colore per esprimere stati d’animo, vuoi perchè nel libro “Japon”, che vincerà il premio Nadar nel ‘55 (la prima edizione, un anno dopo la sua morte), le immagini in bianco e nero vengono alternate a quelle a colori.

Werner Bischof però aveva cominciato molto prima ad intuire le potenzialità degli scatti a colori. Cosa che adesso potrebbe sembrare scontata ma che nella prima metà del ‘900 non lo era affatto. La fotografia a colori, infatti, complici le pesanti fotocamere necessarie a realizzarla, era considerata mero mezzo per la pubblicità, inacettabile sia per fare arte che per documentare i fatti di cronaca.

Bischof invece la userà in vari contesti e con diversi scopi, dal ‘39 agli anni ‘50. Ci sono le atmosfere di sospensione create dal contrasto tra le città in rovina e i toni vivi della fotografia, l’uso del colore per creare dinamismo negli scatti studiati della popolazione rurale italiana e quello per cogliere la gioia pesante e assorta dei perdenti, ancora vivi, in mezzo allo sfacelo. O ancora per documentare le differenze culturali durante un viaggio.

Unseen Color” procede attraverso il lavoro del fotografo svizzero in senso cronologico, ma ha la particolarità di dividere il vasto materiale (circa 100 stampe digitali a colori da negativi originali restaurati per l’occasione), in tre capitoli che cambiano in base alla macchina fotografica usata da Bischof. Il quale ne ebbe 3: una Devin Tri-Color Camera, macchina ingombrante, che utilizzava il sistema della tricromia, ma garantiva una resa del colore di alta qualità; un’agiIe Leica, dal formato tascabile; una Rolleiflex, dai negativi quadrati.

I colori inaspettati e spesso di una vividezza sconcertante, quasi psichedelica, della fotografia di Werner Bischof, saranno in mostra nello spazio Lac del Masi di Lugano dal prossimo 12 febbraio fino al 2 luglio 2023.

Werner Bischof Il Reichstag, Berlino, Germania, 1946. Stampa a getto d'inchiostro da ricostruzione digitale, 2022. C Werner Bischof Estate / Magnum Photos

Werner Bischof Orchidee (studio) Zurigo, Svizzera 1943. Stampa a getto d'inchiostro da ricostruzione digitale, 2022. C Werner Bischof Estate / Magnum Photos

Werner Bischof Essicazione del grano Castel di Sangro, Italia 1946. Stampa a getto d'inchiostro da ricostruzione digitale, 2022. C Werner Bischof Estate / Magnum Photos

Werner Bischof, Studio. Zurigo, Svizzera 1943. Stampa a getto d'inchiostro da ricostruzione digitale, 2022. C Werner Bischof Estate / Magnum Photos

Werner Bischof, “Trùmmerfrauen" (donne delle macerie) Berlino, Germania, 1946. Stampa a getto d'inchiostro da ricostruzione digitale, 2022. C Werner Bischof Estate / Magnum Photos

Il ritmo sincopato delle emozioni nella fotografia di Ming Smith e della black-culture degli anni '70

Ming Smith. Womb, 1992. Courtesy of the artist. © Ming Smith

Artista afroamericana che ha usato la fotografia come mezzo espressivo principale, Ming Smith, ha dovuto percorrere un cammino lunghissimo per arrivare a veder riconosciuto il suo talento rivoluzionario. A febbraio il Museum of Modern Art di New York (il famosissimo Moma), le dedica una personale ("Projects: Ming Smith") ma è già da qualche anno che il valore dell’artista nata a Detroit è stato rivalutato. E persino la The Women's National Basketball Association (WNBA) ha voluto che fosse il suo obbiettivo a immortalare le atlete.

D’altra parte, Smith, arrivata a New York agli inizi degli anni ‘70 per lavorare come modella, è stata la prima fotografo donna afroamericana ad essere acquisita dal Moma (già nel ‘79), la prima donna ad unirsi allo storico collettivo fotografico degli anni ‘60 Kamoinge (talmente iconico in un certo contesto culturale da esistere ancora adesso). Ed ha ritratto tutte le celebrità nere di quel periodo, da Nina Simone a Grace Jones fino ad Alice Coltrane (erano, tra l’altro, tutte del suo quartiere).

Senza per questo essere diventata in men che non si dica, un’artista famosa. Anzi.

Ed è strano, perchè il suo lavoro, rivoluzionario e onirico, a tratti pervaso da una carica mistica laica, è vibrante e virtuso al tempo stesso. Appare fresco anche a distanza di decenni. E terribilmente complicato da realizzare dal punto di vista tecnico.

Smith, infatti, fotografava quello che vedeva per le strade dove viveva la sua comunità. Ma non le interessava la documentazione dei fatti. A starle a cuore era il fissare in modo indelebile l’esperienza della realtà. Per questo oggi, quando si parla della sua opera, si fa spesso ricorso all’aggettivo “surreale”.

"Si tratta di cercare energia, respiro e luce- ha spiegato l'artista- L'immagine è sempre in movimento, anche se sei fermo".

Più facile a dirsi che a farsi. Soprattutto quando la fotografia era su pellicola. Smith per riuscirci ha usato un imprecisato numero di tecniche ed espedienti diversi. Talvolta contemporaneamente. Si va dal fotografare i suoi soggetti da prospettive oblique, fino a giochi di messa a fuoco o alla doppia esposizione. Ma anche collage e pittura su stampe.

Ricca di chiaroscuri, la sua opera, mette in discussione il concetto di individuo. Che talvolta scompare, parzialmente o del tutto, mentre si muove verso una direzione imprecisata o compie azioni sul posto. A dominare è il quadro generale.

Lo scenario in cui le figure si inseriscono e che le avvolge fino a farle a pezzi o tramutarle in ombre.

In proposito, tempo fa, ha osservato il curatore e storico dell’arte Maurice Berger (mancato nel 2020): “I soggetti di Smith sono spesso sospesi tra visibilità e invisibilità: volti girati dall'altra parte, sfocati o avvolti nell'ombra, nella nebbia o nell'oscurità, una potente metafora della lotta per la visibilità afroamericana in una cultura in cui uomini e donne di colore erano denigrati, cancellati o ignorati”. Soprattutto le donne.

Lei in merito, infatti, è stata ancora più diretta: "Essere un fotografo donna di colore era come non essere nessuno, eravamo solo io e la mia macchina fotografica".

Ma il lavoro di Smith, è ricco di sfacettature. A tratti pensieroso, demoralizzato o semplicemente poetico, a momenti reattivo, ritmico. O ancora, animato da uno slancio vitale irrefrenabile. Che l’artista ha paragonato alla musica e al blues, in particolare.

La mostra "Projects: Ming Smith",  realizzata dal Moma in collaborazione con The Studio Museum di Harlem, si inugurerà il prossimo 4 febbraio (fino al 29 maggio 2023), nelle gallerie livello strada del museo statunitense. Per farsi un’idea più chiara del lavoro cinquantennale di Ming Smith, tuttavia, è pure possibile semplicemente consultare il sito internet dell’artista o l’account instagram

Ming Smith, August Blues, from “Invisible Man.” 1991. Courtesy of the artist. © Ming Smith

Ming Smith, African Burial Ground, Sacred Space, from “Invisible Man.” 1991. Courtesy of the artist. © Ming Smith

Ming Smith, The Window Overlooking Wheatland Street Was My First Dreaming Place. 1979. Courtesy of the artist. © Ming Smith

Ming Smith, Sun Ra Space II. 1978. Courtesy of the artist. © Ming Smith

Con un progetto di fotogrammetria durato anni, l'artista Caterina Erica Shanta fa rivivere il carro trionfale della Festa della Bruna di Matera

Caterina Erica Shanta, Il Cielo Stellato, videostill

Perso in uno spazio grigio tra rituale e attuale, concreto e astratto, autografo e condiviso, storico e contemporaneo, il progetto “Il Cielo Stellato”, della giovane artista di origine tedesca, Caterina Erica Shanta, mette al centro la Festa della Madonna della Bruna di Matera. E, in particolare, il suo carro, ricostruito da Shanta con un progetto di fotogrammetria durato anni.

Nata nell’86, Caterina Erica Shanta, si è formata a Venezia ma vive a Pordenone. Artista e regista, in genere ricorre al video e al linguaggio del cinema documentario per investigare le immagini prodotte da altri. Secondo lei, infatti, il continuo uso dello smartphone per immortalare la realtà, distorce il presente in un coro polifonico privo di concretezza, nel momento stesso in cui gli eventi si verificano. Rendendoli, di fatto, impalpabili ed astratti. Oltre che un’importante testimonianza di cambiamenti: sociali, culturali, tecnologici.

Ed è in questa prospettiva che si è interessata alla Festa della Madonna della Bruna di Matera. Un rito antico, che coniuga una parte religiosa e una pagana. Ogni anno, infatti, gli artigiani sulla base di un brano del Vangelo indicato dall’Arcivescovo, creano un carro triofale in cartapesta per comunicare il carattere effimero della vita. Naturalmente, quest’ultimo sfila per un lungo percorso, finchè non arriva nella piazza della cittadina, dove i fedeli lo distruggono, per portarsi a casa una reliquia benedetta ed ingraziarsi la buona sorte.

Oggi quello è anche il momento in cui tutti alzano il telefonino per catturare immagini e video.

Nell’affollatissima piazza principale- racconta l'artista- smartphone e macchine fotografiche sopra le teste del pubblico sono puntate sull’imminente ‘strazzo’ del Carro Trionfale. L’aria è elettrica, nell’attesa del momento cruciale della festa.

Caterina Erica Shanta su quel momento topico ha girato un film di media lunghezza, raccolto materiale d’archivio e realizzato una serie d’immagini con la tecnica della fotogrammetria. Cioè, quella tecnologia capace di generare modelli tridimensionali, a partire da una serie di fotografie scattate attorno ad un soggetto centrale. Una pratica resa spesso difficile dal numero di immagini necessarie.

Non nel caso della Festa della Madonna della Bruna, però.

"Il Carro in cartapesta sopraggiunge trainato da muli in corsa-continua Shanta- La piazza si contrae e si lancia, il gigante scompare sotto gli occhi di tutti, diviso in migliaia di frammenti. Nell’attimo prima della sua evanescenza, la piazza costellata di dispositivi ha inconsapevolmente astratto e duplicato il grande artefatto. È una nube di punti, una fotogrammetria composta da vettori luminosi nello spazio nero virtuale: il terzo cielo stellato”.

Il film, il materiale d’archivio e le immagini in fotogrammetria sono diventate anche una mostra che si intitola, appunto “Il cielo stellato”. E che, si è appena inaugurata alla Fabbrica del Vapore di Milano.

Shanta si preparava alla realizzazione di questo progetto da anni. Con ogni probabilità non a questa mostra (che avrà preventivato in tempi relativamente recenti), ma le immagini in fotogrammetria sono il risultato di un impengno durato molto a lungo. L’artista, infatti, raccoglieva le fotografie (scattate da altri) della distruzione del carro trionfale di Matera, da diverse edizioni della manifestazione, ormai. E aveva materiale per realizzazioni tridimensionali perfette. Colte da ogni angolo di visuale possibile.

Il cielo stellato” di Caterina Erica Shanta è a cura di Marta Cereda, e si tiene nello spazio Careof della Fabbrica del Vapore di Milano (dal 24 gennaio fino al 17 marzo 2023). Per chi è lontano dalla Lombardia, l’artista ha condiviso alcune delle immagini in fotogrammetria sul suo account instagram.

Caterina Erica Shanta, Il Cielo Stellato, backstage

Caterina Erica Shanta, Il Cielo Stellato, dettaglio

Caterina Erica Shanta, Il Cielo Stellato, videostill

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