In Svizzera dopo vent’anni la grande fotografia di Jeff Wall, che cita la pittura e rivendica il diritto di artefare la spontanea bizzarria della quotidianità

Jeff Wall, A Sudden Gust of Wind (after Hokusai), 1993 Transparency in lightbox, 229 x 377 cm Glenstone Museum, Potomac, Maryland © Jeff Wall

Figura cardine della ricerca artistica contemporanea attraverso la fotografia, capace di fondere all’immagine elementi che richiamano altre discipline (come pittura, cinema, e teatro), il canadese Jeff Wall, sarà protagonista di un’importante mostra personale alla Fondazione Beyeler di Riehen. L’esposizione, che inaugurerà la programmazione 2024 del museo progettato da Renzo Piano nei pressi di Basilea, è la prima in Svizzera dopo quasi vent’anni per Wall e sarà composta da 50 opere (quasi tutte di grande formato). Arrotondando, si potrebbe dire: una per ogni anno di carriera dell’artista.

Nato nel ’46 a Vancouver, Jeff Wall infatti, si dedica all’arte fin dagli anni ’60 quando, studente alla Università della British Columbia, produce dei lavori concettuali pittorici. Ma poi smette, per ritornare con quello che sarebbe diventato il suo stile distintivo (fotografia a stampa lucida montata su light box) solo nel ’77, dopo un viaggio in Europa in cui vede molti musei e nota dei cartelloni pubblicitari illuminati. L’idea di usare le insegne luminose, che ai tempi cominciavano a rafforzare l’impatto delle foto pubblicitarie, gli viene allora. E si rivelerà una scelta vincente: con quelle grandi immagini retroilluminate, Wall, interpreta lo spirito del tempo e porta per mano l’arte verso un periodo storico diverso. Ovviamente non finisce lì, perchè Jeff Wall, fin dal principio, si distacca dalla fotografia come documentazione del reale, anzi mette proprio in discussione l’assioma secondo il quale sia fatta per cogliere l’attimo. E infarcisce le sue immagine di riferimenti alla pittura (nella composizione, nei colori, nel modo in cui cade la luce), basti pensare che esordisce con “The Destroyed Room” (1978), un groviglio di indumenti ammassati e materassi lacerati, ispirato a “La morte di Sardanapalo” di Eugène Delacroix. Poi verranno i cenni alla letteratura, al teatro e, naturalmente, al cinema (cui tutte e sue emblematiche immagini si legano come singoli fotogrammi di narrazioni che ci sono precluse).

Con le sue immagini che rivendicano il diritto di essere belle, poetiche, colte e persino garbatamente bizzarre, Jeff Wall diventerà un punto di riferimento per gli artisti della Scuola di Düsseldorf e insieme a uno di loro (Andreas Gursky) e a Cindy Sherman sarà uno degli artisti che usano la fotografia più costosi mai battuti in asta.

Il suo lavoro ha sempre richiesto tempo, attori e non ha disdegnato la tecnologia per raggiungere il risultato desiderato. Non a caso una delle sue opere più conosciute è “A Sudden Gust of Wind (after Hokusai)”(1993), che ricrea al giorno d’oggi, con la fotografia, nelle pianure nei pressi di Vancouver, la xilografia giapponese ottocentesca, “Stazione Yejiri, Provincia di Suruga” di Hokusai, ha richiesto più di un anno per scattare le 100 immagini idonee a “ottenere un montaggio senza soluzione di continuità che dia l'illusione di catturare un momento reale."

Il rifiuto di Wall a condannare la fotografia alla mortalità consegnandola allo scorrere del tempo è fermo, anche nella sua seconda linea di ricerca, quella in cui costruisce scene della quotidianità (un ragazzo disegna dei motivi sulla sua maschera con un pennarello, un uomo sorregge dei pesi, una bimba si butta per terra sul marciapiede ecc.) apparentemente rubate in giro per le strade, con prove attori e post-produzione.

In un’intervista ha detto a proposito della fotografia: “Stiamo ancora scoprendo cosa sia questa miscela di realtà, reportage, performance, ricostruzione e composizione come forma d’arte

La mostra di Jeff Wall alla Fondazione Beyeler oltre a ripercorrere tutta la carriera dell’artista canadese darà ampio spazio alla sua produzione degli ultimi anni, presentando anche lavori che non sono mai stati esposti prima. Si inaugurerà il prossimo 28 gennaio e proseguirà fino 21 aprile 2024.

Jeff Wall, Summer Afternoons, 2013 Two lightjet prints; left: 183 x 212.4 cm; right: 200 x 250 cm The George Economou Collection © Jeff Wall

Jeff Wall, Boy falls from tree, 2010 Lightjet print, 226 x 305.3 cm Emanuel Hoffmann Foundation, gift from the President 2012, on permanent loan to the Öffentliche Kunstsammlung Basel © Jeff Wall

Jeff Wall, Mask maker, 2015 Inkjet print, 167.4 x 134.5 cm Courtesy of Jeff Wall and White Cube © Jeff Wall

Jeff Wall, In front of a nightclub, 2006 Transparency in lightbox, 226 x 360.8 cm Courtesy of the artist © Jeff Wall

Snow Pallet 17 an urban-style: Toshihiko Shibuya fa costruire alla neve un monumento alla mutevole bellezza della natura nel cuore di Sapporo

Toshihiko Shibuya, Snow Pallet 17 an urban-style. All images courtesy Toshihiko Shibuya  © Toshihiko Shibuya

La diciasettesima versione della serie scultorea “Snow Pallet” di Toshihiko Shibuya è stata più breve del solito. I consueti elementi, a forma di tavolino, ombrellino o fungo stilizzato (in sintesi: cerchi e linee perpendicolari gli uni alle altre), dipinti in colori fluorescenti, vivacissimi e briosi, sono rimasti posizionati all’ingresso del campus Maruyama dell'Università di Hokusho meno di un mese: dal 27 dicembre al 5 gennaio. Eppure la neve, anche questa volta, ha saputo trasformarli giorno dopo giorno in maniera sostanziale.

Anche- ha detto Toshihiko Shibuya- se la durata dell'esposizione è stata più breve del solito, si sono potuti vedere ammucchiati (sui supporti ndr) non solo berretti di cotone ma anche cappelli da neve”.

Siamo a Sapporo, capitale della montuosa isola di Hokkaido, nell’estremo nord del Giappone (da Capo Sōya, nella parte più a nord dell’isola, la Russia dista solo 43 chilometri), dove la neve cade copiosa ogni anno (anche se ultimamente meno di prima). Il susseguirsi delle stagioni, lì non ha chiaroscuri, e le persone associano i loro ricordi al mutare del paesaggio più che altrove; anche e soprattutto durante l’inverno con la sua spessa coltre bianca, capace di trasformare ogni scorcio. Ed è qui che Toshihiko Shibuya concepisce un’installazione ricorrente che ripete ogni anno. Più o meno uguale a se stessa, sempre nello stesso periodo, da ben 17 anni ormai.

© Toshihiko Shibuya

Certo cambia il numero degli elementi che Shibuya posiziona, la loro collocazione, l’altezza, le dimensioni e la giustapposizione dei colori, ma alla base di “Snow Pallet” ci sono sempre uno o più gruppi di piedistalli, pensati per sorreggere la neve, mettendone in luce la mutevolezza, la grana e le forme cangianti. In maniera che quest’ultima (vista come parte che riflette il tutto) sia di fatto la scultura. O meglio le sculture. Proprio come un busto capace di cambiare fisionomia da solo a seconda dell’anno, del giorno, dell’ora, del meteo, e di casualità varie (magari il passaggio di un animaletto o la mano di un umano). Un vero e proprio monumento alla bellezza multiforme della natura ed alla transitorietà.

Shibuya, da parte sua, osserva e documenta pazientemente ogni travestimento della materia (persino la sua momentanea assenza). Anche se la neve in mostra sui pedistalli è la metafora di un paesaggio che si estende ben oltre di essa e che andrebbe ammirato dal vivo. Sembra anzi che uno degli scopi del lavoro sia strappare ad una rappresentazione la pienezza della realtà, posizionando l’umanità non più al centro del quadro ma come parte del tutto. Attrice tra gli attori di un armonioso fluire.

© Toshihiko Shibuya

L’elemento rituale dell’opera di Toshihiko Shibuya, infatti, richiama la stagionalità stessa ed evoca anche ancestrali pratiche propiziatorie. Ma è soprattutto un modo per sottolineare la fragilità della natura e preservare la memoria.

Ho iniziato il progetto Snow pallet nel 2011- dice l’artista- Le nevicate sono diminuite di anno in anno. Negli ultimi tempi qui a Hokkaido abbiamo nevicate irregolari, che variano da vere e proprie tormente all’ assenza di neve in un breve ciclo. Penso che il fenomeno sia legato al cambiamento climatico. Le questioni ambientali sono urgenti per tutti gli esseri umani (…) Il progetto Snow Palette consiste nel registrare e memorizzare le nevicate di ogni inverno attraverso l'arte, ma potrebbe esserci una stagione nel prossimo futuro in cui il progetto non sia realizzabile a causa della totale mancanza di neve. Naturalmente non lo desidero. Spero che questo progetto tesserà insieme i bellissimi ricordi di ogni inverno”.

L’artista ha poi l’abitudine di colorare parte dei supporti bianchi con toni fluorescenti che sembrano penetrare nella neve, per generare nell’osservatore un senso di stupore e meraviglia. Immaginando l’effetto finale, si concentra sulla parte superiore o su quella inferiore dei piani, che riflettono, verso l’alto o verso il basso, colori vividi e gioiosi che sembrano rubati all’industria alimentare facendo riferimento all’infanzia e alla giovinezza. Ma anche ai numerosi impieghi della luce nell’arte contemporanea, all’immateriale e al transitorio, senza dimenticare il tema degli inganni percettivi. E ovviamente, quello della bellezza sempre uguale e sempre diversa della natura che si rinnova.

Man mano che la temperatura aumenta- spiega l’artista- la neve accumulata diventa simile a un sorbetto e si può vedere il colore fluorescente trasmesso dalla luce riflessa sulla parte superiore del tavolo macchiarsi come lo sciroppo su un ghiaccio tritato. Inoltre, i cappelli (masse) di neve che si sciolgono creano formazioni naturali uniche”.

© Toshihiko Shibuya

Snow Pallet 17” (a differenza di gran parte delle passate versioni) è stata concepita per lo spazio urbano (non a caso si chiama: “Snow Pallet 17 an urban-style”) a cui si sposa con grazia. Composta da un totale di 18 piedistalli (16 alti e 2, grandi, bassi) per accogliere la neve, concentrati intorno a due panchine all’esterno dell’università.

Interessante dal punto di vista del design, la scelta di coprire le panchine di cemento, in quel momento inutilizzate, proteggendole, e sviluppando l’installazione intorno e sopra di esse. Le linee che si ripetono nella struttura protettiva sono omogenee ai supporti, agli elementi architettonici vicini e si mimetizzano nell’ambiente cittadino ma soprattutto sono anonime quel tanto che basta per mettere in evidenza i volumi curvilinei e inaspettati costruiti dalla neve.

Questa volta abbiamo tentato di realizzare un'installazione in stile urbano nel centro della città come recinzione protettiva per le sedie in marmo. Il terreno della sede era riscaldato dalla strada, quindi non c'era neve. Anche se la durata dell'esposizione è stata più breve del solito, si sono potuti vedere ammucchiati non solo berretti di cotone ma anche berretti da neve”.

Il gioco di riflessi dei colori sulla neve che si scioglie durante una giornata di sole, pronti ad espandersi in toni inaspettati sulla base protettiva bagnata, mentre i ventri del campus rispecchiano gli alberi circostanti, mostrano quanto la bellezza, a volte, nella propria umiltà, possa nascondersi sotto il nostro naso. E, mentre i rigori dell’inverno sono ancora tutti da superare, anticipano il risveglio primaverile della vita.

© Toshihiko Shibuya

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© Toshihiko Shibuya

“Void Pavillion VII”, la straordinaria opera pubblica di Anish Kapoor colora del nero più nero di un buco nero il cuore rinascimentale di Palazzo Strozzi

Anish Kapoor, Void Pavilion VII, 2023; tecnica mista, vernice, mixed media, paint; cm 750 × 750 × 750 Images: © photo Ela Bialkowska OKNO studio. Credists: Palazzo Strozzi and the artist

Ideato appositamente per il cortile di Palazzo Strozzi (Firenze) in occasione della mostra “Untrue-Unreal”, “Void Pavillion VII”, (Padiglione del Vuoto) dell’artista anglo-indiano Anish Kapoor, non è solo una straordinaria opera d’arte pubblica (accessibile a tutti gratuitamente per l’intera durata dell’esposizione) ma un vero e proprio concentrato di cultura contemporanea che riempie il cuore tardo- quattrocentesco dell’edificio simbolo del Rinascimento. Più di una sfida, quasi un duello.

C’è la psicanalisi, l’ambiguità del pensiero, le avanguardie storiche (sotto forma del Quadrato nero di Kazimir Malevič definito da molti il “punto zero della pittura" da cui Kapoor trae ispirazione per quest’opera), l’evoluzione della scienza, la ricerca sul colore, l’esplorazione del cosmo, la crisi delle fedi, l’individualismo, la dimensione nomade delle arti visive. E che la volta celeste della Sagrestia Vecchia di San Lorenzo, di Brunelleschi in persona, con tutto il suo ordine e la sua armonia, vada pure in frantumi! Tanto se si entra in mostra, al piano Nobile di Palazzo Strozzi, non si potrà non incontrare, “Angel”, con le sue lastre d’ardesia adagiate a terra come una pigra costellazione di isole ricoperte di pigmento blu, che paiono proprio grandi frammenti di cielo.

Void Pavilion VII- ha detto Kapoor- è una struttura formale che fa rima con il palazzo. È un piccolo edificio realizzato per contenere il vuoto o l’oscurità, per dare spazio al non formato o al nascosto. Un luogo per l’unheimlich (l’inquietante ndr): forse in questo senso l’opposto di ciò che intendevano i costruttori di Palazzo Strozzi”.

Il lavoro, settima opera incentrata sul concetto di padiglione del vuoto ed ennesima a servirsi del discusso super-nero che Kapoor usa in esclusiva, è infatti composto da una stanza di un bianco quasi accecante con ingresso ad est, che contiene tre rettangoli neri (uno per parete). Ognuno di essi ha le stesse proporzioni. ma in scala ridotta, della porta (come fosse appunto la sua proiezione nella griglia prospettica rinascimentale). Una sottigliezza formale che serve a tenere insieme l’opera, certo, ma anche un modo per alludere alle dualità contrapposte che sono una vera e propria fissazione di Kaoor (il vuoto che diventa pieno, la forma che non ha forma ecc.)

L’intera visione indiana della vita è incentrata sulle forze opposte. Una cosa che mi affascinava [durante il viaggio che l’artista fece in India del 1979] erano i piccoli santuari e templi lungo la strada, che si trovavano dappertutto in India, e sono specificamente ispirati da questa concezione dualistica”.

Figlio di un generale cartografo induista nato in Pakistan e immigrato in India prima che il figlio nascesse e di una sarta irachena di religione ebraica, Anish Kapoor, ha visto la luce a Mumbai e ha familiarità con la cultura indiana. Anche se non vi è stato esposto molto a lungo. Infatti, dopo aver vissuto qualche anno in un kibbutz ad Israele e aver passato la maggior parte della sua vita adulta in Occidente (soprattutto il Regno Unito dove l’artista ha studiato e risiede fin dagli anni ’70, ma anche l’Italia dove ha uno studio, una casa, e una fondazione che porta il suo nome e sarà operativa dal prossimo anno) Kapoor è molto lontano dal pensiero della patria scelta dai genitori. E proprio questo suo sentirsi sradicato, apolide, è una delle ragioni che l’ha portato in analisi per un lungo periodo di tempo. Viene da sé che il suo lavoro ne abbia fortemente risentito.

Il vuoto è in realtà uno stato interiore. Ha molto a che fare con la paura, in termini edipici, ma ancora di più con l’oscurità. Non c’è niente di più nero del nero interiore. Nessun altro nero è paragonabile a quello [...]. Questo vuoto non è qualcosa privo di importanza. È uno spazio potenziale, non un non-spazio”.

In “Void Pavilion VII” queste riflessioni dell’artista si percepiscono con forza, e non solo perché i tre rettangoli che i visitatori incontrano nella stanza allestita per accoglierli sono dipinti di nero. Ma perché lo spazio e l’essenzialità dei lavori è lì proprio per spingere a meditare a guardare in faccia l’abisso nascosto nel profondo di ognuno di noi. Kapoor non si accontenta di una singola finestra nera, ne mette tre (un riferimento agli antichi polittici), uno per parete. Costringendoci a girare in cerca di un appiglio.

Questo è ciò che voglio- ha spiegato parlando in generale del suo lavoro- il passaggio da un oggetto nell’architettura a un’architettura in sé”.

C’è da dire che il nero dei rettangoli non è un nero comune ma il discusso Vantablack (inventato nel 2014 dagli scienziati dell’inglese Surrey NanoSystems per uso militare, è stato acquistato da Kapoor in esclusiva e rinominato Kapoorblack suscitando polemiche, tanto accese che l’artista Stuart Semple ha a sua volta brevettato dei colori che tutti potevano comperare tranne Kapoor). Un colore talmente scuro da essere più nero di un buco nero, capace di nascondere qualsiasi cosa ci sia sotto di lui comprese le forme (in questo senso le opere che lo utilizzano si possono leggere come una cupa cosmogonia senza stelle ma anche come un luogo dove le possibilità sono infinite). Una sorta di barriera e uno spazio di meditazione capace di renderci consapevoli degli inganni che ci giocano i nostri sensi, di terrorizzarci con i suoi riferimenti a mancanza e morte, ma anche di riconnetterci con le nostre energie primigenie. D’altra parte è l’artista stesso a chiedersi: “Dov'è lo spazio reale dell’oggetto? È quello che si sta guardando o è lo spazio al di là di quello che si sta guardando?”.

Come il quadrato di Malevič le opere in cui Anish Kapoor usa il suo super-nero hanno qualcosa di profondamente spirituale. Non fa eccezione “Void Pavillion VII”, (Padiglione del Vuoto) che fino al 4 febbraio 2024 occuperà il cortile di Palazzo Strozzi di Firenze. Una straordinaria opera d’arte pubblica nata per celebrare l’importante personale “Untrue-Unreal” (in corso fino alla stessa data) che Kapoor ha impiegato anni a preparare.

Anish Kapoor, Void Pavilion VII, 2023; tecnica mista, vernice, mixed media, paint; cm 750 × 750 × 750 Images: © photo Ela Bialkowska OKNO studio. Credists: Palazzo Strozzi and the artist

Anish Kapoor, Void Pavilion VII, 2023; tecnica mista, vernice, mixed media, paint; cm 750 × 750 × 750 Images: © photo Ela Bialkowska OKNO studio. Credists: Palazzo Strozzi and the artist

Anish Kapoor, Void Pavilion VII, 2023; tecnica mista, vernice, mixed media, paint; cm 750 × 750 × 750 Images: © photo Ela Bialkowska OKNO studio. Credists: Palazzo Strozzi and the artist

Anish Kapoor, Void Pavilion VII, 2023; tecnica mista, vernice, mixed media, paint; cm 750 × 750 × 750 Images: © photo Ela Bialkowska OKNO studio. Credists: Palazzo Strozzi and the artist

Anish Kapoor, Void Pavilion VII, 2023; tecnica mista, vernice, mixed media, paint; cm 750 × 750 × 750 Images: © photo Ela Bialkowska OKNO studio. Credists: Palazzo Strozzi and the artist

Anish Kapoor, Void Pavilion VII, 2023; tecnica mista, vernice, mixed media, paint; cm 750 × 750 × 750 Images: © photo Ela Bialkowska OKNO studio. Credists: Palazzo Strozzi and the artist