Precious Okoyomon, che tramuta i musei in poetiche foreste e serve cene surreali

Precious Okoyomon, Open circle Lived Relation (detail); Resistance is an atmospheric condition, 2020, photo: Diana Pfammatter

Artista visuale, poetessa e chef, la nigeriano-americana Precius Okoyomon, è giovane e molto apprezzata. Cecilia Alemani (che quest’anno curerà la prima Biennale di Venezia post-pandemia) ha inserito una sua installazione tra le migliori cose realizzate nel 2021, Anicka Yi (che ha recentemente occupato la Turbine Hall della Tate Mondern con l’installazione In love with the world e presto sarà la protagonista di Metaspore al Pirelli Hangar Bicocca) ha dichiarato di essere stata influenzata dal suo lavoro. Lei dice di creare mondi.

E in effetti non si può assolutamente darle torto, guardando le immagini di Earthseed, che si è tenuta nel 2020 al Museum für Moderne Kunst di Francoforte. Nella mostra, infatti, Okoyomon ha ricoperto il pavimento dell’ex-ufficio doganale (lo spazio fa parte del complesso museale tedesco) con parecchi metri quadri di terreno su cui ha piantato delle viti kudzu. Una specie talmente infestante da essere diventata illegale in gran parte degli Stati Uniti. Abbandonate a se stesse per diversi mesi prima della mostra, le piantine (che Precious aveva recupertato ad Amsterdam), hanno prosperato e l’ampio locale si è popolato di lombrichi, lumache e insetti di ogni genere. Un vero e proprio ecosistema rigoglioso su cui l’artista ha poi posizionato delle sculture di resina, filati e lana.

Nata a Londra da genitori nigeriani, Precius Okoyomon, si è presto trasferita negli Stati Uniti insieme alla sua famiglia con cui alla fine ha trovato casa a New York. Ha 27 anni ed è un’artista multidisciplinare, abbraccia mezzi espressivi e materiali diversi. Ha sempre scritto poesie che nascondeva per la casa come germogli di pensieri in libertà. I suoi componimenti sono già stati pubblicati e l’artista li legge nel corso di performance che spesso comprendono anche il confronto con la musica (qualche settimana fa ce n’è stata una al Palais de Tokio di Parigi). "Si tratta di distruggere la nostra lingua, costruirla, far sbattere le parole l'una contro l'altra", ha detto a New York Times Magazine.

Mentre ancora studiava, Precious, ha lavorato presso un ristorante 3 stelle Michelin. Quando è venuto il momento della tesi, a scuola ha presentato una serie di cene sperimentali con piatti atipici come la zuppa di roccia. Più recentemente, per una sfilata di moda, tenutasi a Palazzo Corsini di Firenze, si è cimentata in un menù surreale che comprendeva le lische di pesce fritte. Fa anche parte del collettivo (composto in realtà solo da lei e altri due giovani chef) di cucina queer Spiral Theory Test Kitchen.

Il suo lavoro parla di razza, diaspora, vita e morte ma lo fa con un tocco frizzante e leggero. Spesso rievoca la Storia statunitense per arrivare alle radici dei paradossi e delle ingiustizie del presente. L’ecologia, che può erroneamente sembrare il tema principale della sua opera, in realtà c’è, ma è aggrovigliata a tutto il resto. Il fulcro è la poesia.

Mentre la natura diventa l’abecedario di un alfabeto del tutto personale. Prendiamo la vite kudzu: originaria dell’Asia fu importata nel sud degli Stati Uniti per dare solidità al suolo, reso fragile da anni di coltivazione intensiva del cotone (praticata sfruttando il lavoro dei neri), ma una volta piantata divenne incontrollabile. Talmente infestante da doverla vietare senza se e senza ma. Si potrebbe pensare che per Okoyomon rappresenti il razzismo, ma no. Per lei è una sorta di celebrazione della vita e contemporaneamente lo specchio dell’essere neri in una cultura altra, come quella occidentale: se da una perte le si porta qualcosa dall’altra si rimane inconciliabili ad essa.

Precius Okoyomon condivide su Instagram le tappe più importanti del suo lavoro e come tutti noi alcuni momenti della sua vita.

AGGIORNAMENTO:

L’opera di Precius Okoyomon insieme a quella di altri 212 artisti farà parte della 59esima Biennale d’Arte, che si intitolerà Il Latte dei Sogni (The Milk of Dreams) e si terrà a Venezia dal 23 aprile al 27 novembre 2022.

Precious Okoyomon, Angel of the sun; Resistance is an atmospheric condition, 2020, photo: Axel Schneider

Precious Okoyomon, Angel of the earth; Resistance is an atmospheric condition, 2020, photo: Axel Schneider

Precious Okoyomon, Resistance is an atmospheric condition, 2020 (Detail), photo: Diana Pfammatter

Metaspore: tra batteri, fiori fritti e strani profumi l’arte spiazzante di Anicka Yi

Anicka Yi, Biologizing The Machine (terra incognita), 2019. Vetrine in acrilico, acciaio verniciato, terra di Venezia, carbonato di calcio, tuorli d’uovo, cellulosa, PCB personalizzato, sensori di gas. Dimensioni variabili. Courtesy l’artista, Gladstone Gallery, New York e Bruxelles, e 47 Canal, New York Foto Renato Ghiazza

L’artista coreano-americana Anicka Yi lavora con una moltitudine di materiali diversi e inconsueti. Tra gli altri: mazzi di fiori fritti in tempura, latte in polvere, antidepressivi, pidocchi di mare, disturbatori di segnale dei telefoni cellulari, tuorlo d’uovo. Ma i suoi preferiti sono le colture di batteri, le microalghe e i profumi (per altro non sempre piacevoli). Secondo Yi, infatti, l’olfatto è un senso sottovalutato che in un modo o nell’altro finisce per avere un ruolo nella maggior parte delle sue opere. Lei lo associa al gentil sesso e ne fa un emblema di lotta femminista.

Attualmente alla Turbine Hall della Tate Modern di Londra (sede ambitissima e il più delle volte capace di consacrare definitivamente un artista), i suoi robottini volanti simili a meduse spruzzano aromi sui visitatori, cui si avvicinavano attratti dal calore corporeo. L’opera si chiama In Love with the World e propone un viaggio olfattivo nella storia più remota del quartiere in cui ha sede il museo.

In genere, d’altra parte, i suoi sono profumi strani. Come quando, al Guggenheim (New York), ha impregnato l’ingresso della sede espositiva con una fragranza che mixava l’odore delle formiche al sudore delle donne asiatico-americane. "Il profumo coinvolge un diverso livello della nostra coscienza- ha spiegato in un’intervista a Vogue Uk- e ci ricorda che siamo parte del mondo naturale, che è una fonte di profondo trauma per molte persone”.

Concetto che ritorna nell’ interesse per i batteri, che nell’ottica di Yi, prima di tutto evocano la nostra ossessione per il controllo e la pulizia. Per altro del tutto vana. Come ha detto ai tempi della personale al museo newyorkese: "Hai a che fare con una società eccessivamente ossessionata dalla pulizia. Ed è in parte per questo che lavoro con i batteri. Soprattutto in occidente, abbiamo questa morbosa paura degli aromi pungenti e dei batteri”.

Nonostante il ruolo che nelle sue dichiarazioni l’artista riserva all’olfatto, il lavoro della Yi è bello a vedersi. Il fatto che prima di cominciare a fare l’artista abbia gravitato nel campo della moda lascia il segno nel gusto raffinato per il colore e nella presentazione impeccabile delle forme.

Per rendersene conto basta guardare Biologizing the Machine (Terra Incognita) presentata alla scorsa edizione della Biennale di Venezia, che Anicka Yi riproporrà in una versione ampliata dal titolo Biologizing the Machine (spillover zoonotica), (realizzata in collaborazione con il dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca), nella mostra Metaspore in programma da febbraio al Pirelli Hangar Bicocca di Milano.

L’opera è null’altro che una coltura di batteri e minuscole alghe appositamente ingegnerizzati per rispondere a un sistema di intelligenza artificiale che ne regola la crescita. Il che suona molto scientifico, a tratti persino fantascientifico, ma per nulla visivamente intrigante. Invece no. I pannelli che compongono Biologizing the Machine (Terra Incognita) ricordano la pittura astratta per i toni discreti ma ricchi oltre alle tessiture tattili. E a differenza dei quadri, cambiano aspetto col passare del tempo.

A livello concettuale invece, il lavoro dell’artista newyorkese d’adozione, punta alla filosofia attraverso un linguaggio artistico rubato alla ricerca scientifica. Le piace fare riferimenti all’evoluzione e valutazioni socio-politiche, anche se il fulcro della sua ricerca si basa su come i fattori invisibili, o comunque difficilmente decodificabili col solo sguardo, possono modificare noi e l’ambiente in cui viviamo .

Biologizing the Machine (spillover zoonotica), insieme ad un vasto numero di opere (olfattive e non) di Anicka Yi, si potrà ammirare dal 17 febbraio al 24 luglio 2022 al Pirelli Hangar Bicocca di Milano in occasione della mostra Metaspore (a cura di Fiammetta Griccioli e Vicente Todoli). L’installazione In Love With The World, invece, rimarrà alla Tate Modern di Londra fino al 6 febbraio soltanto.

Anicka Yi, Ritratto Courtesy l’artista

Anicka Yi Shameplex, 2015 Plexiglass, spilli placcati in nichel, gel per ultrasuoni, strisce LED, 7 scatole 60.96 × 121.92 × 60.96 cm ciascuna Veduta dell’installazione, Kunsthalle Basel, Basilea, 2015 Courtesy l’artista, Gladstone Gallery, New York e Bruxelles, e 47 Canal, New York Foto Phillip Hänger/Kunsthalle Basel

Anicka Yi Shameplex, 2015 (particolare) Plexiglass, spilli placcati in nichel, gel per ultrasuoni strisce LED, scatole 60.96 × 121.92 × 60.96 cm ciascuna Courtesy l’artista, Gladstone Gallery, New York e Bruxelles, e 47 Canal, New York Foto Phillip Hänger/Kunsthalle Basel

Anicka Yi Fontenelle, 2015 Vinile, tubi di acciaio, casco da moto, diffusore di profumo, vetro, contenitore, acqua, pelle di kombucha scoby, corda di nylon, luce da lavoro 198.12 × 309.88 × 127 cm Veduta dell’installazione, The Kitchen, New York, 2015 Courtesy l’artista, Gladstone Gallery, New York Bruxelles, e 47 Canal, New York Foto Jason Mandella

Anicka Yi Biologizing The Machine (terra incognita), 2019 Vetrine in acrilico, acciaio verniciato, terra di Venezia, carbonato di calcio, tuorli d’uovo, cellulosa, PCB personalizzato, sensori di gas Dimensioni variabili Courtesy l’artista, Gladstone Gallery, New York e Bruxelles,e 47 Canal, New York Foto Renato Ghiazza

I paesaggi virtuali di Jakob Kudsk Steensen, romantici e high tech

Jakob Kudsk Steensen, Catharsis (2019-20) © 2020 courtesy of the artist

L’artista di origine danese Jakob Kudsk Steensen ricostruisce ambienti naturali incontaminati e fiabeschi usando le tecnologie più all’avanguardia, Realtà virtuale compresa. Premiato alla scorsa edizione della Biennale di Venezia per un’opera dedicata all’ultimo Kaua’i ʻōʻō (un uccello hawaiano morto nell’87), e al suo straziante canto d’accoppiamento solitario. Ha fatto notizia durante la pandemia con Catharsis, una fitta foresta capace di tramettere pace, che però nella realtà non esiste perché Kudsk Steensen l’ha completamente ricostruita, suoni compresi. La scorsa estate con Berl-Berl, si è dedicato alle zone umide di Berlino, sovrapponendo filmati d’archivio, paesaggi digitali, macrofotografie e quant’altro in un affresco paesaggistico multischermo esposto alla discussa e iconica Halle am Berghain (discoteca simbolo della trasgressione). Da allora, ovvimante, più nulla, dato che impiega molti mesi di lavoro per dar vita ad un progetto.

L’opera di Jakob Kudsk Steensen mette insieme le sue più grandi passioni: la natura, l’arte e i videogiochi. Risultato diretto della sua infanzia: “Sono cresciuto in una piccola città della Danimarca vicino all'oceano, in campagna- ha detto al magazine Lampoon- e ho frequentato una scuola Steiner “ . Lezioni all’aperto, insomma e videogiochi nel tempo libero: “Sono rimasto affascinato dai paesaggi virtuali in giovane età “. Tant’è vero che i suoi eroi artistici sono lo sviluppatore di giochi giapponese Hideo Kojima e il pittore tedesco del XIX secolo Caspar David Friedrich.

I suoi paesaggi virtuali, infatti, sono proprio in bilico tra i videogiochi, i grandi dipinti del romanticismo tedesco e il cinema fantasy. Ma senza streghe e maghi. Anzi la presenza dei mammiferi, umani e non umani, è bandita, a vantaggio di creature meno agitate e più silenziose, come alberi e funghi, in una festa di tessiture che rendono ogni angolo della composizione una scoperta.

Per arrivare a questi risultati il giovane artista (è nato nell’87) passa settimane, se non mesi, nel paesaggio da cui prende spunto (nel caso di Berl-Berl, ad esempio, è andato a lungo in canoa nelle paludi del Brandeburgo). Tuttavia il prodotto finale è invenzione. Non solo nella disposizione ma anche negli elementi che compongono il quadro: “Manipolo come si muove il sole nel paesaggio virtuale, le ombre e come le piante stanno intorno a te”. Così facendo gli piace pensare di rendere la realtà più vera.

L’uso della tecnologia e della fantasia per creare ambienti verosimiglianti ma irreali non deve però ingannare: Jakob Kudsk Steensen è un fanatico del rigore scientifico: fa ricerche d’archivio, va nei musei e collabora con una varietà di esperti (biologi, storici, scrittori ecc). Senza parlare della musica, per cui non si accontenta di contributi e si affianca a uno o più musicisti. Che, spesso, progettano vere e proprie installazioni sonore capaci di dare fluidità al racconto e riempire gli spazi liberi dai monitor.

Al centro delle sue opere c’è l’ambiente, certo. Ma le preoccupazioni ecologiste non sono il vero fulcro del racconto. A Jakob Kudsk Steensen interessa dimostrare che l’arte digitale sa essere colta ed arrivare al cuore di chi guarda.

Come ha detto lui stesso al periodico Wall Paper: “Non mi considero esplicitamente un artista attivista, anche se lavoro su temi come l'estinzione e la conservazione delle zone umide. Per me, il vero senso dell'attivismo qui è usare la tecnologia per qualcosa di molto emotivo, intuitivo, quasi rituale o spirituale; dimostrando che la tecnologia è qualcosa che puoi usare per immaginare, esprimere e sentire e stare con l'ambiente. Questa non è una narrazione che sentiamo spesso, e penso che sia la sua forza. Sono qui per questo: voglio più poesia nella tecnologia”.

Jakob Kudsk Steensen, Berl-Berl (2021). Live simulation (still). Courtesy of the artist.

Jakob Kudsk Steensen, Berl-Berl (2021). Live simulation (still). Courtesy of the artist.

Jakob Kudsk Steensen, 'Berl-Berl' , Halle am Berghain, 2021. © Timo Ohler