Chiara Camoni "una delle artiste più importanti della sua generazione" al Pirelli Hangar Bicocca

Chiara Camoni, Sister (Capanna), 2022 (particolare) Ferro, terracotta nera, fiori freschi e fiori secchi 220 x 140 x 150 cm Courtesy l’artista Nicoletta Fiorucci Collection Foto Camilla Maria Santini

Laboriose sculture in porcellana, tessuti tinti con piante o bacche raccolte qua e là, fiori veri, elementi architettonici che richiamano un sito archeologico e oggetti trovati, sono solo alcuni dei pianeti che convivono nell’universo artistico di Chiara Camoni. Un mondo insieme fiabesco e poetico, bizzarro e misterioso, dove gli elementi di critica sociale si diluiscono in un’atmosfera magica e giocosa, che, dal 15 febbraio sarà protagonista della mostra “Chiamare a raduno. Sorelle. Falene e fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentesse” (e con un titolo così) al Pirelli Hangar Bicocca di Milano.

Nata nel ’74 a Piacenza, Camoni ha alle spalle un lavoro costante e ininterrotto, senza corsie agevolate o drastici colpi di fortuna, che nel tempo (si laurea all’Accademia di Brera nel ‘99 e inizia subito a dedicarsi all’arte a tempo pieno) si è evoluto, fino a diventare stratificato e complesso, capace di racchiudere al suo interno riflessioni e suggestioni multiformi. E i risultati hanno cominciato ad arrivare. Tanto che Pirellli Hangar Bicocca sul suo sito la definisce “una delle artiste italiane di maggior rilievo della sua generazione”.

Camoni, che adesso abita in provincia di Lucca con la famiglia (a Serravezza, un paese di 12mila abitanti sull’Appennino, non lontano dalle cave di marmo), usa vari medium espressivi (scultura, disegno, video); ha una particolare predilezione per la ceramica e spesso ottiene o modifica i colori delle opere attraverso elementi naturali (fiori, piante e bacche appunto, ma anche diversi tipi di argilla e ceneri). A volte non lavora da sola ma organizza delle riunioni con altri (parenti o amici ma non solo) chiamati a svolgere un particolare compito. D’altra parte, la dimensione rituale che si crea durante questi eventi e le diverse sfumature psicologiche che confluiscono nelle opere plasmandole in maniera impercettibile, sono aspetti che si ritrovano in tutta la sua pratica. E poi i raduni aiutano a ricordare.

Alla memoria, infatti, fanno riferimento sia le citazioni di antiche civiltà che si ritrovano disseminate nelle sue sculture, sia fiabe e racconti vari, da lei evocati. Come pure gli oggetti trovati che inserisce nelle sue opere, che possono essere industriali, o, più spesso, naturali (ad esempio foglie secche o ossicini).

Anche il titolo della mostra sembra una filastrocca o una formula magica (magari più da strega della Disney che da vera e propria occultista), ma declinata al femminile. Ed è anche una maniera ironica e faceta di evocare il femminismo. Del resto, Camoni rivendica con decisione il diritto di fare arte con strumenti tradizionalmente più usati dalle donne (fino a pochi anni fa relegati dalla critica nel campo di serie b delle arti applicate), di citare artiste e scrittrici donne ma soprattutto di risolvere l’opera con una sensibilità e un gusto del tutto femminili. Lei a tal proposito ha detto:

Come artista donna, la mia identità nasce in modo archeologico, in un tempo e uno spazio lontano, dove torno sempre per poi trovare la mia collocazione nel presente. Così hanno origine le opere, che hanno una loro vita autonoma, muovendosi nel tempo e nello spazio che viene dopo, quello futuro. Comincia quella dualità che le rende mutevoli, ambigue, dedite al cambiamento”.

L’opera, in generale, è una rivisitazione del tema del paesaggio, anche se a volte si sovrappone e si intreccia alla natura morta e, persino al ritratto (non prima però di aver fatto un viaggio a ritroso nella storia dell’arte verso volti e forme archetipiche). Tutto è molto tattile. Non a caso l’artista utilizza quasi esclusivamente l’artigianato nella sua pratica: disegna, modella l’argilla, tinge i tessuti ecc. Il contatto diretto con la materia, talvolta ripetitivo, diventa una forma di meditazione e una maniera per far emergere l’inconscio. Oltre a un modo per portare alla luce legami, citazioni e inaspettate assonanze, con altre civiltà, talvolta lontane nel tempo altre nello spazio. Mentre le forme organiche insieme alla cangiante bellezza della natura, dominano la composizione.

Questi aspetti daranno forma anche all’allestimento della mostra al Pirelli Hangar Bicocca, che, ispirato al giardino all’italiana tardo-rinascimentale e agli antichi anfiteatri, si svilupperà come un percorso: “Il disegno- spiega il comunicato del museo milanese- simmetrico e radiale della pianta crea corridoi e stanze, strade e ambienti, che dividono lo spazio dello Shed in aree dove i visitatori possono sostare o dialogare. Il centro vuoto è il fulcro attorno a cui ruota il progetto di mostra: le opere sono infatti disposte come sugli spalti di un’arena, trasformando l’esposizione in un raduno o uno spettacolo”.

Per lasciare che l’ambiente (i giochi della luce, le ombre serali, il particolato, la brezza) faccia la sua parte, esaltando il ciclo naturale e la mutevolezza del paesaggio, le finestre dello spazio espositivo rimarranno aperte (quest’ultimo è stato uno stabilimento industriale, dove all’inizio del secolo scorso si costruivano e assemblavano locomotive).

Chiamare a raduno. Sorelle. Falene e fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentesse” (a cura di Lucia Aspesi e Fiammetta Griccioli) al Pirelli Hangar Bicocca di Milano, aprirà in abbinata alla mostra di James Lee Byars (la sede è molto grande e ospita sempre due esposizioni contemporaneamente), per poi sposarsi a quella del giamaicano Nari Ward (dal 28 marzo; quella di lei si concluderà però sette giorni prima di quella di Ward: il 21 luglio). Raccoglierà il numero più ampio di opere di Chiara Camoni mai presentato in Italia, insieme ad una serie di nuovi lavori.

Chiara Camoni Sister #04, 2021 Terracotta nera, ferro 85 x 150 x 80 cm Veduta dell'installazione, “Io dico Io – I say I” Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma, 2021 Courtesy l’artista  Collezione 54, Milano Foto Monkeys Video Lab

Chiara Camoni Barricata #1, 2016 (particolare) Terracotta policroma, acqua, fiori Dimensioni variabili Courtesy  l’artista e SpazioA Pistoia Foto Camilla Maria Santini

Chiara Camoni Serpentessa ‒ parte di Ipogea, 2021 Pietra Installazione site specific permanent  Courtesy l’artista e Palazzo Bentivoglio, Bologna Foto Camilla Maria Santini

Chiara Camoni Sister (Capanna), 2022 Ferro, terracotta nera, fiori freschi e fiori secchi 220 x 140 x 150 cm Courtesy l’artista Nicoletta Fiorucci Collection Foto Camilla Maria Santini

Chiara Camoni Senza Titolo, Mosaico #04, 2018 Marmo Dimensioni variabili Courtesy l’artista Collezione Agovino Foto Studio Gonella, Torino

Chiara Camoni Sister (degli Scarti), 2023 Terracotta policroma, ferro, vegetale secco, plastica e materiali vari 150 x 220 x 150 cm Courtesy l’artista e SpazioA Pistoia Foto Camilla Maria Santini

Chiara Camoni Vasi Farfalla, 2020 Grès smaltato, elementi vegetali Dimensioni variabili Courtesy l’artista e SpazioA, Pistoia Foto Camilla Maria Santini

Chiara Camoni Ritratto Foto Lorenzo Bottari 

La strana storia del pittore Niko Pirosmani (che la Fondazione Beyeler ha appena finito di ricordare)

NIKO PIROSMANI, NANNY GOAT Oil on cardboard, 83.4 x 101 cm The Collection of Shalva Amiranashvili Museum of Fine Arts of Georgia, Georgian National Museum, Tbilisi © Infinitart Foundation

Nato in relativa povertà e morto in miseria, il pittore primitivista georgiano Niko Pirosmani (1862–1918), è stato protagonista di un’importante mostra alla Fondazione Bayeler di Basilea (Svizzera) che si è conclusa domenica scorsa. Era la prima retrospettiva internazionale a lui dedicata in Europa occidentale (dopo quella, meno approfondita, dell’Albertina Museum in Austria del 2018). Eppure Pirosmani, con le sue composizioni studiate, i personaggi dai volti inespressivi, i pochi colori intensi che emergono dall’oscurità delle tele cerate, oltre ad essere molto conosciuto e amato in Georgia, per un certo periodo ha goduto di grande fama postuma (gli sono stati dedicati libri, mostre e film, Picasso per lui ha fatto un lavoro e lo ha paragonato a Van Gogh) e il suo mito si è legato alla storia delle avanguardie.

D’altra parte la biografia di Niko Pirosmani ci arriva costantemente interrotta da buchi, rattoppata da racconti, arricchita da affascinanti leggende. Ed è una storia strana: a tratti fiaba, più spesso tragedia. Nato da una famiglia di contadini nella regione orientale della Cachezia (che si distingue per i vigneti), Pirosmani, aveva due sorelle maggiori. Ed è appunto per andare a vivere da una queste che, nel 1870 dopo la morte del padre, si trasferisce nella capitale, Tbilisi. Per poco tempo le cose vanno bene poi muore anche la sorella, allora Pirosmani va a lavorare a casa di una famiglia benestante, dove impara a leggere e scrivere sia in georgiano che in russo.

Intraprenderà molti mestieri (il negoziante, il ferroviere, il pastore, il disegnatore di insegne) senza avere successo in nessuno. Girovagherà, senza un proprio tetto sulla testa e un minimo di stabilità economica per tutta la vita. Alla miseria si deve anche la sua morte prematura (aveva solo 56 anni), visto che l’influenza, con ogni probabilità, non gli sarebbe stata fatale se non fosse stato debole e malnutrito.

Naturalmente, a dispetto delle difficoltà, ha continuato sempre a dipingere

Era autodidatta e, pare lavorasse su commissione (si dice per i negozianti di Tbilisi, ma non ci sono elementi che lo confermino o smentiscano). Faceva un largo uso del colore nero perché poteva comperarlo a prezzi irrisori dagli impresari di pompe funebri e gli capitava di riutilizzare vecchie insegne di latta al posto della tela. Di certo non era parsimonioso nella scelta dei soggetti: dipingeva persone povere e benestanti, animali di ogni genere, nature morte e temi storici. Non faceva paesaggi urbani ma arricchiva con fiori, piante e scampoli di vedute della sua terra ogni opera. Aveva una pennellata vigorosa e non si perdeva nei chiaroscuri: nelle sue tele le figure emergono dall’oscurità o da campiture di colori pieni, si prendono il centro della scena senza timidezze e ci guardano diritte negli occhi con aria inespressiva. O meglio uomini e donne sono inespressivi, gli animali domestici no, a volte il loro sguardo è dolce, altre illuminato dalla simpatia, altre ancora è amorevole. I colori sono pochi ma decisi, sempre strettamente imparentati ai toni primari, la composizione molto solida, di quando in quando il pittore ci suggerisce la profondità ma in genere preferisce impedire al nostro sguardo di vagare.

La sua pittura semplice, solida, diretta e intuitiva, nel 1912 incontra il poeta russo Mikhail Le-Dantju e gli artisti georgiani d’avanguardia Kirill e Ilia Zdanevich nelle osterie della capitale e l’anno successivo, le opere di Pirosmani saranno esposte a Mosca insieme a quelle di Marc Chagall, Natalja Gončarova e Casimir Malevič. Il poeta e i due artisti lo supporteranno pure collezionando i suoi dipinti ma poi la guerra gli metterà ancora una volta i bastoni tra le ruote.

Si dice a un certo punto si fosse innamorato di un’attrice francese (Marguerite de Sèvres ritratta nel dipinto “The actress Margarita”) e che le avesse comperato tanti fiori da coprire la piazza su cui si affacciava l’alloggio che la donna aveva a Tbilisi. Si dice anche che l’avesse ingannata facendole credere di essere ricco e che lei, una volta scoperta la bugia, fosse partita in fretta e furia. Questa storia potrebbe non essere vera, ma lo scrittore russo Konstantin Paustovskii (premio nobel per la letteratura nel ’65) la descrisse in un suo romanzo tramandandola ai posteri. E non fu il solo. Ancora una volta il destino di Pirosmani sovrappone il mito alla realtà e poi mischia le carte.

Della sua vasta produzione oggi sono rimaste circa 200 opere, il resto è andato perduto. Alla Fondazione Beyeler (che adesso ospita una grande personale dell’artista canadese Jeff Wall) ne erano esposte 50.

NIKO PIROSMANI, THE ACTRESS MARGARITA Oil on oilcloth, 115.9 x 94 cm The Collection of Shalva Amiranashvili Museum of Fine Arts of Georgia, Georgian National Museum, Tbilisi © Infinitart Foundation

NIKO PIROSMANI, TATAR CAMEL DRIVER Oil on cardboard, 99.3 x 99.3 cm The Collection of Shalva Amiranashvili Museum of Fine Arts of Georgia, Georgian National Museum, Tbilisi © Infinitart Foundation

NIKO PIROSMANI, GIRAFFE Oil on oilcloth, 137.4 x 111.7 cm The Collection of Shalva Amiranashvili Museum of Fine Arts of Georgia, Georgian National Museum, Tbilisi © Infinitart Foundati

NIKO PIROSMANI, THE KAKHETIAN TRAIN Oil on cardboard, 70 x 141 cm The Collection of Shalva Amiranashvili Museum of Fine Arts of Georgia, Georgian National Museum, Tbilisi © Infinitart Foundation

NIKO PIROSMANI, BEAR ON A MOONLIT NIGHT Oil on cardboard, 99.9 x 80 cm The Collection of Shalva Amiranashvili Museum of Fine Arts of Georgia, Georgian National Museum, Tbilisi © Infinitart Foundation

NIKO PIROSMANI, PEASANT WOMAN WITH CHILDREN FETCHING WATER Oil on oilcloth, 112.3 x 92.6 cm The Collection of Shalva Amiranashvili Museum of Fine Arts of Georgia, Georgian National Museum, Tbilisi © Infinitart Foundation

Degli ex- quartieri popolari di Milano si tramutano in luoghi misteriosi nella fotografia architettonica di Rory Gardiner

Rory Gardiner,QT8. All images courtesy of the artist and BIM

L’affermato fotografo australiano d’architettura, Rory Gardiner, attualmente protagonista della mostra “Walking Milan” al BiM – dove Bicocca incontra Milano, arriva al cuore degli edifici o dei quartieri che ritrae cercando di catturare la vita senza mostrarla. Tende che si agitano, file di macchine in parcheggio, imperfezioni nel materiale di rivestimento di un tetto e vegetazione, soprattutto vegetazione, che riequilibra la pesantezza dei volumi, rende crepitante la tensione delle linee di fuga disegnate dalle strade o dai lampioni. Mentre gli scorci, rischiarati da una luce uniforme e silenziosa, si mostrano misteriosi, privi di gioia ma anche di tristezza. Forse testimoni di un segreto.

Le fotografie che ha scattato in occasione di questa mostra in cui ha affrontato quartieri tutt’altro che perfetti di Milano, come Bicocca, QT8, NoLo e Bovisa, poi, danno una sfumatura sociale alla sua opera. E inducono l’osservatore a riflettere sull’armonia che si può trovare in un paesaggio urbano apparentemente caotico, talvolta sgraziato, ma soprattutto sullo spazio di reinvenzione del tessuto cittadino.

Non a caso forse. Visto che i locali che ospitano la personale di Gardiner sono parte di un progetto di rigenerazione urbana più vasta che coinvolge tutta la zona.

La fotografia dell’australiano, dal canto suo, è molto adatta al contesto: il futuro preferisce prenderlo in contropiede, studiarlo, anziché abbracciarlo incondizionatamente. Gardiner, infatti, lavora quasi esclusivamente con macchine a pellicola di medio formato. La luce giusta non la ricrea, la aspetta. Pare, anzi, che non costruisca a tavolino la realizzazione dei suoi servizi, preferendo confrontarsi dal vivo con l’ambiente in cui si svolgerà lo scatto.

Mi sembra chiaro- ha detto- che stiamo attraversando una piccola rivoluzione in cui la fotografia, per evolversi, non deve cercare di creare immagini sempre più perfette; al contrario, deve tornare indietro, abbracciare la realtà e anche la crudezza che l’intelligenza artificiale e le immagini 3D non possono riprodurre - spiega il fotografo -. Per ottenere questo risultato, bisogna trasmettere umanità, rivelando tutti quei piccoli dettagli e momenti, all’interno di un edificio, che davvero parlano il linguaggio umano”.

Lo fa, tuttavia, con discrezione, evitando le ombre drammatiche o le luci sfavillanti. Dando quasi l’impressione di cercare di fare chiarezza nel sovrapporsi degli elementi del teatro urbano.

Nato a Melburn, Rory Gardiner, famigliarizza fin dall’infanzia con spazi e volumi attraverso il padre architetto. Anche a fotografare comincia da ragazzino ma la passione non lo abbandona e si laurea in fotografia al Royal Melbourne Institute of Technology. Dopo pochi anni si trasferirà a Londra dove lavorerà come assistente di famosi fotografi di moda per poi focalizzarsi esclusivamente sulla fotografia d’architettura e di paesaggio. La sua vera carriera è cominciata nel 2011 con una campagna per il marchio Tate Modern, oggi lavora con famosi architetti internazionali.

La mostra “Walking Milan” di Rory Gardiner al BiM – dove Bicocca incontra Milano (Galleria C14), è ad ingresso gratuito e rimarrà aperta fino al 21 marzo 2024. Per vedere altri paesaggi urbani (rigorosamente vuoti di persone e animali), naturali (anche questi senza nessuno che rompa la sospensione creata dal muto dialogo tra le piante) ed edifici, ritratti da Gardiner, si può invece ricorrere al sito internet del fotografo australiano o al suo account instagram.