“The Hollow Men”, la personale macabra e futuristica di Giulia Cenci a Palazzo Strozzi

Giulia Cenci, “The Hollow Men”, Palazzo Strozzi. Firenze, 2025. Exhibition view. Photo: ©Ela Bialkowska OKNO studio

Delle figure metalliche fatte di ossa (in realtà un solo osso; l’osso ioide ripetuto più e più volte), con teste canine disarticolate, danzano intorno a una trivella. Forse lo fanno perché quella è la loro religione, o perché stanno celebrando un culto oscuro; chissà. Quel che è certo è che ricordano un po' Terminator e un’era ormai lontana del cinema fantascientifico, sono anche simili a cartoni animati pre-digitali o a inquietanti dipinti medioevali, eppure fanno pensare al futuro. Ed è proprio in questo mix di storia dell’arte (e delle immagini in generale), considerazioni sul presente e suggestioni futuristiche, che sta il fascino della scultura di Giulia Cenci.

Nata nell’88 a Cortona (a sud della Toscana), dov’è tornata a vivere e ha stabilito il suo laboratorio dopo aver studiato a Bologna ed essersi affinata in Olanda, la signora Cenci ha recentemente inaugurato il nuovo spazio espositivo, Project Space, all’interno di Palazzo Strozzi di Firenze, con una sua personale intitolata “The Hollow Men”.

Il Project Space, riservato ad artisti già relativamente affermati ma molto meno delle star che espongono al piano nobile (in questo momento, per fare un esempio, lì c’è Tracey Emin, cui seguirà un tuffo nel passato con Beato Angelico), ha una posizione privilegiata perché vi si accede direttamente dal cortile del palazzo rinascimentale. E si affianca a quest’ultimo, alla Strozzina (cioè all’antica cantina) e al già menzionato piano nobile, nel carnet di offerte espositive del museo fiorentino.

Con il nuovo Project Space - ha dichiarato il curatore e direttore della Fondazione Palazzo Strozzi, Arturo Galansino- apriamo a Palazzo Strozzi un nuovo spazio di riflessione e produzione per il contemporaneo. Inaugurare questo spazio con un progetto di Giulia Cenci significa affermare l’urgenza di una pratica che unisce profondità concettuale e potenza visiva, in cui la materia artistica diventa espressione della condizione contemporanea”.

Giulia Cenci però a Palazzo Strozzi aveva già esposto. Era, infatti, una degli oltre 50 artisti collezionati da Patrizia Sandretto Re Rebaudengo le cui opere hanno composto la collettiva del 2023 “Reaching for the stars. La più giovane, in mezzo a colleghi famosi come Maurizio Cattelan, Tracey Emin o Damien Hirst. Del resto la signora Cenci ha dichiarato di aver trovato il sostegno della signora Sandretto Re Rebaudengo fin dagli esordi della sua carriera. Probabilmente anche il marito di quest’ultima (e co-fondatore insieme a lei della fondazione per l’arte contemporanea torinese) che presiede l’associazione dei maggiori produttori nazionali di energie rinnovabili, avrà apprezzato il lavoro di Giulia Cenci che trova nell’ambientalismo un tema ricorrente.

Giulia Cenci ha poi avuto l’onore di essere intervistata da Maurizio Cattelan (del quale alcune opere, proprio adesso, sono esposte a Bergamo in una mostra diffusa).

Un'altra donna italiana cui la signora Cenci deve molto è invece Cecilia Alemani, che l’ha inserita prima ne’ Il Latte dei Sogni”, la Biennale di Venezia da lei curata, e poi nella programmazione di eventi d’arte pubblica della High Line di New York (parco sopraelevato ricavato da una ex linea ferroviaria di cui la signora Alemani è direttrice e curatrice capo). Nel primo caso l’artista italiana ha presentato una danza macabra horror (“Danza Macabra”), mentre nel secondo si è affidata a una foresta crepuscolare e mutante (“Secondary Forest”).

Anche “The Hollow Men” volendo ben vedere è aperta da una danza macabra, cui segue uno spazio più contemplativo (e spettrale) fino a concludersi con un momento di fusione tech-gotico. Qui però la poesia di “Secondary Forest” e la violenza della scultura sospesa esposta alla Biennale del 2022 si stemperano nel ritmo sincopato evocato dalle opere e in un tocco di ironia che, a momenti, spezza la cupa lettura della realtà che restituiscono (almeno nella prima sala).

Per realizzare questo progetto site-specific la signora Cenci si è ispirata, come suggerisce il titolo della mostra, al poema di Thomas Stearns Eliot “The hollow men” (che in italiano è “Gli uomini vuoti”). “Nel mio processo creativo parto spesso dalla poesia- ha detto- specialmente quando cerco un riferimento che mi guidi nella narrazione, nel titolo e nella parte scritta del mio lavoro”. Ha anche spiegato che: “The Hollow Men di T. S. Eliot parla di una comunità traumatizzata dopo la guerra, incapace di credere ai valori che l’avevano caratterizzata, in un’assenza di moto, di pensiero, di vita”.

Per quanto il lavoro di Giulia Cenci sia saldamente analogico (talmente tanto che per realizzarlo usa materiali di scarto, spesso pezzi di macchinari agricoli ma anche ex-sedili per auto e cabine doccia) ha qualcosa di futuristico, che spinge gli addetti ai lavori a parlare di post-umano nel descriverlo. Lei in merito ha detto: “Le mie sculture parlano di ibridazione e transitorietà nel mondo contemporaneo”. Oltre a fare un ampio uso di temi come caducità, violenza e alienazione.

Le opere che compongono “The Hollow Men” sono state influenzate dalle sale in cui adesso si possono ammirare. La signora Cenci, infatti, ha spesso dichiarato di dare molta importanza ai sopralluoghi (di solito ne fa diversi ed è meticolosa nel prendere nota delle caratteristiche dello spazio). Ma, vista la storica bellezza dell’edificio, in questo caso, ha tenuto conto anche della struttura del palazzo. Le opere, ha affermato: “Si confrontano con un'architettura solida, storica, apparentemente immutabile come quella di Palazzo Strozzi. È in questo attrito che si è generato qualcosa di vivo: un dialogo tra tempo, materia e percezione”.

Non è chiaro invece se Giulia Cenci sapesse fin dall’inizio cosa avrebbe occupato il cortile. Ma il dialogo tra la carnalmente pesante scultura monumentale di Tracey Emin e le scheletriche figure di Cenci, che danno l’impressione di avere l’argento vivo addosso anche se sono ferme, è molto riuscito.

L’artista normalmente impiega molto tempo per portare a termine un progetto. La fusione del metallo, che lei e i suoi assistenti realizzano in un forno, costruito da loro nella porzione di azienda agricola appartenuta al padre (scomparso prematuramente) in cui ha sede lo studio, è già di per se un’operazione lunga. Ma la signora Cenci ha dichiarato che la maggior parte del tempo glielo portano via i sopralluoghi e i disegni preparatori. Blocchi e blocchi di disegni, che, oltre a documentare il progredire e trasformarsi del lavoro, raccontano una storia tutta loro.

A Firenze, per la prima volta, sono in mostra anche questi ultimi.

The Hollow Men” di Giulia Cenci rimarrà nel Project Space di Palazzo Strozzi fino al 31 agosto. Mentre per ammirare la splendida personale di Tracey Emin “Sex and Solitudec’è tempo solo fino al 20 luglio 2025.

Nella prima sala delle figure ibride ballano intorno a una trivella Giulia Cenci, “The Hollow Men”, Palazzo Strozzi. Firenze, 2025. Exhibition view. Photo: ©Ela Bialkowska OKNO studio

Giulia Cenci, “The Hollow Men”, Palazzo Strozzi. Firenze, 2025. Exhibition view. Photo: ©Ela Bialkowska OKNO studio

Giulia Cenci, “The Hollow Men”, Palazzo Strozzi. Firenze, 2025. Exhibition view. Photo: ©Ela Bialkowska OKNO studio

Mentre un personaggio che prende parte alla danza spericolata della prima sala si muove la seconda sala si intravede Giulia Cenci, “The Hollow Men”, Palazzo Strozzi. Firenze, 2025. Exhibition view. Photo: ©Ela Bialkowska OKNO studio

Nella seconda sala i disegni e una figura inquietante e immota Giulia Cenci, “The Hollow Men”, Palazzo Strozzi. Firenze, 2025. Exhibition view. Photo: ©Ela Bialkowska OKNO studio

Giulia Cenci, “The Hollow Men”, Palazzo Strozzi. Firenze, 2025. Exhibition view. Photo: ©Ela Bialkowska OKNO studio

Giulia Cenci, “The Hollow Men”, Palazzo Strozzi. Firenze, 2025. Exhibition view. Photo: ©Ela Bialkowska OKNO studio

Giulia Cenci, “The Hollow Men”, Palazzo Strozzi. Firenze, 2025. Exhibition view. Photo: ©Ela Bialkowska OKNO studio

Giulia Cenci, “The Hollow Men”, Palazzo Strozzi. Firenze, 2025. Exhibition view. Photo: ©Ela Bialkowska OKNO studio

La poesia e la fusione occupano la terza sala Giulia Cenci, “The Hollow Men”, Palazzo Strozzi. Firenze, 2025. Exhibition view. Photo: ©Ela Bialkowska OKNO studio

Giulia Cenci, “The Hollow Men”, Palazzo Strozzi. Firenze, 2025. Exhibition view. Photo: ©Ela Bialkowska OKNO studio

Giulia Cenci, “The Hollow Men”, Palazzo Strozzi. Firenze, 2025. Exhibition view. Photo: ©Ela Bialkowska OKNO studio

Si chiamerà “In Minor Keys” la Biennale di Venezia 2026 e alla fine la curerà la scomparsa Koyo Kouoh

Koyo Kouoh in una foto di © Antoine Tempé

La sessantunesima Esposizione Internazionale d’Arte si chiamerà “In Minor Keys” Un titolo scelto da Koyo Kouoh, scomparsa lo scorso 10 maggio, che alla fine resta l’unica curatrice della Biennale di Venezia 2026.

Ieri, durante la conferenza di presentazione di “In Minor Keys”, si è capito che sul vuoto di leadership ha prevalso la commozione per la morte improvvisa e prematura di Koyo Kouoh, stroncata da un tumore a soli 57 anni. E’ stato evidente nelle parole dei rappresentanti della Biennale, ma anche nei volti di chi l’aveva conosciuta bene e nella voce rotta del suo assistente mentre recitava i versi di una poesia da lei composta nel 2022.

La Biennale fa oggi quello che da 130 anni fa- ha detto per anticipare eventuali domande, il presidente della Fondazione La Biennale di Venezia, Pietrangelo Buttafuoco- realizza, mette a terra, edifica l’idea di un curatore che oggi, con Koyo Kouoh nell’assenza è presente per suggerire da quell’altrove una strada. Ed è una strada precisa, è il futuro”.

Mentre la responsabile dell’Ufficio Stampa dei settori Architettura e Arti Visive e, in quest’occasione, portavoce della Biennale, Cristiana Costanzo, ha sottolineato che “con il pieno sostegno della famiglia di Koyo”, l’istituzione lagunare “immediatamente dopo la notizia della sua scomparsa, ha deciso di realizzare la sua mostra”. Aggiungendo che: “Lo farà secondo il progetto così come definito da lei stessa, anche per preservare, valorizzare e diffondere il più possibile le sue idee e il lavoro svolto con dedizione fino all’ultimo”.

La signora Kouoh, che avrebbe dovuto essere la prima donna di colore, oltre alla prima curatrice ad operare in un museo del sud del mondo, al timone della Biennale di Venezia, mancata ad un anno dall’allestimento della mostra e dopo soli sei mesi di lavoro (si suppone non ininterrotto visto che è morta per malattia), avrebbe lasciato infatti una ricca eredità di appunti e idee. Anzi, secondo quanto dichiarato alla presentazione, “da ottobre 2024 a maggio 2025” sarebbe arrivata a “definire il testo teorico, selezionando artisti e opere, individuando gli autori del catalogo, determinando l’identità grafica della mostra e l’architettura degli spazi espositivi”. Oltre ad avviare un dialogo con gli artisti invitati a partecipare.

In merito tuttavia a questi ultimi, la Biennale, è stata ferma nel lasciare cadere ogni richiesta di indiscrezione. Verranno elencati insieme ai Paesi partecipanti (tra le novità ci sarà il padiglione permanente del Qatar ai Giardini) a febbraio del prossimo anno. D’altra parte la discrezione della Biennale l’ha sottolineata lo stesso Buttafuoco, mentre cercava di rendere evidente la limpida bellezza della signora Kouoh: “Quando le ho chiesto se voleva curare la prossima edizione, ancora prima di rispondere, posto il vincolo di riservatezza, posto il bisogno di non far trapelare al di fuori di quelle mura in cui ci trovavamo, mi chiese: ‘però posso dirlo a mia mamma?’”

Nonostante l’impegno e l’abnegazione della curatrice nata in Camerun nel ’67 e al momento della scomparsa alla guida del museo di Città del Capo Zeitz MOCAA, è verosimile tuttavia che gran parte del peso della Biennale di Venezia 2026 cadrà sul team da lei composto. Tra loro il nome più famoso è quello della ricercatrice, scrittrice e produttrice canadese, Rasha Salti, anche se pure l’editore capo, lo scrittore d’arte, Siddhartha Mitter non se la cava male (attualmente pubblica sulle pagine di New York Times ma ha un passato in riviste e quotidiani in lingua inglese conosciuti in tutto il mondo). Un po’ meno noto quello della storica e curatrice londinese, Gabe Beckhurst Feijoo (specializzata in fotografia, performance e immagini in movimento) e del giovane assistente della signora Kouoh, Rory Tsapayi (cresciuto in Zimbabwe si è laureato in giornalismo e storia dell’arte negli Stati Uniti, ha scritto di sé che il suo lavoro “è guidato dal desiderio di collegare le storie nere del XX secolo, dentro e fuori il continente” africano). Mentre, con ogni probabilità, la curatrice africana, Marie Hélène Pereira (particolarmente interessata alla storia delle migrazioni e alle politiche d’identità), potrà essere molto utile a portare avanti la mostra che avrebbe voluto la signora Kouoh, visto il loro rapporto di collaborazione di lunga data.

Riguardo alla sessantunesima Esposizione Internazionale d’Arte “In Minor Keys”, Koyo Kouoh, ha scritto: “Una mostra sintonizzata sulle tonalità minori; una mostra che invita ad ascoltare i segnali persistenti della terra e della vita, in connessione con le frequenze dell’anima. Se nella musica le tonalità minori sono spesso associate alla stranezza, alla malinconia e al dolore, qui si manifestano anche nella loro gioia, consolazione, speranza e trascendenza”. In sintonia con il messaggio trasmesso da altre sue longeve esposizioni (come When We See Us. A Century of Black Figuration in Paintings, originariamente creata per lo Zeitz MOCAA è stata allestita anche in altre sedi e adesso è in mostra al Bozar di Bruxelles fino al prossimo 10 agosto).

La curatrice ha anche detto che “In Minor Keys” sarà una mostra fatta dagli artisti: “una partitura collettiva, composta insieme ad artisti che hanno costruito universi dell’immaginazione. Artisti che operano ai confini della forma, le cui pratiche possono essere intese come melodie complesse, da ascoltare sia collettivamente che secondo una propria autonomia”. Mentre lo scorso dicembre a chi le aveva chiesto se la sua Biennale sarebbe stata una “Biennale africana”, aveva risposto: “Sarà una Biennale internazionale, come sempre!

Alla presentazione di “In Minor Keys” è stata anche recitata una poesia di Koyo Kouoh, alla quale lei teneva molto: “Sono stanca/ La gente è stanca/ Siamo tutti stanchi/ Il mondo è stanco/ Persino l’arte stessa è stanca/ Forse il tempo è venuto/ Abbiamo bisogno di qualcos’altro/ Abbiamo bisogno di guarire/ Abbiamo bisogno di amare/ Abbiamo bisogno di stare con la bellezza e in tanta bellezza/ Abbiamo bisogno di giocare/ Abbiamo bisogno di stare con la poesia/ Abbiamo bisogno di amare ancora/ Abbiamo bisogno di danzare/ Abbiamo bisogno di fare e dare cibo/ Abbiamo bisogno di riposare e ristorarci/ Abbiamo bisogno di respirare/ Abbiamo bisogno della radicalità della gioia/ Il tempo è venuto”.

KoyoKouoh in un immagine di Mirjam Kluka

ANTHEA HAMILTON alla Fondazione Memmo: il linguaggio silenzioso dell’Arte

anthea hamilton installation view rome

Anthea Hamilton, Soft You, 2025 Roma, Fondazione Memmo. Installation view. Photo © Daniele Molajoli

La Fondazione Memmo di Roma ospita fino al 2 Novembre 2025 “Soft You”, la prima mostra istituzionale nella capitale dell’artista britannica Anthea Hamilton, a cura di Alessio Antoniolli (direttore dello spazio espositivo londinese Gasworks e del network di artisti e organizzazioni di settore Triangle Network).

Un’esperienza sensoriale e riflessiva che invita il visitatore ad affrontare temi complessi attraverso un linguaggio visivo che danza tra epoche e confini, trasformando lo spazio espositivo in un ambiente libero e fluido in cui i limiti che separano identità, ruoli e linguaggi si dissolvono.

L’artista esplora temi quali il desiderio, i ruoli di genere, la sessualità e la cultura visiva attraverso installazioni immersive e simbolismi culturali spesso tratti dal surrealismo e dalla storia dell’arte. Si servee anche di una coreografia di oggetti e simboli per esplorare un paesaggio emotivo di frammenti, riti e identità in transito.

Anthea Hamilton guida il visitatore in un viaggio tra Shakespeare, Roma e antiche tradizioni culturali.

Il titolo della mostra, “Soft You”, è tratto dall’ultimo monologo di Otello nell’omonima tragedia di Shakespeare; un invito alla sospensione, all’attesa (soft), un momento di verità e consapevolezza prima della fine. L’artista si serve di questa pausa per creare un ambiente immersivo.

Soft You” è un’esperienza sensoriale unica in cui scultura, installazione, performance, design e profumo si fondono.

L’esposizione presenta un’ampia installazione composta da oggetti, frammenti, immagini e gesti che generano intense riflessioni; da gusci d’uovo su superfici laccate, a silenziosi manichini e collage fotografici tratti da performance passate, ad una componente olfattiva dal titolo “Cold, Cold Heart” creata in collaborazione con il designer di fragranze Ezra-Lloyd Jackson.

Anthea Hamilton riprende anche motivi ricorrenti della sua pratica artistica, come le sculture di gambe femminili modellate sulle proprie (le “Legs”), realizzate in materiali diversi e inserite nello spazio espositivo come fregi.

In mostra anche elementi tratti dalla sua celebre performance teatrale “Othello: A Play”, del 2024 (creata insieme alla sua storica collaboratrice Delphine Gaborit, esplorava lo spazio che separa performance art e scultura, mettendo contemporaneamente in discussione innumerevoli cliché). 

Anthea Hamilton, Soft You, 2025 Roma, Fondazione Memmo. Installation view. Photo © Daniele Molajoli

Anthea Hamilton, Soft You, 2025 Roma, Fondazione Memmo. Installation view. Photo © Daniele Molajoli