Tutta la bellezza di “Stranieri Ovunque”, la Biennale di Venezia con un prima e un dopo

La facciata del del Padiglione Centrale rallegrata dal murale del collettivo MAHKU 60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Il tempo incerto della seconda metà di aprile ha fatto bene alle piante, e gli alberi dei Giardini accolgono con tutte le possibili sfumature di verde riflesse nelle acque argentee della laguna i visitatori della 60esima Esposizione internazionale d’Arte, che durante lo scorso fine settimana (il primo di apertura della Biennale di Venezia 2024) hanno superato tutti i record precedenti. Sono anche delle perfette quinte vegetali per l’elegante facciata del Padiglione Centrale che quest’anno appare completamente ridisegnata, sfolgorante di audaci colori tropicali, da un murale del collettivo MAHKU (il Movimento degli Artisti Huni Kuin, cioè una popolazione amazzonica che abita tra Brasile e Perù, nella regione dell’alto Rio Jordão). Gli autori hanno impiegato 45 giorni per completarlo (niente in confronto ai mesi che sono occorsi ad Archie Moore, meritatissimo Leone d’Oro per le Partecipazioni Nazionali, solo per disegnare col gesso sulle pareti del padiglione Australia un albero genealogico in cui è risalito di 65mila anni!)

Un particolare del monumentale albero genealogico tracciato a mano da Archie Moore Archie Moore / kith and kin 2024 / Australia Pavilion at Venice Biennale 2024 / Photographer: Andrea Rossetti / © the artist / Image courtesy of the artist and The Commercial

E questo è soltanto un piccolo assaggio dell’imponente lavoro che si troverà di fronte il pubblico di “Stranieri Ovunque- Foreigners Everywere” di Adriano Pedrosa, una Biennale che ha riunito le opere di oltre 300 artisti (Pedrosa in un’intervista ha detto: “Volevo dare ad ognuno una possibilità, forse per questo ne ho selezionati così tanti.”) provenienti da ogni dove (ma soprattutto dall’America Latina), spesso indigeni, nella stragrande maggioranza dei casi sconosciuti al grande pubblico.

E non poteva essere altrimenti, visto che Pedrosa, attualmente direttore del Museo d’arte di San Paolo del Brasile, ha bypassato musei e gallerie (abituali fornitori di informazioni in queste circostanze) viaggiando personalmente in Angola, Repubblica Domenicana, Bolivia, Indonesia e Guatemala per trovarli (“Penso di essere stato il primo curatore a farlo” ha detto a Radio 3).

Il tema, che ricalca il titolo, ha tre chiavi di lettura: una politica, una psicologico-poetica e una linguistica. Per questo, in mostra trovano ampio spazio gli artisti indigeni (stranieri nella propria patria), gli artisti queer (stranieri rispetto a un modello sociale binario) e gli outsider (stranieri, tra l’altro, rispetto ai canoni della storia dell’arte). L’aspetto più profondo di questa riflessione è sicuramente il restare estranei a sé stessi, ed è forse il meno immediatamente leggibile, ma la mano misurata e sicura di Pedrosa riesce a dare tridimensionalità anche alla lettura più immediata (quella politica) bilanciando con le tribolazioni dell’essere sradicati dalla propria cultura l’affermazione di uguaglianza globalista. Un’alchimia per niente facile.

Un dipinto di Kay WalkingStick al Padiglione Centrale Photo © artbooms

Ne è uscita una Biennale unica, narrativa, artigianale, fatta di dipinti e di tessuti, luccicante di lustrini, densa di segni, carica di bellezza, a momenti illuminata da brillanti colori pastello o rallegrata da vivaci cromie, altre mimetica, in sintonia coi toni di rocce, terreni argillosi e muschi di foreste o aree desertiche. Ci sono poche sculture e diversi video, (spesso inseriti per fluidificare il percorso, dando il tempo al visitatore di fermarsi a metabolizzare la moltitudine di immagini condensate negli spazi precedenti). Una mostra in un certo senso sospesa tra passato e presente, che ha contagiato con il suo forte tema (quello degli stranieri, delle minoranze, degli svantaggiati) tutte le partecipazioni nazionali, in cui le nuove tecnologie non avrebbero potuto trovare spazio, ma che, forse per questo, spinge la contemporaneità ad emergere prepotente e ad apparire inaspettata: nell’ologramma transgender- canterino della Svizzera, nei cartelloni digitali che stanno fuori a Francia e Gran Bretagna; ma anche nel padiglione Israele tristemente chiuso e presidiato da una coppia di militari (dopo molte polemiche sono stati i curatori a decidere di non aprire anche perché temevano manifestazioni di dissenso filo-palestinese) non lontano dalla Russia che, quest’edizione, ha ceduto il suo edificio alla Bolivia, senza neppure fare un comunicato per spiegare le ragioni di questa scelta. Tensioni geopolitiche che crepitano e si specchiano nella Biennale.

il neon di claire fontaine ai giardini della biennale

Il pubblico sotto il neon del collettivo Claire Fontaine all'esterno del Padiglione Centrale 60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Lo spirito del tempo, tuttavia, non impedisce al passato di rivendicare la propria importanza nelle vicende del presente. Così i neon del collettivo italo-francese, Claire Fontaine, che hanno ispirato il titolo della manifestazione, incontrano il pubblico all’ingresso dei Giardini per poi tornare a mettersi in vista all’Arsenale, mentre, sospesi sull’acqua, appongono il riflesso della frase “Stranieri Ovunque” (in tutte le lingue e i colori primari) nelle onde dell’antica darsena.

Il passato, d’altra parte, è un elemento importante di questa Biennale che, prima di sondare il presente, si propone di restituire alla storia dell’arte pagine perdute. Di regalare uno sguardo critico diverso agli osservatori di oggi, sulla base di una rivalutazione di tecniche, stili, concetti e tradizioni artistiche a cui nessuno fino ad ora aveva mai prestato attenzione (semplicemente perché succedevano al di fuori dell’Occidente). Un lavoro che continua e completa quello cominciato da Cecilia Alemani ne “Il Latte dei Sogni (lei si era occupata delle opere perdute o sottovalutate perché firmate da donne, Pedrosa di quelle di creativi che hanno operato nel sud del mondo).

Forse proprio per questo gli artisti scomparsi sono oltre la metà di quelli chiamati a partecipare. C’è il nucleo storico che si sviluppa in quattro sale ma anche all’interno di quello contemporaneo i morti sono tanti.

Crucifixion of the Soul” di Madge Gill Photo © artbooms

Tre gruppi di opere del nucleo storico sono ai Giardini, dove per tradizione viene esposto il materiale più datato (una sala dedicata all’astrazione queer, una al ritratto e una agli artisti italiani del XX secolo che si sono avventurati in Paesi allora considerati remoti e minacciosi). Ma, come già detto, anche quelli del nucleo contemporaneo a volte non ci sono più. E’ il caso dell’inglese Madge Gill, per la prima volta esposta alla Biennale, con lo splendido “Crucifixion of the Soul” (1936). Artista outsider, Gill, ben rappresenta la chiave di lettura psicologico-poetica del tema “Stranieri Ovunque” (essere estranei a se stessi), era infatti convinta che la sua mano fosse pilotata da uno spirito guida. “Crucifixion of the Soul” è un monumentale esempio del suo stile: fittissimo disegno veloce ed energico ad inchiostro da cui emergono figure femminili, scale e motivi a scacchiera.

Uno dei Bamboos di Ione Saldanha Photo © artbooms

Non è più tra noi (dal 2001) anche la brasiliana Ione Saldanha che ha esplorato nuovi supporti pittorici per il suo lavoro. Uno di questi è stato il bamboo, che l’artista raccoglieva e seccava per più di un anno per poi sabbiarlo e ricoprirlo con cinque rivestimenti preparatori di pittura bianca. Alla fine lo dipingeva con motivi astratti e colori vivaci. Queste opere che sono una via di mezzo tra pittura e scultura si chiamano “Bambus” e sono pensate per essere appese al soffitto e fluttuare al passaggio dei visitatori.

Sempre al Padiglione Centrale i dipinti di paesaggi naturali americani, ad un tempo meta turistica e patria ancestrale degli indiani-americani, della statunitense Kay WalkingStick (di padre cherokee), oltre alle rappresentazioni dell’infinita varietà di alberi della foresta amazzonica di Abel Rodríguez (formatosi come botanico presso gli indigeni colombiani Nonuya). Ma anche gli assemblaggi scultorei tagliati con la motosega dal coreano-argentino Kim Yun Shin che, a 88 anni, ha trovato una galleria di riferimento per il suo lavoro solo quest’anno.

Delle sculture di Kim Yun Shin esposte nel Padiglione Centrale 60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere Photo by: Matteo de Mayda Courtesy: La Biennale di Venezia

Se i Giardini si possono definire un tiepido inizio è all’Arsenale che Pedrosa dimostra tutto il suo talento di regista. Non una nota stonata, non un cedimento, ogni scelta stilistica (se così si può dire) è perfetta: l’equilibrio tra spazi pieni e vuoti nell’installazione, tra stanze colme di oggetti ed altre concepite per fermare il visitatore, dargli il tempo di prendere fiato e ripartire di nuovo ricettivo. Persino i colori dei gruppi di quadri alle pareti non sembrano lasciati al caso e si abbinano bene a vicenda.

Qui si parte con un’installazione del collettivo di donne māori della Nuova Zelanda, Mataaho, fatta di fasce in poliestere e fibbie in acciaio, tese a proiettare una successione di righe d’ombra e luce senza soluzione continuità sulle pareti dell’antico ex-edificio industriale veneziano. L’opera, che si è aggiudicata il Leone d’Oro al miglior partecipante, si intitola “Takapau”, come una stuoia tradizionalmente usata dagli indigeni durante il parto e che segna perciò un momento di transizione fra luce e buio.

Ma i lavori da segnalare sarebbero davvero troppi, dai “trapuntos” della filippino-statunitense Pacita Abad, ai dipinti carichi di sfumature fantascientifiche di verde che sottraggono all’oscurità i personaggi queer della stella emergente pakistano-americana, Salman Toor. E poi dipinti e sculture della poetessa visiva austriaco-italiana (vive a Bologna) Greta Schödl che ricopre interamente gli oggetti con una singola parola ripetuta più e più volte (ad esempio su un pezzo di granito incide reiteratamente la parola “granito”) da cui isola una lettera su cui applica della foglia d’oro. Senza dimenticare le splendide fotografie del boliviano, River Claure, che nella sua serie più conosciuta “Warawar Wawa” (2019-2020) ambientava il “Piccolo Principe” nella Bolivia contemporanea.

Un particolare dell’installazione premiata “Takapau” del collettivo Mataaho Photo © artbooms

Poi i tessuti ariosi, dai colori tenui e sorprendenti, ottenuti anche con pigmenti naturali, della keniota Agnès Waruguru; l’enorme installazione idraulica effimera del colombiano-francese, Daniel Otero Torres, fatta di oggetti recuperati qua e là, messi insieme per evocare il sistema di architettura a palafitte degli Emberà (stanziati lungo le rive del fiume Atrato, in Colombia), e progettata per raccogliere l’acqua piovana e fornire agli abitanti acqua non inquinata. E ancora, l’artista autodidatta peruviano, Santiago Yahuarcani, che dipinge con pigmenti naturali complesse scene che non fanno riferimento alla storia dell’arte occidentale ma a quanto narrato dai suoi antenati, alla conoscenza sacra delle piante medicinali, ai suoni della giungla e ai miti del suo popolo. Yahuarcani, che appartiene al clan dell’Airone Bianco della Nazione Uitoto (indigeni dell’Amazzonia settentrionale), era presente all’inaugurazione della Biennale e si è messo davanti ai suoi quadri a spiegare pazientemente alle persone di passaggio il perché di ogni singola immagine nelle complesse composizioni. In mostra c’è anche suo figlio, Rember Yahuarcani (e non sono gli unici due partecipanti legati da vincoli di sangue), che crea paesaggi onirici dai colori vivaci che tendono all’astrattismo e sono stati invece influenzati dall’arte dell’occidente.

Santiago Yahuarcani spiega al pubblico incontrato in Biennale il perchè delle rappresentazioni che animano le sue grandi opere Photo © artbooms

La parte dell’esposizione sviluppata all’Arsenale si conclude con una stanza dedicata interamente all’opera di un’altra stella nascente, il giovane artista statunitense di origini orientali, WangShui, che qui presenta dai grandi pannelli ossidati manualmente con la cocciniglia posti a schermare le finestre (solo una lama di luce filtra da ogni lato), insieme ad una grande scultura di led che pulsa ed emette suoni e rumori. L’effetto è straniante e drammatico.

Usciti di lì i visitatori troveranno non molto lontano il Padiglione Italiano (di cui Artbooms parlerà diffusamente più avanti), intitolato “Due qui / To Hear”, una installazione scultoreo-sonora, risolta con uno stile pulito dall’artista Massimo Bartolini, e davvero ben riuscita. Il curatore è Luca Cerizza. Bravi entrambi!

Al margine del giardino che completa il padiglione Italiano (che è stato pensato come una terza stanza e contiene un’ultima, impalpabile, opera di Bartolini) non va dimenticato di entrare nel piccolo edificio che ospita l’installazione site-specific, “Indo e Vindo”, dell’italiana di nascita ma brasiliana d’adozione, Anna Maria Maiolino, Leone d’oro alla carriera di quest’anno. Una quantità impressionante d’argilla modellata a mano ma anche suoni e odori che evocano l’inesauribile vitalità della natura e il ciclo della vita.

Stranieri Ovunque- Foreigners Everywere” di Adriano Pedrosa resterà a Venezia fino al 24 novembre e va assolutamente visitata. Sia perché si tratta di una splendida mostra che ha comportato un lavoro colossale, ma anche e soprattutto perché dopo questa Biennale (così come dopo quella che l’ha preceduta) la critica e la storia dell’arte non saranno più le stesse. Non potranno esserlo. Anche se nella prossima edizione dovesse essere nominato un curatore dall’approccio più convenzionale semplicemente non gli sarà possibile fare come se niente fosse. La 60esima Esposizione internazionale d’Arte è destinata ad avere un prima e un dopo.

Una ragazza osserva le opere di Abel Rodríguez al padiglione Centrale Photo © artbooms

Salman Toor, Night Grove, 2024  Oil on panel 195.6 × 267 cm 60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Particolare di un'opera di Greta Schödl 60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere Photo by: Marco Zorzanello Courtesy: La Biennale di Venezia

Un particolare della stanza dedicata a WangShui che completa il percoso all'Arsenale 60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Un'opera di River Claure Photo © artbooms

Daniel Otero Torres Aguacero , 2024 Mixed media 655 × 1100 × 1100 cm  60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere Photo by: Marco Zorzanello Courtesy: La Biennale di Venezia

Un particolare dell'installazione “Indo e Vindo”, del Leone d'oro  alla carriera Anna Maria Maiolino Photo © artbooms

Il Papa visiterà la Biennale di Venezia. Sarà la prima volta nella storia della manifestazione

Padiglione Centrale ai Giardini della Biennale Photo by Francesco Galli

Ad aprile quando Papa Francesco farà tappa al Padiglione della Santa Sede della 60esima Esposizione Internazionale d’Arte (che quest’anno si terrà alla Casa di reclusione femminile della Giudecca visto che il Vaticano non ha una sede stabile per la manifestazione lagunare) sarà una data storica. E’, infatti, la prima volta in assoluto che un papa visita la Biennale di Venezia. “Accogliamo con gioia la notizia della visita di papa Francesco al Padiglione della Santa Sede alla Biennale presso il carcere femminile della Giudecca, che rispettosamente interpretiamo anche come un gesto di attenzione verso tutta la Biennale di Veneziaha commentato il presidente della Biennale, Roberto Cicutto, cui (il prossimo 2 marzo) succederà Pietrangelo Buttafuoco (ci sarà anche lui, mussulmano per scelta e affinità intellettuale, ad accoglierlo insieme al sindaco Luigi Brugnaro e al presidente della Regione Veneto Luca Zaia). E poi ci sarà pure il curatore di “Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere”, la sessantesima edizione della Biennale di Venezia, Adriano Pedrosa.

 Nato a Rio de Janeiro in Brasile nel ’65, Pedrosa, che da diversi anni lavora al Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand (per praticità MASP) ed è apprezzato, tra le altre cose, per gli approfonditi e pionieristici studi sull’arte indigena (e non solo quella del sud-america) si definisce “il primo curatore della Biennale che lavora nel sud del mondo”, oltre ad essere il primo curatore queer dichiarato dell’importante manifestazione artistica internazionale, è un intellettuale latino-americano. E il fatto che anche Bergoglio provenga dalla stessa area del pianeta non sembra casuale. Come di certo non lo è il fatto che il Vaticano partecipi nel 2024, dopo una storia di presenze altalenanti, quando il focus è sull’alterità e sul sud del mondo. Questo nonostante il colonialismo sia stato anche un fatto religioso.

Bergoglio, comunque, non sembra avere in programma nemmeno un passaggio veloce ai Giardini della Biennale (sede principale e cuore pulsante della manifestazione) ma solo al Padiglione della Santa Sede alla Giudecca, lontano dal centro della kermesse battuto dai turisti. In questo senso il Papa renderà la location, sulla carta troppo decentrata, appetibile al grande pubblico. Alzando la palla ad una mostra che sembra studiata per fare il pieno di visite ma che avrebbe potuto essere fortemente penalizzata dalla sede. Tutto ciò indica chiaramente che la Chiesa crede profondamente nell’importanza dell’arte contemporanea, come mezzo per veicolare il messaggio pastorale del pontefice.

La partecipazione della Santa Sede alla Biennale d’Arte è recente (una decina d’anni). A promuoverla è stato il cardinale Gianfranco Ravasi, ai tempi presidente del Pontificio consiglio della cultura, ma già Benedetto XVI, durante il suo mandato, aveva incoraggiato un nuovo rapporto tra Chiesa ed arti.

La mostra del padiglione (molto francese nella scelta e nell’equilibrio degli artisti) si intitola “Con i miei occhi” e, a livello concettuale, intende essere un reimpasto del tema proposto da Pedrosa in chiave cattolica. Ma i curatori (la storica dell’arte, Chiara Parisi, attuale direttore del Centre Pompidou-Metz, oltre allo scrittore francese, Bruno Racine, amministratore delegato e direttore di Palazzo Grassi) sono stati abili nella scelta degli artisti, regalando vibrazioni vitali e un alone potenzialmente trasgressivo al progetto. Ci sarà la star indiscussa dell’arte italiana, Maurizio Cattelan, poi la ballerina e coreografa francese, Bintou Dembélé (pioniere della danza hip hop oltralpe, che esplora il tema della memoria del corpo), la scrittrice e artista libanese Simone Fattal (fresca della partecipazione alla mostra principale de “Il Latte dei Sogni”, la Biennale Arte 2022, di Cecilia Alemani), la coppia Marco Perego & Zoe Saldana (regista italiano trapiantato negli States lui, diva figlia di immigrati lei), la pittrice francese Claire Tabouret (tavolozza acquea, spesso animata da sfumature di colore pastello tendenti al fluorescente, che rompono composizioni figurative inquiete), il collettivo parigino Claire Fontaine (quello che creava i neon con la scritta “Stranieri Ovunque”, d’ispirazione per il titolo della Biennale 2024) e l’artista ed educatrice statunitense Suor Corita Kent (mancata nel 1986).

Sono diversi i segni di rinnovamento che si possono intravedere dagli artisti chiamati a rappresentare quest’anno la Santa Sede (il progetto dell’esposizione, come quelli di tutte le altre partecipazioni nazionali, è ancora segreto). E malgrado la stampa per ora si sia soffermata sulla presenza di Maurizio Cattelan, che, proprio alla Biennale nel 2001, aveva suscitato polemiche con “La Nona Ora” (l’opera rappresenta Papa Giovanni Paolo II colpito da un meteorite, e, dietro la patina ironica e neo-pop da cartoon, è, in realtà, una toccante riflessione sul tema della fragilità della vita e sul destino), la presenza più rilevante sembra quella di Suor Mary Corita Kent. Nata Frances Elizabeth Kent, quest’ultima, fu un’artista Pop a lungo dimenticata ma che di recente ha recuperato centralità nella storia dell’arte. Nella sua opera, mischiava immagini di marchi di consumo, a, tra le altre cose, citazioni della Bibbia, di filosofi e di personaggi dei cartoni animati. Prese attivamente parte alle marce degli anni ‘60 per i diritti civili e contro la guerra ma, a causa dei contrasti con il cardinale e l’arcidiocesi di Los Angeles dell’epoca, tornò alla vita secolare già nel ’68. Ai tempi il cardinale aveva definito il suo lavoro “blasfemo”.

Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere”, la sessantesima edizione dell’Esposizione Internazionale d’Arte Biennale di Venezia, inaugurerà il 20 aprile insieme a tutti i padiglioni nazionali e rimarrà visitabile fino al 24 novembre. Mentre Papa Bergoglio visiterà il Padiglione della Santa Sede domenica 28 aprile 2024.

“Stranieri Ovunque”: la Biennale degli indigeni e dei parenti di Adriano Pedrosa

Claire Fontaine ( Founded in Paris, France, 2004 - Based in Palermo, Italy ) Foreigners Everywhere – Spanish (2007) Suspended, wall or window mounted neon, framework, electronic transformer and cables - installation view 98 × 2.16 × 45 cm The Traveling Show, curated by Adriano Pedrosa, La Colección Jumex, Mexico / Photo by Studio Claire Fontaine / © Studio Claire Fontaine / Courtesy Claire Fontaine and Mennour, Paris 

Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere”, la sessantesima Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, che si inaugurerà la prossima primavera (dal 20 aprile, al 24 novembre 2024), è un progetto ambizioso; mastodontico (riunisce 332 nomi di tutte le nazionalità ma per lo più provenienti dal sud del mondo); che è già stato definito un “colpo di coda woke”. In questa edizione, curata dal brasiliano Adriano Pedrosa (laureato in legge e artista con un master in arte e scrittura critica al California Institute of the Arts, che si è fatto un nome per l’eccellente lavoro svolto al Museu de arte de São Paulo in Brasile), infatti, “la migrazione e la decolonizzazione saranno le tematiche chiave”.

"Adriano Pedrosa - ha detto il presidente uscente della Biennale Roberto Cicutto (cui succederà Pietrangelo Buttafuoco)- è il primo curatore della Biennale Arte proveniente dall’America Latina, scelto perché portasse il suo punto di vista sull’arte contemporanea rileggendo culture diverse come fosse un controcampo cinematografico". 

Se, così su due piedi, l’idea dell’ennesima mostra su migranti e rifugiati potrebbe deludere, in realtà Pedrosa definitosi “il primo curatore della Biennale che lavora nel sud del globo”, oltre ad essere il primo curatore “queer” dichiarato, ha scelto di affrontare il tema in maniera profonda e guardandolo da molteplici punti di vista: “L’espressione Stranieri Ovunque – ha spiegato - ha più di un significato. Innanzitutto, vuole intendere che ovunque si vada e ovunque ci si trovi si incontreranno sempre degli stranieri: sono/siamo dappertutto. In secondo luogo, che a prescindere dalla propria ubicazione, nel profondo si è sempre veramente stranieri”. Così oltre agli artisti provenienti dal sud del mondo (non tanto quelli che si sono trasferiti in Occidente a lavorare ma soprattutto quelli che sono rimasti in paesi in via di sviluppo), la mostra presenterà artisti dalla sessualità non binaria (“l’artista queer, che si muove all’interno di diverse sessualità e generi ed è spesso perseguitato o messo al bando”), artisti outsider e folk. In merito a questi ultimi, Pedrosa, in un’intervista rilasciata tempo fa, aveva affermato: “In Europa e negli Stati Uniti, ‘decolonizzare’ implica includere Africa, America Latina e Asia. In Brasile (e per estensione nei paesi non occidentali ndr), penso che ‘decolonizzare’ significhi guardare al popolare, all’autodidatta, all’outsider, al vernacolare”.

Poi sarà dato ampio spazio agli artisti indigeni (“spesso trattati come stranieri nella propria terra”), che andranno guardati con particolare attenzione, perchè uno dei motivi per cui Padrosa si è guadagnato rispetto e ammirazione nel mondo dell’arte, è proprio per il lavoro (per niente facile) di ricerca e studio dell’arte indigena che il curatore brasiliano ha cominciato da prima della sua nomina (e su cui quindi ha avuto più tempo per concentrarsi). “Il prossimo passo cruciale per noi- ha detto qualche anno fa parlando del museo di San Paolo- nel 2021, è l’inclusione dell’arte indigena. L'intero anno sarà dedicato alle storie degli indigeni, non solo brasiliani ma anche internazionali: Australia, Nuova Zelanda, Canada, Messico, Perù, Scandinavia e così via”. E poi, l’arte indigena nel 2024 sarà protagonista anche del Padiglione Stati Uniti (solitamente uno dei più belli del nucleo storico dei paesi espositori) che con l’artista di origine Cherokee, Jeffrey Gibson, sarà rappresentato per la prima volta in 129 anni di storia da un nativo americano (il padiglione sarà curato dalla nativa americana Kathleen Ash-Milby e da Louis Grachos e si intitolerà: “The space in which to place me”). Prima volta anche per la Danimarca, che si affiderà all’artista groenlandese Inuuteq Storch. L’Australia invece sarà incarnata da un singolo artista aborigeno per la seconda volta nella sua storia (l’onore sarà di Archie Moore).

Il titolo della mostra “Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere”, ha origine da una serie di sculture al neon realizzate a partire dal 2004 dal collettivo Claire Fontaine (nato a Parigi e con sede a Palermo) che recitavano in un numero imprecisato di lingue, appunto: “Stranieri Ovunque”. Sempre Pedrosa in una recente intervista ha spiegato: “Si tratta di un’espressione con molti livelli di significato: si può leggere come ‘ovunque tu vada ci sono stranieri e immigrati’ ma anche come ‘ovunque tu vada sei sempre uno straniero’. Trovo che abbia una connotazione sia poetica che politica, e persino psicanalitica; in questo senso ho pensato che fosse un buon punto di partenza”.

Installation view: Cité internationale des arts Paris, Monmartre, Paris, 2004 Claire Fontaine Foreigners Everywhere (Italian), 2004 Suspended, wall or window mounted neon, framework, electronic transformer and cables. Courtesy of the artist. Photo by Studio Claire Fontaine Copyright Studio Claire Fontaine Courtesy of Claire Fontaine and Galleria T293, Rome

Saranno privilegiati gli artisti che non hanno mai partecipato alla mostra della Biennale (al massimo possono aver rappresentato un paese o essere stati chiamati per un progetto collaterale). Non a caso i loro nomi, già di per sé parecchio ostici, sono in gran parte sconosciuti e comunque non ci saranno super-star. Almeno tra i nostri contemporanei, mentre per quanto riguarda quelli del passato la questione cambia, visto che tra loro c’è pure la famosissima Frida Kahlo. Inoltre, se è vero che il numero degli artisti chiamati a partecipare è altissimo, quelli che lo faranno consapevolmente si restringe di oltre un terzo: sono infatti solo un centinaio i viventi. Alcuni tra loro sono già anziani, altri lo sono decisamente. In questo senso la Biennale di quest’anno, sembra essersi autolimitata nel suo ruolo di osservatorio sul presente e su quello di istituzione votata a cogliere le tendenze, a prevedere il futuro. Come fosse un grande museo (magari del sud del globo) che riflette sulla storia, anzichè una delle maggiori e più influenti manifestazioni di arte contemporanea del mondo.

Come sempre la mostra si articolerà tra Padiglione Centrale ai Giardini e Arsenale. Quest’ultimo sarà lo spazio dedicato alla contemporaneità, in cui troverà posto pure un progetto vecchio stile, quasi nostalgico del ’68: “Il Nucleo Contemporaneo ospiterà nelle Corderie una sezione speciale dedicata a Disobedience Archive, un progetto di Marco Scotini che dal 2005 sviluppa un archivio video incentrato sulle relazioni tra pratiche artistiche e attivismo”. Mentre nel primo ci sarà un gruppo di opere storiche, così suddiviso: due sale dedicate ai ritratti (per lo più dipinti di persone non bianche), una sala all’astrattismo al di fuori dell’Occidente e poi una terza sala dedicata alla diaspora artistica italiana nel mondo lungo il corso del XX secolo (qui Pedrosa ha forzato un po' la mano, perché gli artisti di qualsiasi nazionalità da che mondo è mondo si spostano spesso).

Per quanto riguarda i linguaggi: l’arte generativa, la computer-art e l’arte che stringe legami con la scienza per creare opere innovative, avranno poco o niente spazio. Domineranno, invece, la scena, pittura, scultura e pratiche artigiane varie, con una corsia preferenziale per gli artisti che lavorano su tessuto (non a caso uno dei due leoni d’oro alla carriera andrà alla bravissima italiana naturalizzata brasiliana, Anna Maria Maiolino; l’altro, invece, se l’è aggiudicato la turca residente a Parigi, Nil Yalter). Ampio spazio poi verrà riservato alla performance art (con una serie di spettacoli organizzati per l’occasione ma anche con alcuni giovani artisti in mostra che usano anche il corpo in chiave post-umana nella loro pratica).

A sorpresa, questa Biennale di Venezia darà infine spazio ai rapporti parentali tra gli artisti (!): zio e nipote, zia e nipote, fratelli, madre e figlia, padre e figlio, più di una coppia (“Andres Curruchich e sua nipote Rosa Elena dal Guatemala; Abel Rodriguez e suo figlio Aycoboo dalla Colombia; Fred Graham e il figlio Brett, artisti Maori di Aotearoa/Nuova Zelanda; Juana Marta e sua figlia Julia Isidrez dal Paraguay; il Makhu, Movimento dos Artistas Huni Kuin, ossia il collettivo Huni Kuin della parte occidentale della regione amazzonica brasiliana; Joseca e Taniki Yanomami, della parte settentrionale della stessa zona; Santiago Yahuarcani e il figlio Rember dal Perù; Susanne Wenger e suo figlio adottivo Sangódáre Gbádégesin Ajàla dalla Nigeria e i fratelli Philomé e Senèque Obin da Haiti e Jewad e Lorna Selim, marito e moglie dall’Iraq e dalla Gran Bretagna”).

Le partecipazioni nazionali saranno complessivamente 90. Quattro i Paesi che parteciperanno per la prima volta: Repubblica del Benin, Etiopia, Repubblica Democratica di Timor Est e Repubblica Unita della Tanzania. Nicaragua, Repubblica di Panama e Senegal, invece, partecipano per la prima volta con un proprio padiglione. 

Per concludere bisogna ricordare che il Padiglione Italia (quest’anno alle Tese delle Vergini in Arsenale) sarà di Massimo Bartolini. Un artista con una bella carriera alle spalle, già ospite della Biennale in passato oltre che di Documenta e Manifesta (fa parte della scuderia di Massimo de Carlo, la storica galleria di Maurizio Cattelan), che lavora sul rapporto tra uomo, natura e spazio architettonico e che di certo varrà la pena di essere visto.

Installation view: Cité internationale des arts Paris, Monmartre, Paris, 2004 Claire Fontaine Foreigners Everywhere (Italian), 2004 Suspended, wall or window mounted neon, framework, electronic transformer and cables. Courtesy of the artist. Photo by Studio Claire Fontaine Copyright Studio Claire Fontaine Courtesy of Claire Fontaine and Galleria T293, Rome