A Napoli la "Venere degli stracci" di Pistoletto è stata data alle fiamme

Michelangelo Pistoletto, Venere degli Stracci, 1967, 1974, Tate Galleries Copyright © Michaelangelo Pistoletto

La nuova, monumentale, versione, della “Venere degli Stracci” di Michelangelo Pistoletto è andata in cenere nella notte tra lunedì e martedì. L’ormai iconica scultura del maestro dell’Arte Povera che lo scorso 25 giugno ha compiuto 90 anni, era stata posizionata in Piazza Municipio, nel cuore di Napoli, in occasione della manifestazione “Napoli contemporanea” (che prevede interventi di vari artisti e mostre in zone diverse della città), solo pochi giorni fa.

Per quanto non si conosca ancora il motivo dell’accaduto, fin dall’inizio si è parlato di incendio doloso. E nel tardo pomeriggio di ieri è stato individuato anche un presunto responsabile (un napoletano di 32 anni senza fissa dimora, che avrebbe appiccato l’incendio con un accendino, per poi fuggire).

Appena venuto a sapere del rogo, Pistoletto, aveva dichirato al Corriere: "È come se la parte stracciata del mondo avesse dato fuoco a se stessa. Parliamo di un'opera viva, fatta di elementi, un essere in esposizione. Ora vediamo l'aggressività umana a quali risultati porta. L'uomo prima di dare la pace cerca sempre la guerra".

L’inconsueta durezza nei commenti di Pistoletto, era figlia della falsa convinzione, girata nelle ore immediatamente successive al fatto, che l’opera pubblica fosse stata data alle fiamme per una sorta di sfida social. La verità sembra meno fantasiosa. D’altra parte, il fatto che non fosse stata prevista nessuna misura di sicurezza, rendeva la scultura molto vulnerabile al gomito a gomito con la crudezza della realtà.

Realtà, che l’artista originario di Novara, comunque, ha sempre considerato parte imprescidibile dell’opera d’arte. Come nel caso della serie dei “Quadri Specchianti” (attualmente in mostra nella sede di San Gimignano di Galleria Continua), in cui lo spettatore si trova catapultato, insieme all’ambiente che lo circonda, nel quadro; uno spazio sospeso in cui passato, presente e futuro coesistono fugacemente. La “Venere degli Stracci” è una scultura ormai iconica di Pistoletto, di cui sono state realizzate numerose versioni (ne conservano una, ad esempio, il Madre di Napoli, la Fondazione Pistoletto di Biella, il Museo d'arte contemporanea del castello di Rivoli e la Tate Gallery di Liverpool). Sempre composta da una statua classicheggiante (ispirata a "Venere con mela" dello scultore neoclassico danese Bertel Thorvaldsen) e da una pila di tessuti colorati che nasconde la visione frontale della dea.

Fondamentalmente, l’opera, rappresenta proprio la capacità della vita di imporsi su una statica messa in scena della bellezza.

La prima versione dell’installazione è datata 1967 e utilizza (per la pila di tessuti), le pezze di stoffa di cui il pittore si serviva per pulire i quadri specchianti. In seguito, i vecchi scampoli si trasformeranno in abiti usati (scarti della società dei consumi in vece di una quotidianità umile, capace tuttavia di partecipare e prevalere su un linguaggio artistico superato). Mentre la Venere muterà dimensioni e sarà costruita in vari materiali (cemento, marmo, resine, una volta l’artista l’ha persino rivestita d’oro e un’altra l’ha sostituita con una modella in carne ed ossa).

La versione di Napoli era monumentale, con gli abiti usati appesi all’intelaiatura metallica in modo quasi ordinato, mentre la Venere li osservava senza farsi completamente sovrastare da loro. Adesso, di tutto questo rimane solo l’igloo di metallo. Oltre ai messaggi che abitanti e turisti hanno lasciato per dimostrare la loro tristezza per la perdita della grande opera.

Il sindaco ha comunque annunciato che l'installazione verrà ricreata il prima possibile (probabilmente racimolando il denaro con una raccolta fondi). Mentre il clochard che si pensa abbia appiccato il fuoco che ha distutto la “Venere degli Stracci” di Napoli è stato denunciato a piede libero

CORSIVO: Sarà che in estate i giornali sono avidi di notizie, o che Michelangelo Pistoletto è un artista molto conosciuto e sempre pronto a parlare del suo lavoro, fatto stà che i commenti sulla vicenda si sono sprecati. Sfumata l’opportunità di scagliarsi contro un gruppo di ragazzini ignoranti con il telefonino sempre in mano, qualcuno ha colto l’occasione per prendersela con i linguaggi e i materiali dell’arte contemporanea (davvero pochi irriducibili, a dimostrazione che i tempi ormai sono cambiati), mentre altri hanno letto il fatto come un imprevedibile ma azzeccato coronamento. Per quanto Pistoletto stesso, infatti, nel tempo, abbia attribuito significati diversi alla sua “Venere degli Stracci” (la bellezza e gli scarti della società dei consumi, il mondo ideale e la miseria, la specie umana e l’inquinamento del pianeta), l’opera racconta di come lo splendore della vita vinca sempre sull’arte. E cosa poteva riconogiungerla di più alla realtà di un fuoco appiccato senza un motivo nel cuore di un’antica città addormentata? Una maniera poetica e raffinata di leggere il destino della “Venere degli Stracci” di Napoli che però fa a pugni con il tempo impiegato per realizzarla (1 anno intero) e con il costo dell’intervento (168 mila euro). Forse il tema della sicurezza dei centri cittadini (per persone e opere d’arte), per quanto prosaico, sarebbe stato più azzeccato.

Lo scultore Jimmie Durham che costruiva "combinazioni illegali con oggetti rifiutati" e amava i gatti

“Malinche” una delle sculture iconiche di Jimme Durham. Che ritrae la donna indigena che fu schiava e amante di Hernán Cortés. Tutte le fotografie courtesy Madre

Mancato poco più di un anno fa, Jimmie Durham, è attualmente celebrato dal museo d’arte contemporanea Madre di Napoli con una retrospettiva da non perdere.

Era cresciuto nelle ampie pianure del nord america e nato nel ‘40 a Huston. E’ stato scultore, poeta, attivista, saggista e performer. Nella sua vita ha spesso dichiarato ascendenze Cherokee, contestate e diventate oggetto di una di quelle polemiche tutte americane man mano che la sua fama cresceva.

A riguardo Paul Chaat Smith, nativo americano, curatore del National Museum of the American Indian che conosceva Durham dagli anni '70 ha detto: "Jimmie Durham è nato in una famiglia Cherokee, non si è mai considerato altro che Cherokee, e nemmeno nessun altro nella sua famiglia". Negli Stati Uniti, infatti, l’appartenenza a una tribù di nativi americani è regolamentata e deve essere riconosciuta. Ciò non ha necessarimante a che fare con le origini. A Durham questo non interessava, ha anzi affermato di ritenere gli sforzi per l’arruolamento tribale come uno "strumento dell'apartheid".

Tuttavia, la polemica fu fastidiosa, perchè Durham era diventato famoso introducendo elementi riconducibili all’estetica e al simbolismo nativo americano nelle sue sculture. Per tutta una lunga stagione della sua opera, infatti, aveva usato ricami, perline, pelli, teschi e piume.

I teschi ritorneranno anche nell’utimo periodo, ritenuto più astratto e universale, nella serie dedicata ai grandi mammiferi europei, poi esposta alla Biennale di Venezia 2019 in occasione del Leone d’Oro alla Carriera conferitogli quell’anno.

Durham, mentre dava vita a queste sculture, diceva di usare dei teschi trovati, nel tentativo di comunicare con gli spiriti degli animali a cui erano appartenuti. E anche in questa pratica, si potrebbe vedere un’allusione allo sciamanesimo indiano americano.

D’altra parte, Durham, che aveva cominciato a fare arte negli anni ‘60 per poi spostarsi in Svizzera, era tornato in patria negli anni’70 anche e soprattutto per difendere i diritti civili degli afroamericani e dei nativi americani. Coinvolto poi nell'American Indian Movement fu anche amministratore capo dell'International Indian Treaty Council.

Ma quella stagione si concluse in fretta, e Durahm, dopo un periodo a New York si spostò in Messico e di lì, con la compagna Maria Thereza Alves (artista e attvista brasialiana), in Europa. Prima al nord, per poi dividere stabilmente la sua vita tra Berlino e Napoli.

Ai piedi del Vesuvio aveva uno studio, creato in una ex fabbrica di pelletteria, che nel XII secolo era nata come convento. Gli spazi di quest’edificio, così ricchi di Storia, avevano finito pure per modificare il suo lavoro. Lui, infatti, con un debole per i meteriali grezzi come la pietra (in una serie, esposta anche in Biennale, faceva notare il “lavoro” delle lastre di roccia che si spostano da monti non sempre vicini per arrivare nelle nostre città) e il legno, in genere non resisteva a quelli raccattati qua e là.

E nel suo studio partenopeo, dove aveva imparato ad apprezzare il vetro, aveva anche trovato dei materiali abbandonati già potenzialmente pronti all’uso.

A questo proposito è importante ricordare che Durham ha passato la vita a cercare di liberarsi delle forme monumentali, classiche, o comunque dei clichè scultorei, che smontava completamente, per poi ricostruire la realtà a modo suo. Per esempio, nella già citata serie dei grandi mammiferi europei, usava un teschio più o meno lavorato come testa e poi costruiva il corpo con quello che gli suggeriva la fantasia. Spesso un’impalcatura in metallo su cui accatastava vecchi vestiti ma ha anche risolto alcuni pezzi con armadi d’epoca, tubature idrauliche e altri materiali imporbabili.

Se gli sembrava mancasse qualcosa faceva ricorso alla parola scritta. Magari usata insieme alla cartellonistica stradale.

La sua arte era poetica ma anche pervasa d’ironia.

Riguardo agli animali che amava molto (in particolare i gatti), ha detto in un’intervista rilasciata a Domus nel 2019:

"(...)Siamo primati, e tutto ciò che facciamo, lo facciamo come primati, pensiamo con i nostri cervelli, corpi e mani di primati. Spesso diciamo quanto siamo intelligenti e gli scienziati parlano degli animali, non degli altri animali. Ma siamo intelligenti a modo nostro, non come lo sono i cavalli.(...) Ma odio gli animali e persino gli umani, anche se odio di più cani, gatti e cavalli perché ti amano e ti spezzano il cuore. Ti lasciano, vengono uccisi o muoiono.”

Jimmie Durham aveva già partecipato alla Biennale di Venezia prima del 2019 quando vinse il Leone d’Oro, così come a documenta di Kassel. Ha inotre esposto nei più importanti musei mondiali.

A Napoli ci sono tutte le sue opere iconiche (sia degli esordi che di periodi più recenti). E molte altre. La mostra si intitola "Jimmie Durham humanity is not a completed project" ed è curata dal Direttore artistico del Madre, Kathryn Weir. Oltre 50 anni di carriera, condensata (si fa per dire) in 150 opere, alcune delle quali mai esposte.

"(...) Costruendo-scrive il museo- ‘combinazioni illegali con oggetti rifiutati’, attraverso materiali naturali e industriali, Durham ha generato rotture all’interno delle convenzioni del linguaggio e della conoscenza. La mostra è un omaggio a un artista il cui lavoro proteiforme e stratificato è fondamentale per la comprensione dell’arte contemporanea e dei suoi possibili futuri scenari.”,

Le sculture (e non solo) del grande Jimmie Durham rimarranno al Madre (il cui nome completo è: Museo d'Arte Contemporanea Donnaregina - Museo Madre) di Napoli fino al 10 aprile 2023.

"Ho_pe 02": Il video d'animazione in stop motion di Turtle Studio, fatto con pazienza e pupazzi di materiali riciclati

Ho-pe 02” è un romantico (e disobbediente) mini-film d’animazione, realizzato in stop motion dal gruppo italiano Turtle Studio Animation. Ambientato (apparentemente) in un futuro distopico, è la storia di un robot che vive isolato ( un po’ per difficoltà oggettive, un po’ per regole di dubbia utilità), ma che culla il sogno di avere una compagna.

Da non confondere con i produttori musicali Turtle Studios o con il video gioco americano Turtle Rock Studios, Turtle Studio Animation, è un associazione culturale nata a Napoli del 2019. Un gruppo di giovani professionisti, composto da studenti ed ex-studenti dell’Accademia di belle arti di Napoli che cercano di fare cinema con fantasia e in maniera eco-sostenibile.

L'associazione è stata fondata sui principi culturali, educativi e sperimentali del cinema in Campania -spiega il regista Francesco Bruno Sorrentino- Gli associati esprimono le loro competenze in particolare nel cinema d’animazione, di cui Napoli si sta dimostrando il cuore pulsante dello scenario Europeo. Il gruppo è professionalmente variegato. Di fatti è composto da laureati in diverse discipline: dalla grafica all’illustrazione, dalla scultura al costume, dal cinema alla scenografia.”

Turtle Studio è specializzato in animazioni realizzate in stop motion. Una tecnica nata verso la metà dell’800 e che richiede un lavoro meticoloso e tanta pazienza. Wikipedia la descrive così: “Lo stop motion è una tecnica di produzione cinematografica animata in cui gli oggetti vengono manipolati fisicamente in piccoli incrementi tra i fotogrammi fotografati individualmente”. In poche parole, ogni volta che un personaggio si muove, l’oggetto che lo interpreta (di solito un pupazzo) viene modificato e per ogni minuscolo cambiamento occorre una foto. Tutte queste immagini accostate ci daranno alla fine l’impressione del movimento.

"La tecnica nella quale la Turtle Studio si sta settorializzando- continua Sorrentino- è la Stopmotion: processo estremamente meticoloso e artigianale finalizzato a rendere animato ciò che non lo è. Generalmente nel nostro caso utilizziamo materiali da riciclo sia per la costruzione delle ambientazioni sia per quella dei personaggi (PUPPETS) per seguire comunque una linea di eco-sostenibilità che ci contraddistingue nella ricercatezza stilistica ma anche, soprattutto, nel messaggio che ci facciamo carico."

E già perchè le animazioni di Turtle Studio sono costruite, in gran parte a mano, usando solo materiali di recupero.

“Ho-pe 02” (scritto e diretto da Antonio Genovese e Francesco Bruno Sorrentino; prodotto da Stefano Incerti con la fotografia di Sorrentino), si può naturalmente anche leggere semplicemente “Hope” (“Speranza”) e racconta la storia di un robot che vive in una piccola casa-laboratorio, insieme a un robbottino-cagnolino, su un brandello di pianeta che fluttua, insieme ad altri, intorno ad un’isola regolatrice. Malgrado le leggi emesse da quest’ultima limitino ad uno solo il numero di abitanti per ogni pianeta, il robot desidera una compagna. La desidera tanto da costruirla e nasconderla all’ottusa autorità. Finchè…

Divertente e poetico “Hope” è figlio dello spettro della catastrofe ecologica e si può leggere come una irridente metafora dell’era del Covid-19. Per sapere come andrà a finire la storia del robottino guardate il corto su Yotube. Mentre per altri video d’animazionee in stop motion potete seguire Turtle Studio su Facebook (da vedere anche la serie di brevissimi cartoni: “Rodolfo’s Quarantine Aventures”). Mentre per capire meglio il dietro le quinte dei loro lavori, Instagram è la scelta migliore.

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