Giuseppe Penone alle Serpentine Galleries: il Respiro della Materia

Giuseppe Penone, Alberi libro (Book Trees), 2017 and Respirare l’ombra (To Breathe the Shadow), 2000, installation view, Serpentine South. ©Photo: George Darrell. Courtesy Giuseppe Penone and Serpentine.

Le Serpentine Galleries di Londra ospitano, fino al 7 Settembre 2025, la più ampia retrospettiva mai dedicata nel Regno Unito a Giuseppe Penone, uno dei maggiori esponenti dell’Arte Povera.

La grande esposizione, dal titolo “Thoughts in the Roots, ripercorre oltre cinquant’anni di carriera dell’artista piemontese, presentando opere dal 1969 ad oggi.

Curata da Claude Adjil, Hans Ulrich Obrist (direttore delle Serpentine che quest’anno sarà anche presidente della giuria alla 19esima Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia) e Alexa Chow, l’esposizione si sviluppa sia all’interno della galleria che all’esterno, nei Kensington Gardens, creando un percorso immersivo che riflette la poetica dell’artista, incentrata fortemente sul dialogo tra Uomo e Natura.

La mostra offre un’esperienza sensoriale e meditativa, invitando il visitatore a riflettere sulla sua personale relazione con il mondo naturale.

Penone lavora utilizzando materiali organici come legno, pietra, bronzo, cera, pelle e foglie. Le sue opere rivelano e suggeriscono un’evoluzione, un respiro, una crescita nel tempo della natura, al pari del corpo umano. Ogni opera esprime una trasformazione che si lega al concetto di Memoria, agli alberi e alle radici, in connessione e dialogo con la terra. L’artista non impone la forma alla materia, non la ‘plasma’ nel senso classico del termine, ma la ascolta, la vive nel profondo della sua anima e ne fa emergere il suo universo intrinseco. Il suo è un approccio filosofico, capace di innescare una riflessione attenta nell’essere umano sul suo legame con il paesaggio. L’artista diventa il gancio tra umano e vegetale, fino a dissolvere i confini tra il corpo umano e l’elemento naturale.

Le installazioni di Penone sono tra le espressioni più potenti della sua arte; si fondono nel paesaggio, quasi fino a diventarne parte integrante. In mostra spiccano Respirare l’ombra (2000) che presenta pareti rivestite di foglie di alloro, e Soffio di foglie che cattura l’Impronta del respiro dell’artista su un letto di foglie.

All’esterno sculture in bronzo come Albero folgorato (2012) esprimono tutta la vitalità della natura. 

Giuseppe Penone, Idee di pietra (Ideas of Stone), 2010 - 2024. Bronze and river stones. ©Photo: George Darrell. Courtesy Giuseppe Penone and Serpentine.

Giuseppe Penone, Idee di pietra (Ideas of Stone), 2010 - 2024. Bronze and river stones. ©Photo: George Darrell. Courtesy Giuseppe Penone and Serpentine.

Giuseppe Penone, Respirare l’ombra (To Breathe the Shadow), 2000. Metal grids, laurel leaves, and bronze. ©Photo: George Darrell. Courtesy Giuseppe Penone and Serpentine.

Giuseppe Penone, Respirare l’ombra (To Breathe the Shadow), 2000. Metal grids, laurel leaves, and bronze. ©Photo: George Darrell. Courtesy Giuseppe Penone and Serpentine

Giuseppe Penone, Albero folgorato (Thunderstruck Tree), 2012. Bronze and gold. ©Photo: George Darrell. Courtesy Giuseppe Penone and Serpentine.

Giuseppe Penone, Albero folgorato (Thunderstruck Tree), 2012. Bronze and gold. ©Photo: George Darrell. Courtesy Giuseppe Penone and Serpentine.

Giuseppe Penone, Alberi libro (Book Trees), 2017. White fir wood, cedar wood, and larch wood. ©Photo: George Darrell. Courtesy Giuseppe Penone and Serpentine.

Giuseppe Penone, A occhi chiusi (With Eyes Closed), 2009. Acrylic, glass microspheres, acacia thorns on canvas, and white Carrara marble. ©Photo: George Darrell. Courtesy Giuseppe Penone and Serpentine.

Giuseppe Penone, A occhi chiusi (With Eyes Closed), 2009. Acrylic, glass microspheres, acacia thorns on canvas, and white Carrara marble. Photo © Archivio Penone. Courtesy Giuseppe Penone.

Giuseppe Penone, Thoughts in the Roots, 2025. Installation view, Serpentine South. © Photo: George Darrell. Courtesy Giuseppe Penone and Serpentine.

Giuseppe Penone, Verde del bosco (Forest Green), 1986 and Verde del bosco – estate 2017 (Forest Green – Summer 2017), 2017, installation view, Serpentine South. ©Photo: George Darrell. Courtesy Giuseppe Penone and Serpentine.

Giuseppe Penone, Sguardo vegetale (Vegetal Gaze), 1995. Photo ceramic. ©Photo: George Darrell. Courtesy Giuseppe Penone and Serpentine.

L’opera pazza ed elusiva di Leigh Bowery viene celebrata alla Tate trent’anni dopo la morte dell’artista

Fergus Greer, Leigh Bowery Session 1 Look 2 1988 ©Fergus Greer. Courtesy Michael Hoppen Gallery. 

Leggendo le parole con cui chi lo conosceva ha ricordato lo stilista e performer Leigh Bowery, in occasione di una importante mostra a lui dedicata in corso alla Tate Modern di Londra, si ha l’impressione di trovarsi di fronte alle descrizioni di persone diverse. C’è chi lo racconta come un uomo “timido e ben educato”, chi “silenzioso e riservato” e ancora qualcuno lo dipinge come “sfrontato e provocatorio”. Del resto lui che metteva al centro della sua opera i concetti di rinascita, mutamento e reinvenzione (e li applicava prevalentemente a se stesso), di fronte alla domanda di un giornalista che gli chiedeva in quali occasioni gli fosse capitato di mentire, aveva risposto “Quando pensi mi succeda di respirare?

Ugualmente elusivo, il suo lavoro sfugge alla categorizzazione. “Se mi etichetti, mi neghi” disse nel ’93, un anno prima di morire a soli 33 anni di AIDS. Era vero allora come adesso e forse anche per questo non è mai diventato davvero famoso. Almeno al di fuori del suo elemento: la Londra underground degli anni ’80: post-punk e new romantic in cui giovani festaioli e talvolta scapestrati si ritrovavano a ballare gomito a gomito con le celebrità del momento.

La stessa capitale inglese che torna a rivivere nell’antologica “Leigh Bowery!”.

La mostra della Tate è segnalata più o meno da tutti come uno degli appuntamenti più importanti dell’anno. Innanzitutto per la completezza del materiale esposto: fotografie, video, oggetti e costumi (il più delle volte completamente ricostruiti per “la sporcizia da discoteca” che li aveva ricoperti); oltre agli splendidi dipinti di Lucian Freud per cui ha fatto da modello. Ma anche perché, sebbene l’influsso dell’opera del signor Bowery sia ormai universalmente riconosciuto, è un errore piuttosto comune quello di collocarlo soprattutto nell’ambito della moda. Mentre lui, oggi icona drag e del movimento Lgbtqi+, è stato anche personaggio televisivo, club kid, promotore di locali, musicista, performer e artista.

Fergus Greer, Leigh Bowery Session 4 Look 19 August 1991 ©Fergus Greer. Courtesy Michael Hoppen Gallery.

Nato nel 1961 a Sunshine (un sobborgo di Melbourn in Australia), Leigh Bowery proveniva da una famiglia piuttosto rigida e conservatrice (in proposito la sorella minore, Bronwyn, ha recentemente detto: "Quando cresci in quel tipo di ambiente, hai due scelte: conformarti o reagire. Leigh ha scelto di reagire. Fin da bambino, era istintivamente spinto dal desiderio di sfidare e sconvolgere lo status quo, sia a casa che nella comunità”). Probabilmente anche per questo a soli diciannove anni si trasferì a Londra. Dove arrivò con pochi soldi, una valigia e una macchina da cucire portatile. Nel giro di pochissimo tempo però diventò una presenza fissa dei club più di tendenza dell’epoca. Conosceva tutti e si mise a fare lo stilista; ma la moda non faceva per lui: le sue creazioni erano troppo bizzarre e trasgressive per il pubblico, mentre a lui non piaceva vestire altri e disprezzava la parte commerciale del mestiere.

Così si dedicò a ideare e produrre costumi sempre più radicali ed elaborati, fatti con tutto quello che gli capitava tra le mani per sé stesso (a un certo punto si copriva anche il volto con maschere o passamontagna multicolore), che, una volta indossati, lo trasformavano in una scultura vivente. Allo stesso modo il trucco (coloratissimo e spesso tattile) era un modo per dipingere usando il corpo come supporto. Usava anche parrucche e scarpe dai tacchi altissimi che lo rendevano ancora più imponente di quanto non fosse già (aveva una corporatura robusta e secondo la sorella era alto un metro e 87 centimetri). L’amico e cantante Boy George l’ha descritto in questo modo a un quotidiano statunitense: “Quando vedi le drag queen che fanno riferimento a Leigh è meraviglioso, ma troppo raffinato. Leigh era molto rozzo e aveva la corporatura di un giocatore di rugby, e non era né grazioso né fatato". Anche Marina Abramović ha scritto di lui: “Era un uomo enorme” (Leigh fece un costume da “regina dei topi” per Abramović nel ’94, quando lei rappresentò “Delusional”, in cui alla fine lei si calava nuda in una botola in cui erano intrappolati 400 topi vivi).

Leigh Bowery con la collaboratrice, amica e moglie Nicola Bateman Dave Swindells, Daisy Chain at the Fridge Jan '88: Leigh & Nicola 1988 (c) Dave Swindell

Tuttavia il signor Bowery ambiva a superare i limiti del proprio corpo e ad usarlo come fosse creta o stoffa: per questo si sottoponeva a bendaggi del torace, modellava il collo con bustini contenitivi e teneva ferme le maschere attraverso piercing al volto. Una volta ha affermato: “La carne è il tessuto più favoloso”.

Malgrado qualsiasi sua uscita fosse una mise en scene, la carriera ufficiale di performer per Leigh Bowery, inziò nell’88 alla Anthony D'Offay Gallery di Londra. Durante la mostra si distendeva su un divano del XIX secolo disposto dietro uno specchio unidirezionale (come quelli nella sala interrogatori dei film e delle serie tv), ogni tanto si alzava, si sistemava il trucco e rimirava il proprio riflesso. Contemporaneamente nello spazio riservato al pubblico (che lo osservava senza essere visto) venivano diffusi suoni e odori. Lo show durò una settimana, nel corso della quale l’artista si presentò con un costume diverso ogni giorno, parlando di storia dell’arte ma anche del guardare ed essere guardati.

Amico del coreografo britannico Michael Clark, il signor Bowery, per un certo periodo creò i costumi per gli spettacoli di Clark e, a volte, si esibì come solista. La sua performance più famosa però richiedeva molto più impegno. Intitolata “Birthing”, l’esibizione lo vedeva cantare e ballare con un pesante costume di velluto finchè non si sdraiava per terra e, aprendo le gambe davanti al pubblico, partoriva la sua assistente Nicola Bateman che usciva dall’imbracatura (nascosta sulla pancia dell’artista), ricoperta di sangue di scena e con una fila di salsicce al posto del cordone ombelicale. A conclusione dello spettacolo, già stupefacente di per se, Bowery tagliava anche il finto cordone ombelicale e nutriva Bateman, facendo cadere nella bocca di lei una cucchiaiata di minestrone (che era riuscito a conservare, non si sa come, sotto il costume). Potete vederne una rappresentazione qui.

Lucian Freud, Nude with Leg Up (Leigh Bowery) 1992 © The Lucian Freud Archive. All Rights Reserved 2024.

Nella sua storia, il fatto che nell’85 l’artista abbia fondato Taboo (un locale notturno londinese rivolto soprattutto alla clientela gay ma frequentato anche da etero) ha un peso. Innanzitutto per il successo del club, in cui gente di ogni tipo si mischiava a celebrità come Bryan Ferry, George Michael e Mick Jagger. “Di questi tempi- scrisse la giornalista Alix Sharkey su ID, bibbia dello street style dell’epoca- il giovedì sera nel West End di solito significa Taboo, il club più squallido, più kitsch e più stronzo del momento a Londra, pieno di stilisti, modelle, studenti, feccia e, si spera, alla moda (…)” E poi perché fu un palcoscenico a sua misura che gli permise di farsi conoscere e conoscere (qui, per esempio, incontra l’artista Cerith Wyn Evans che gli presenterà il famoso pittore Lucian Freud e comincerà l’amicizia con la sua futura collaboratrice, la stilista Nicola Bateman).

Il signor Bowery era apertamente gay ma appena pochi mesi prima di morire sposò Bateman. In merito a questo improbabile matrimonio nel corso del tempo sono girate varie spiegazioni (si erano sposati per il permesso di soggiorno, per ragioni fiscali ecc.) e lo stesso sposo ha definito la cerimonia “una performance artistica personale" ma Sue Tilley (amica strettissima dell’artista) ha detto che in ospedale lui le aveva confessato di temere che Nicola lo lasciasse per un altro uomo.

Solo a Bateman e Tilley, lui confidò di avere l’AIDS (che ai tempi era un killer senza scampo né pietà). Morì la notte di capodanno del ’94, Freud pagò il rimpatrio della salma in modo che potesse riposare accanto alla madre. Ma al momento della sepoltura i famigliari si resero conto che la fossa era troppo piccola per la grande bara che conteneva le spoglie dell’artista e dovettero rimettersi a scavare.

Leigh Bowery!”, organizzata dal museo inglese in collaborazione con Nicola Rainbird (nata Bateman) e curata da Fiontán Moran, resterà alla Tate Modern di Londra fino al 31 agosto 2025.

Fergus Greer, Leigh Bowery Session 4 Look 17 August 1991 ©Fergus Greer. Courtesy Michael Hoppen Gallery.

Leigh Bowery! Tate Modern. Installation view. Tate Photography: Larina Annora Fernandes

Fergus Greer, Leigh Bowery Session 7, Look 37 June 1994 ©Fergus Greer. Courtesy Michael Hoppen Gallery.

Leigh Bowery! Tate Modern. Installation view. Tate Photography: Larina Annora Fernandes

9. Dick Jewell Still from What's Your Reaction to the Show 1988 © Dick Jewell.

Leigh Bowery! Tate Modern. Installation view. Tate Photography: Larina Annora Fernandes

17. Lucian Freud, Leigh Bowery 1991 © The Lucian Freud Archive. All Rights Reserved 2024.

Leigh Bowery! Tate Modern. Installation view. Tate Photography: Larina Annora Fernandes

Fergus Greer, Leigh Bowery Session 3 Look 14 August 1990 ©Fergus Greer. Courtesy Michael Hoppen Gallery.

Leigh Bowery! Tate Modern. Installation view. Tate Photography: Larina Annora Fernandes

Leigh Bowery! Tate Modern. Installation view. Tate Photography: Larina Annora Fernandes

Sir Michael Craig-Martin, il maestro di Damien Hirst e tutta la banda degli YBA, tra colori allegri e critiche feroci

Michael Craig-Martin, Common History: Conference, 1999. Acrylic on aluminium, 274 x 508 cm. Courtesy Gagosian. © Michael Craig-Martin. Image courtesy of Gagosian

Adesso che ha 83 anni l’origine irlandese di Michael Craig-Martin, appare molto più chiara nei suoi tratti di quando frequentava la scuola d’arte negli Stati Uniti, a testimonianza di quegli anni oltre oceano invece, pare conservi un accento americano che non riesce a cancellare nonostante abiti a Londra dal ’66. Ed è strano visto che il signor Craig-Martin dichiara di amare la città in cui vive. Senza contare che in Inghilterra, le sue gioiose e coloratissime immagini che effigiano oggetti della vita quotidiana hanno da tempo sfondato i muri delle gallerie d’arte per raggiungere il grande pubblico sotto forma di francobolli della Royal Mail, o borse della spesa della catena di supermercati Sainsbury's e lui è famosissimo per essere stato l’insegnate di Damien Hirst, Sarah Lucas, Gary Hume, Michael Landy e altri (cioè l’intero gruppo degli YBA, gli Young British Artists). Sull’onda del successo di quell’esperienza ha anche scritto un libro utile ad aiutare i giovani artisti a trovare la loro strada (“On Being an Artist”).

Tuttavia il suo nome non è conosciuto quanto quello di molti dei suoi ex-studenti. E questo nonostante Michael Craig-Martin sia stato nominato Comandante dell’Ordine dell’Impero Britannico nel 2001 e la sua attività espositiva si sia fatta più intensa e prestigiosa già da alcuni anni a questa parte. Adesso la Royal Academy of Arts gli dedica una retrospettiva che copre sessant’anni della sua carriera e dovrebbe consegnarlo alla storia dell’arte. Con 120 importanti opere ideate dagli anni'60 a oggi, tra cui sculture, installazioni, dipinti e disegni, comprende anche dei nuovi lavori concepiti per l’occasione.

In merito il signor Craig-Martin ha detto in un’intervista: “Pensavo che la possibilità di fare una mostra retrospettiva di questa portata nel Regno Unito fosse andata perduta, ma eccola qui. Difficilmente potrebbe essere più tardi, ma, in un altro modo, sta accadendo esattamente al momento giusto".

Michael Craig-Martin, An Oak Tree, 1973. Glass, water, metal and printed text on paper, 15 x 46 x 14 cm. Artist’s proof, shown with permission of the National Gallery of Australia. © Michael Craig-Martin. Image courtesy of Gagosian 

La mostra comincia dal periodo concettuale dell’artista irlandese in cui spicca “An Oak Tree” (“Una Quercia”) del 1973. Un’opera unanimamente apprezzata dalla critica e di cui, chiunque si sia interessato della storia dell’arte più recente, ha sentito parlare almeno una volta. Composta da un bicchiere d’acqua appoggiato su una mensola a parete, a cui è affiancato un testo che spiega in che modo tutto ciò è in realtà un albero (“Quello che ho fatto è trasformare un bicchiere d'acqua in una quercia adulta senza alterare gli accidenti del bicchiere d'acqua”), l’opera è stata definita dal critico britannico Jonathan Jones (che non ha l’abitudine di essere particolarmente clemente con gli artisti cui dedica una recensione): “Un incontro tra Tommaso d'Aquino e Monty Python”. Secondo lui, infatti, la questione avrebbe a che fare con la religione cattolica del signor Craig- Martin e con l’eucarestia, per spiegare la quale d’Aquino avrebbe fatto ricorso alla filosofia di Aristotele (“mentre gli ‘accidenti’- le apparenze superficiali- del pane e del vino sono immutati, l'’essenza’ si trasforma nella santa presenza del corpo di Cristo”). C’entrano poi i ready made (oggetti prelevati tali e quali dalla vita quotidiana e collocati nel museo) di Marcel Duchamp e il dipinto che rappresenta una pipa di René Magritte e che si intitola “Questa non è una pipa”. Il risultato è un lavoro affasciante, frizzante d’ironia, ma che pone questioni serie. Talmente serie che, quando “An Oak Tree” volò in Australia per una mostra al museo di Auckland, venne fermato dal dipartimento agricolo della dogana, ben deciso a non permettere a una specie vegetale non autoctona di entrare nel Paese. Qui il signor Craig-Martin fu costretto ad ammettere che, com’era evidente a tutti, il bicchiere d’acqua non era una quercia ma un bicchiere d’acqua.

Michael Craig-Martin, Untitled (corkscrew), 2014. Acrylic on aluminium, 122 x 122 cm. Private col-lection. © Michael Craig-Martin. Photo: Mike Bruce. Image courtesy of Gagosian

Non sarà su questa giovanile passione per il linguaggio concettuale, tuttavia, che si concentrerà la carriera di Michael Craig-Martin ma sorprendentemente sulla pittura: acrilici su alluminio declinati in una tavolozza splendente di gioiosi toni accesi e murales. La sua opera, infatti, effigia oggetti della vita quotidiana il più possibile attuali e duraturi (un biberon, una spilla da balia, un bicchiere take-away ecc.), disegnati con un tratto semplificato e lineare, per creare un vocabolario rassicurante di immagini onnipresenti e sottovalutate: “Pensavo- ha detto- che gli oggetti a cui diamo meno valore perché sono onnipresenti fossero in realtà i più straordinari”. Ma soprattutto per riflettere sullo spazio che separa la rappresentazione dal soggetto: “Il mio soggetto- ha spiegato- è ovvio: oggetti creati dall'uomo, cose utili. Ma non è questo il mio lavoro. Si tratta di un'esplorazione del miracolo delle immagini bidimensionali”.

Michael Craig-Martin, Untitled (painting), 2010. Acrylic on aluminium, 200 x 350 cm. Courtesy Gagosian. © Michael Craig-Martin. Photo: Dave Morgan. Image courtesy of Gagosian

Nato nel 1941 a Dublino, Michael Craig-Martin, si è trasferito ancora bambino a Washington DC. Di quel periodo ha raccontato:” Sono cresciuto nell'America degli anni '50. Era l'età dell'oro dell'auto americana, con pinne e verniciatura bicolore, così glamour”. Ma il suo immaginario visivo infantile è stato segnato anche da suggestioni più antiche: "Sono cresciuto come cattolico in un mondo di immagini. In chiesa c'erano vetrate colorate e i preti indossavano abiti elaborati per la messa; c'erano accessori decorativi di ogni tipo. Era un ambiente molto visivo e mi ha incantato fin da piccolo”. In effetti i colori vivi e il cloisonne netto che separa le campiture nelle vetrate nelle chiese, restano riferimenti moto evidenti in tutta la sua opera.

Frequenta una scuola elementare cattolica gestita da suore e una scuola benedettina inglese (un sacerdote era un’artista e anche lui comincia ad interessarsi all’arte; in quel periodo in oltre vede i dipinti di MarK Rotko). Poi il padre, che era un economista della Banca Mondiale, viene trasferito in Colombia e il giovane Michael inizia il Lycée Français di Bogotà dove segue le lezioni di disegno dell’artista colombiano Antonio Roda (pure lui un riferimento importante per la sua formazione). Nel ’59 è di nuovo negli Stati Uniti e si iscrive alla Fordham University di New York, comincia a dipingere e l’estate del ’61 la trascorre alla Académie de la Grande Chaumière di Parigi (come tutti gli aspiranti artisti dell’epoca). Nell’autunno dello stesso anno, Craig-Martin, frequenterà il corso di pittura della prestigiosa Yale University, insieme a lui Richard Serra e altri giovani che si sarebbero affermati negli anni immediatamente successivi. Lui dovrà aspettare più a lungo.

Nel frattempo le teorie minimaliste e processuali di uno degli insegnanti, Josef Albers (uno dei nomi più noti del movimento Bauhaus) lasciano il segno (a dire il vero non solo su di lui: il cambiamento culturale era già in atto, la pittura cominciava a sembrare obsoleta).

Pur avendo sempre trovato Washington provinciale, il Signor Craig Martin sarebbe rimasto oltre oceano se avesse visto la possibilità di fare qualcosa di ben remunerato negli Stati Uniti, ma non crede ci siano chance e si trasferisce a Londra (lì insegnerà fino all’88). Durante il periodo di Yale si era sposato e aveva avuto una figlia ma nel ’76 si dichiara apertamente gay. Il suo lavoro, tuttavia, non viene influenzato più di tanto da questi scombussolamenti della vita privata.

Michael Craig-Martin, Untitled (papercup), 2014. Acrylic on aluminium, 122 x 122 cm. Courtesy Gagosian. © Michael Craig-Martin. Photo: Mike Bruce. Image courtesy of Gagosian

Passato il periodo concettuale l’artista irlandese comincia a riprodurre oggetti della quotidianità, più spesso sui muri, ma con il nastro adesivo e senza nessun colore. Per vedere il suo stile definitivo dovremo aspettare gli anni 90 quando lui era intorno alla cinquantina d’anni. Da allora grandi formati, linee nere che delimitano in maniera semplice e lineare i disegni, grandi campiture di colori accesi che non hanno niente a che vedere con quelli del soggetto originale (dice di usarli per suggerire la consistenza delle varie parti). Fa ancora enormi opere murarie ma più spesso dipinge con rulli intrisi di vernici industriali su alluminio. Nel tempo, tuttavia, il suo vocabolario di oggetti d’uso quotidiano si è modificato, e le forme costose ma onnipresenti degli smartphone o dei computer portatili meno ingombranti, hanno fatto la loro comparsa.

Oggi la sua opera è considerata un momento di sintesi tra Pop Art, Minimalismo e Arte Concettuale. Ed è piacevole, davvero piacevole da vedere. Ma questo non lo ha protetto dalle recensioni feroci (anche in occasione di quest’ultima importate mostra i critici inglesi si sono sbizzarriti), tanto che una volta il curatore britannico Brian Sewell si è spinto a dire: “Come artista Craig-Martin merita solo derisione”. Il signor Craig-Martin ha così commentato la questione in un’intervista: “Quando una persona molto istruita si imbatte in un'arte che le sfugge, ne è così sconvolta che deve liquidarla come fraudolenta o falsa”.

La retrospettiva di Michael Craig-Martin alla Royal Academy of Arts di Londra, curata dal segretario e amministratore delegato del museo Axel Rüger, con le curatrici assistenti Sylvie Broussine e e Colm Guo-Lin Peare, si chiuderà il 10 dicembre 2024.

Michael Craig-Martin, Eye of the Storm, 2003. Acrylic on canvas, 335.3 x 279.4 cm. Collection Irish Museum of Modern Art, Purchase, 2005. © Michael Craig-Martin. Photo: Prudence Cuming Associates Ltd. Image courtesy of Gagosian

Michael Craig Martin, Untitled (four laptops blue), 2024. Acrylic on aluminium, 250 x 240, Gagosian, London. © Michael Craig-Martin. Photo: Lucy Dawkins. Image courtesy of Gagosian

Michael Craig Martin, Sea Food, 1984. Steel rod and oil paint on aluminium, 228.6 x 172.7, Waddington Custot, London. © Michael Craig-Martin