Biennale di Venezia 2022| Autoderminazione, soggettività e scultura mozzafiato per "Sovereignty", il Padiglione Stati Uniti di Simone Leigh

Simone Leigh: Façade, 2022. Thatch, steel, and wood, dimensions variable. Satellite, 2022. Bronze, 24 feet × 10 feet × 7 feet 7 inches (7.3 × 3 × 2.3 m) (overall). Courtesy the artist and Matthew Marks Gallery. Photo by Timothy Schenck. © Simone Leigh

Parla di autodeteminazione e autogoverno, “Sovereignty” (“Sovranità”) di Simone Leigh, il Padigilione Stati Unti per la 59esima Esposizione Internazionale d’Arte, “Il Latte dei Sogni”. In altre parole l’artista originaria di Chicago (tra l’altro autrice di “Brick House”) che quest’anno si è aggiudicata il Leone d’Oro come miglior partecipante alla mostra, riflette sul concetto di libertà E lo fa attraverso un corpus di opere concepite in momenti diversi (alcune vengono presentate in esclusiva alla Biennale di Venezia 2022) che poi andranno in tour per il Nord America ma tutte ricche di riferimenti simbolici e create con gli strumenti della grande scultura.

SIMONE LEIGH SOVEREIGNTY:

Il percorso passa per la Storia e la comunicazione. Talvolta di fatti che potrebbero sembrare minuti rispetto alle tragedie e alle empietà più eclatanti. Ma il lavoro di Leigh, intessuto di filosofia e etnografia, è meticoloso nel ricostruire un gioco di sguardi tra i generi e i popoli che condiziona il senso d’identità. Che determina l’ingiustizia, il razzismo, le potenzialità inespresse e l’infelicità. Perchè: "Essere sovrani-spiega il sito del padiglione- non significa essere soggetti all'autorità di un altro, ai desideri di un altro o allo sguardo di un altro, ma piuttosto essere l'autori della propria storia".

In quanto donna, nata negli Stati Uniti da genitori di origine Giamaicana (la madre in realtà è di Brooklyn ma venne mandata da piccola nel Paese caraibico), a Leigh interessano in particolare le donne di colore. Per questo, in riferimento al suo lavoro si è spesso parlato di “femminismo nero”.

PADIGLIONE USA :

Sovereignty” si sviluppa sia all’interno che all’esterno del Padiglione. Lo spazio espositivo statunitense, infatti, è stato trasformato in modo radicale, diventando a sua volta un’installazione. La consueta architettura neo-palladiana resa irriconoscibile da colonne di legno e una discreta struttura metallica sulle facciate, mentre il tetto è completamente coperto di paglia. L’intervento (su cui ha lavorato l’architetto di origine italiana Pierpaolo Martiradonna) doveva ispirarsi all’Esposizione Coloniale tenutasi a Parigi nel 1931, in cui venivano presentati edifici che pur replicando quelli dei Paesi colonizzati li adattavano al gusto occidentale. li distorcevano (in alcuni casi c’erano persino delle comunità, mostrate come in uno zoo). Leigh ne conosceva le immagini fin dai tempi dell’università ed era rimasta già allora colpita da come fossero in grado di elevare le culture, generando contemporaneamente un nuovo modo di respingerle.

SATELLITE:

Ad ogni modo, di fronte al padiglione Stati Uniti reso africaneggiante, c’è la grande scultura bronzea “Satellite”. Con le gambe tramutate in colonne, per diventare uno spazio di ristoro e aggragazione, l’opera alta ben 8 metri, fa riferimento al D’mba (detto anche nimba), maschera a spalla a forma di busto femminile creata dalle popolazioni Baga della costa della Guinea e usata durante le cerimonie rituali per comunicare con gli antenati. Al posto della testa ha un satellite proprio per questa sua funzione di comunicazione e guida. La scelta dell’ artefatto sottolinea il concetto già espresso da Simone Leigh modificando il padiglione. Gli artisti delle avanguardie storiche come Picasso, infatti, si appropriarono di questa maschera ma le negarono la sua originaria funzione, ridefinendola di fatto a loro uso e consumo.

Nelle sale interne, il Padiglione Stati Uniti, resta un contenitore bianco, luminoso e arioso. Ideale per accogliere le opere di Leigh. Un infilata di bronzi e sculture ceramiche molto grandi (più un video), che nel silenzio vibrano empatiche e ragali, ogni tanto accendendosi di sfumature inattese, di riflessi, ad ogni asperità della materia. Sospese, come ha detto la stessa artista, “tra astrazione e realismo”.

LAST GARMENT:

Nella prima stanza è il realismo a prevalere con "Last Garment" ("L’ultimo indumento"). Una lavandaia di bronzo al lavoro in uno specchio d’acqua. A colpire il constrasto tra la ricca lavorazione della figura che rende più scura, perfetta, quasi translucida la simulazione del liquido, mentre la prima sembra opaca. Per farla sono state modellate a mano nell’argilla (poi fuse in bronzo) le oltre 800 rosette che compongono la capigliatura e una costumista ha reperito indumenti d’epoca per vestire con correttezza storica la modella (l’opera prevedeva anche la posa dal vivo). La scultura, infatti, è ispirata alla fotografia di fine ‘800 "Mammy’s Last Garment" ("L’ultimo indumento di Mammy"). Scattata nella Giamaica colonizzata per indurre i turisti anglofoni a visitare l’isola, propone l’idea di una popolazione semplice, onesta, pulita e lavoratrice. In sostanza non corrotta dalla società.

ANONYMOUS E JUG:

Sempre una fotografia ispira le due opere ceramiche che compongono la seconda stanza. L’immagine, scattata in occasione della visita di Oscar Wilde negli Stati Uniti, vuole essere una risposta satirica all’affermazione dello scrittore secondo la quale qualsiasi cosa può essere bella. Ritrae una donna di colore seduta accanto a una brocca Edgefield a forma di faccia (un tipo di oggetto realizzato dagli afroamericani negli stati del Sud di cui non si conosce chiaramente lo scopo). Leigh le contrappone un volto in ceramica smaltata chiara, senza orecchie ne occhi, in dimensoni più che naturali sembra espandersi nello spazio, animata dalla luce e distante, come l’immagine di un sogno ad occhi aperti (“Anonymous”). Accanto a lei un grande vaso punteggiato da enormi conchiglie di ciprea (simboli ricorrenti nella poetica dell’artista, rimandano, tra le altre cose, alla femminilità) che rasenta l’astrazione (“Jug”).

SENTINEL:

Poi è la volta di “Sentinel” (“Sentinella”), cui, appunto, è assegnato il compito di vigilare all’interno della mostra. L'opera in bronzo è una citazione di un importante genere di opere d'arte africane diasporiche, quello dei bastoni di potere, a cui erano attribuite energie e conoscenze divine. La scultura di Leigh unisce una forma femminile allungata a un oggetto tradizionalmente utilizzato nei rituali di fertilità. Al posto del volto di nuovo un’antenna.

COSPIRACY E SHARIFA:

Nella penultima sala il video “Cospiracy” (“Cospirazione”) e il primo ritratto realizzato da Leigh nella sua carriera. Il soggetto è l’amica scrittrice e Sharifa Rhodes-Pitts da cui il nome dell’opera: “Sharifa”. La scultura è ancora una volta molto grande. Realizzata in bronzo, ha una forma semplificata, materica, i tratti del volto accennati fanno da contrappunto all’acconciatura esagerata, scultorea. La posa è abbandonata e l’espressione distante. il pubblico non riesce ad intuire cosa stia pensando ma il piede in avanti fa riferimento alla statuaria egizia.

SPHINX, MARTINIQUE E CUPBOARD:

L’ultima sala presenta un gruppo ceramico composto da tre opere. Un coro. La sfinge è la più chiaramente decodificabile (“Sphinx”), poi una figura blu senza capo con un’ampia gonna (“Martinique”). Come l’ultima, il cui indumento però è di rafia e nella quale sia testa che busto sono stati sostiuiti da una conchiglia di ciprea (“Cupboard”). In generale le opere parlano di identità sessuale e soggetività. Mostrando contemporaneamente l’incredibile capacità di Leigh di portare al limite delle sue potenzialità la ceramica, con tecniche laboriose, instabili e antiche, come la smaltatura al sale.

Sovereignty” (“Sovranità”) di Simone Leigh resterà nel Padiglione Stati Uniti fino alla conclusione della Biennale d’Arte di Venezia (il 27 novembre 2022). Della mostra fa parte anche l’incontro di 3 giorni Loophole of Retreat: Venice (La scappatoia del rifugio: Venezia) tra studiose e artiste nere internazionali (dal 7 ottobre 2022 alla Fondazione Giorgio Cini, organizzato da Rashida Bumbray).

Simone Leigh, Last Garment, 2022. Bronze, 54 × 58 × 27 inches (137.2 × 147.3 × 68.6 cm). Courtesy the artist and Matthew Marks Gallery. Photo by Timothy Schenck. © Simone Leigh

Simone Leigh, Anonymous (detail), 2022. Glazed stoneware, 72 1/2 × 53 1/2 × 43 1/4 inches (184.2 × 135.9 × 109.9 cm). Courtesy the artist and Matthew Marks Gallery. Photo by Timothy Schenck © Simone Leigh

Simone Leigh, Jug, 2022. Glazed stoneware, 62 1/2 × 40 3/4 × 45 3/4 inches (158 × 103.5 × 116.2 cm). Courtesy the artist and Matthew Marks Gallery. Photo by Timothy Schenck. © Simone Leigh

Simone Leigh, Sentinel, 2022. Bronze, 194 × 39 × 23 1/4 inches (492.8 × 99.1 × 59.1 cm). Courtesy the artist and Matthew Marks Gallery. Photo by Timothy Schenck. © Simone Leigh

Simone Leigh, Sharifa (detail), 2022. Bronze, 111 1/2 × 40 3/4 × 40 1/2 inches (283.2 × 103.5 × 102.9 cm). Courtesy the artist and Matthew Marks Gallery. Photo by Timothy Schenck. © Simone Leigh

Installation view, Simone Leigh: Sovereignty, Official U.S. Presentation, 59th International Art Exhibition, La Biennale di Venezia, 2022. Courtesy the artist and Matthew Marks Gallery. Photo by Timothy Schenck. © Simone Leigh

Simone Leigh, Martinique, 2022. Glazed stoneware, 60 3/4 × 41 1/4 × 39 3/4 inches (154.3 × 104.8 × 101 cm). Courtesy the artist and Matthew Marks Gallery. Photo by Timothy Schenck. © Simone Leigh

Simone Leigh, Cupboard, 2022. Raffia, steel, and glazed stoneware, 135 1/2 × 124 × 124 inches (344.1 × 315 × 315 cm). Courtesy the artist and Matthew Marks Gallery. Photo by Timothy Schenck. © Simone Leigh

Simone Leigh, Last Garment, 2022. Bronze, 54 × 58 × 27 inches (137.2 × 147.3 × 68.6 cm). Courtesy the artist and Matthew Marks Gallery. Photo by Timothy Schenck. © Simone Leigh

Simone Leigh, Jug (detail), 2022. Glazed stoneware, 62 1/2 × 40 3/4 × 45 3/4 inches (158 × 103.5 × 116.2 cm). Courtesy the artist and Matthew Marks Gallery. Photo by Timothy Schenck. © Simone Leigh

Simone Leigh, Last Garment (detail), 2022. Bronze, 54 × 58 × 27 inches (137.2 × 147.3 × 68.6 cm). Courtesy the artist and Matthew Marks Gallery. Photo by Timothy Schenck. © Simone Leigh

Le sculture di ceramica di Kazuhito Kawai, straripanti di vita

“l mall” (2019) – 30×35×29 cm. Image Courtesy of Sokyo Lisbon

Ironiche, talvolta grottesche ma soprattutto ricche e coloratissime, le sculture di ceramica del giovane artista giapponese Kazuhito Kawai, sono un concentrato di vita contemporanea. Virtuale o reale, immaginaria o trascorsa, ma di sicuro visivamente straripante.

Nato nella prefettura di Ibaraki, sull’Oceano Pacifico a nord-est di Tokyo, dov’è tornato a vivere dopo essersi laureato a Londra e specializzato a Kyoto (nel college che frequentò Yayoi Kusama e che ora porta il suo nome). Kazuhito Kawai, ha finito gli studi solo nel 2018, ma è già un’artista molto apprezzato. A provarlo il fatto che le sue opere siano già state esposte in alcune delle fiere d’arte contemporanea più importanti.

Le foto che compaiono in rete lo ritraggono come un giovane uomo con un bel viso e un’aria piuttosto sicura, circondato da barattoli di colore, polveri, boccette e strumenti vari. Insomma un artista- artigiano fiero del suo mestiere. Non a caso le sue sculture di ceramica si riappropriano della classica forma a vaso. Salvo poi deformarla fino ai limiti estremi dell’astrazione.

Fanno pensare ai manga, alla grafica e alla bellezza virtualmente ritoccata dei social media, ma anche a valanghe di cibo e al centro delle metropoli durante le ore di punta. Le opere di Kawai sono così. Tanto ricche da contenere tanto gli eccessi quanto le contraddizioni e celebrarli.

Lui dice che la stratificata profusione di forme arganiche delle sue sculture è un modo di intrappolare le emozioni. Una specie di caotico e coloratisiimo diario interiore..

"Utilizzando un approccio distintivo alla ceramica- scrive di lui la galleria Sokyo di Lisbona- le sculture di Kawai emergono come castelli o vasi in cui lo smalto estremo trabocca di un'espressione nostalgica che trattiene e intrappola le emozioni e i pensieri dell'artista."

Le opere di Kazuhito Kawai sono attualmente in mostra alla Sokyo Lisbon Gallery in Portogallo. L’esposizione che si intitola “Riding for a Fall”, citando un lavoro dell’artista inglese Tracy Emin, durerà fino al 4 dicembre. Tuttavia per vedere le sorprendenti sculture di ceramica di Kazuhito Kawai è anche possibile dare uno sguardo al sito internet o all’account instagram dell’artista.

‘Aliens’ (2021) – 30x25x25 cm. Image Courtesy of Sokyo Lisbon

‘Donatella’ (2020) – 33×23.5×28 cm. Image Courtesy of Sokyo Lisbon

‘it’s a small world’ (2021) - 30x24x24 cm. Image Courtesy of Sokyo Lisbon

"No name" (2020). Image Courtesy of Sokyo Lisbon

Le eleganti sculture riparate con il kintsugi da Yeesookyung

“Translated Vase” (2018), ceramic shards, epoxy, and 24K gold leaf, 102 × 77 × 77 centimeters. All images by Yang Ian, courtesy of Massimo De Carlo

La Corea del Sud non è solo suspence e cine-crudeltà alla Squid Game. Anzi. Artisticamente molto vivace, spesso si dimostra capace di rileggere la realtà e le sue stesse tradizioni in una chiave innovativa. Ne è un esempio la serie “Translated Vase” di Yeesookyung (ne ho già parlato qui), già inclusa nella Biennale di Venezia, che rimette, letteralmente, insieme i cocci delle porcellane orientali per ricavare delle forme inaspettate. Raffinate e sottilmente inquietanti. Blobbose e apparentemente poco equilibrate ma che alla fin fine stanno in piedi benissimo.

Delle sculture che sono un po’ dei Frankenstein di bell’aspetto, solo apparentemente fragili, saldate come sono con l’oro del kintsugi.

L’artista coreana Yeesookyung, infatti, gioca su questo paradosso, legando i frammenti di splendidi vasi del suo Paese natale con la tecnica giapponese del kintsugi che serve a riparare ed evidenziare la bellezza delle ferite.

Ogni scultura è come un complicatissimo puzzle tridimensionale. Le tessere non combaciano mai perfettamente ma poco importa, è compito dell’artista inventarsi delle nuove corrispondenze e appianare gli stridori dei punti inconciliabili, con resina epossidica e foglia d’oro a 24 carati. Per ironia della sorte dopo questo trattamento quelli che prima erano delicati manufatti diventano resistentissimi. Tanto che Yeesookyung ne ha parlato come di una sorta di autoritratto.

“Sono attratta dalle cose fallite, rotte o effimere- ha dichiarato in un’intervista- Gli oggetti che si sono spezzati mi danno la possibilità di intervenire. Non si tratta di riparare o curare, ma di celebrare la vulnerabilità dell'oggetto e in definitiva me stessa”.

Nella serie “Translated Vase”, Yeesookyung, cita il perfezionismo dei ceramisti coreani che hanno l’abitudine di gettare tutti i pezzi che hanno un minimo difetto. E ironizza su questo vizio usando il kintsugi. In coreano infatti sia per la parola crepa (un difetto) che per la parola oro (un materiale nobile) si usa il termine Geum.

“Per me- ha dichiarato- un pezzo di ceramica rotta trova un altro pezzo, e si affidano l'uno all'altro. L'uso dell'oro nelle fessure tra di loro è legato alla lingua coreana”.

Le sculture riparate con il kintsugi da Yeesookyung nella serie “Translated Vase”, compaiono, nelle loro centinaia di varianti, sia sul sito internet dell’artista che sul suo account instagram.

“Translated vase” (2020), ceramic shards, epoxy, and 24K gold leaf, 70 × 54 × 55 centimeters. All images by Yang Ian, courtesy of Massimo De Carlo

“Translated Vase” (2018), ceramic shards, epoxy, and 24K gold leaf, 102 × 77 × 77 centimeters

“Translated vase” (2020), ceramic shards, epoxy, and 24K gold leaf, 22 × 22 × 20 centimeters