Tutta la bellezza di “Stranieri Ovunque”, la Biennale di Venezia con un prima e un dopo

La facciata del del Padiglione Centrale rallegrata dal murale del collettivo MAHKU 60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Il tempo incerto della seconda metà di aprile ha fatto bene alle piante, e gli alberi dei Giardini accolgono con tutte le possibili sfumature di verde riflesse nelle acque argentee della laguna i visitatori della 60esima Esposizione internazionale d’Arte, che durante lo scorso fine settimana (il primo di apertura della Biennale di Venezia 2024) hanno superato tutti i record precedenti. Sono anche delle perfette quinte vegetali per l’elegante facciata del Padiglione Centrale che quest’anno appare completamente ridisegnata, sfolgorante di audaci colori tropicali, da un murale del collettivo MAHKU (il Movimento degli Artisti Huni Kuin, cioè una popolazione amazzonica che abita tra Brasile e Perù, nella regione dell’alto Rio Jordão). Gli autori hanno impiegato 45 giorni per completarlo (niente in confronto ai mesi che sono occorsi ad Archie Moore, meritatissimo Leone d’Oro per le Partecipazioni Nazionali, solo per disegnare col gesso sulle pareti del padiglione Australia un albero genealogico in cui è risalito di 65mila anni!)

Un particolare del monumentale albero genealogico tracciato a mano da Archie Moore Archie Moore / kith and kin 2024 / Australia Pavilion at Venice Biennale 2024 / Photographer: Andrea Rossetti / © the artist / Image courtesy of the artist and The Commercial

E questo è soltanto un piccolo assaggio dell’imponente lavoro che si troverà di fronte il pubblico di “Stranieri Ovunque- Foreigners Everywere” di Adriano Pedrosa, una Biennale che ha riunito le opere di oltre 300 artisti (Pedrosa in un’intervista ha detto: “Volevo dare ad ognuno una possibilità, forse per questo ne ho selezionati così tanti.”) provenienti da ogni dove (ma soprattutto dall’America Latina), spesso indigeni, nella stragrande maggioranza dei casi sconosciuti al grande pubblico.

E non poteva essere altrimenti, visto che Pedrosa, attualmente direttore del Museo d’arte di San Paolo del Brasile, ha bypassato musei e gallerie (abituali fornitori di informazioni in queste circostanze) viaggiando personalmente in Angola, Repubblica Domenicana, Bolivia, Indonesia e Guatemala per trovarli (“Penso di essere stato il primo curatore a farlo” ha detto a Radio 3).

Il tema, che ricalca il titolo, ha tre chiavi di lettura: una politica, una psicologico-poetica e una linguistica. Per questo, in mostra trovano ampio spazio gli artisti indigeni (stranieri nella propria patria), gli artisti queer (stranieri rispetto a un modello sociale binario) e gli outsider (stranieri, tra l’altro, rispetto ai canoni della storia dell’arte). L’aspetto più profondo di questa riflessione è sicuramente il restare estranei a sé stessi, ed è forse il meno immediatamente leggibile, ma la mano misurata e sicura di Pedrosa riesce a dare tridimensionalità anche alla lettura più immediata (quella politica) bilanciando con le tribolazioni dell’essere sradicati dalla propria cultura l’affermazione di uguaglianza globalista. Un’alchimia per niente facile.

Un dipinto di Kay WalkingStick al Padiglione Centrale Photo © artbooms

Ne è uscita una Biennale unica, narrativa, artigianale, fatta di dipinti e di tessuti, luccicante di lustrini, densa di segni, carica di bellezza, a momenti illuminata da brillanti colori pastello o rallegrata da vivaci cromie, altre mimetica, in sintonia coi toni di rocce, terreni argillosi e muschi di foreste o aree desertiche. Ci sono poche sculture e diversi video, (spesso inseriti per fluidificare il percorso, dando il tempo al visitatore di fermarsi a metabolizzare la moltitudine di immagini condensate negli spazi precedenti). Una mostra in un certo senso sospesa tra passato e presente, che ha contagiato con il suo forte tema (quello degli stranieri, delle minoranze, degli svantaggiati) tutte le partecipazioni nazionali, in cui le nuove tecnologie non avrebbero potuto trovare spazio, ma che, forse per questo, spinge la contemporaneità ad emergere prepotente e ad apparire inaspettata: nell’ologramma transgender- canterino della Svizzera, nei cartelloni digitali che stanno fuori a Francia e Gran Bretagna; ma anche nel padiglione Israele tristemente chiuso e presidiato da una coppia di militari (dopo molte polemiche sono stati i curatori a decidere di non aprire anche perché temevano manifestazioni di dissenso filo-palestinese) non lontano dalla Russia che, quest’edizione, ha ceduto il suo edificio alla Bolivia, senza neppure fare un comunicato per spiegare le ragioni di questa scelta. Tensioni geopolitiche che crepitano e si specchiano nella Biennale.

il neon di claire fontaine ai giardini della biennale

Il pubblico sotto il neon del collettivo Claire Fontaine all'esterno del Padiglione Centrale 60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Lo spirito del tempo, tuttavia, non impedisce al passato di rivendicare la propria importanza nelle vicende del presente. Così i neon del collettivo italo-francese, Claire Fontaine, che hanno ispirato il titolo della manifestazione, incontrano il pubblico all’ingresso dei Giardini per poi tornare a mettersi in vista all’Arsenale, mentre, sospesi sull’acqua, appongono il riflesso della frase “Stranieri Ovunque” (in tutte le lingue e i colori primari) nelle onde dell’antica darsena.

Il passato, d’altra parte, è un elemento importante di questa Biennale che, prima di sondare il presente, si propone di restituire alla storia dell’arte pagine perdute. Di regalare uno sguardo critico diverso agli osservatori di oggi, sulla base di una rivalutazione di tecniche, stili, concetti e tradizioni artistiche a cui nessuno fino ad ora aveva mai prestato attenzione (semplicemente perché succedevano al di fuori dell’Occidente). Un lavoro che continua e completa quello cominciato da Cecilia Alemani ne “Il Latte dei Sogni (lei si era occupata delle opere perdute o sottovalutate perché firmate da donne, Pedrosa di quelle di creativi che hanno operato nel sud del mondo).

Forse proprio per questo gli artisti scomparsi sono oltre la metà di quelli chiamati a partecipare. C’è il nucleo storico che si sviluppa in quattro sale ma anche all’interno di quello contemporaneo i morti sono tanti.

Crucifixion of the Soul” di Madge Gill Photo © artbooms

Tre gruppi di opere del nucleo storico sono ai Giardini, dove per tradizione viene esposto il materiale più datato (una sala dedicata all’astrazione queer, una al ritratto e una agli artisti italiani del XX secolo che si sono avventurati in Paesi allora considerati remoti e minacciosi). Ma, come già detto, anche quelli del nucleo contemporaneo a volte non ci sono più. E’ il caso dell’inglese Madge Gill, per la prima volta esposta alla Biennale, con lo splendido “Crucifixion of the Soul” (1936). Artista outsider, Gill, ben rappresenta la chiave di lettura psicologico-poetica del tema “Stranieri Ovunque” (essere estranei a se stessi), era infatti convinta che la sua mano fosse pilotata da uno spirito guida. “Crucifixion of the Soul” è un monumentale esempio del suo stile: fittissimo disegno veloce ed energico ad inchiostro da cui emergono figure femminili, scale e motivi a scacchiera.

Uno dei Bamboos di Ione Saldanha Photo © artbooms

Non è più tra noi (dal 2001) anche la brasiliana Ione Saldanha che ha esplorato nuovi supporti pittorici per il suo lavoro. Uno di questi è stato il bamboo, che l’artista raccoglieva e seccava per più di un anno per poi sabbiarlo e ricoprirlo con cinque rivestimenti preparatori di pittura bianca. Alla fine lo dipingeva con morivi astratti e colori vivaci. Queste opere che sono una via di mezzo tra pittura e scultura si chiamano “Bambus” e sono pensate per essere appese al soffitto e fluttuare al passaggio dei visitatori.

Sempre al Padiglione Centrale i dipinti di paesaggi naturali americani, ad un tempo meta turistica e patria ancestrale degli indiani-americani, della statunitense Kay WalkingStick (di padre cherokee), oltre alle rappresentazioni dell’infinita varietà di alberi della foresta amazzonica di Abel Rodríguez (formatosi come botanico presso gli indigeni colombiani Nonuya). Ma anche gli assemblaggi scultorei tagliati con la motosega dal coreano-argentino Kim Yun Shin che, a 88 anni, ha trovato una galleria di riferimento per il suo lavoro solo quest’anno.

Delle sculture di Kim Yun Shin esposte nel Padiglione Centrale 60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere Photo by: Matteo de Mayda Courtesy: La Biennale di Venezia

Se i Giardini si possono definire un tiepido inizio è all’Arsenale che Pedrosa dimostra tutto il suo talento di regista. Non una nota stonata, non un cedimento, ogni scelta stilistica (se così si può dire) è perfetta: l’equilibrio tra spazi pieni e vuoti nell’installazione, tra stanze colme di oggetti ed altre concepite per fermare il visitatore, dargli il tempo di prendere fiato e ripartire di nuovo ricettivo. Persino i colori dei gruppi di quadri alle pareti non sembrano lasciati al caso e si abbinano bene a vicenda.

Qui si parte con un’installazione del collettivo di donne māori della Nuova Zelanda, Mataaho, fatta di fasce in poliestere e fibbie in acciaio, tese a proiettare una successione di righe d’ombra e luce senza soluzione continuità sulle pareti dell’antico ex-edificio industriale veneziano. L’opera, che si è aggiudicata il Leone d’Oro al miglior partecipante, si intitola “Takapau”, come una stuoia tradizionalmente usata dagli indigeni durante il parto e che segna perciò un momento di transizione fra luce e buio.

Ma i lavori da segnalare sarebbero davvero troppi, dai “trapuntos” della filippino-statunitense Pacita Abad, ai dipinti carichi di sfumature fantascientifiche di verde che sottraggono all’oscurità i personaggi queer della stella emergente pakistano-americana, Salman Toor. E poi dipinti e sculture della poetessa visiva austriaco-italiana (vive a Bologna) Greta Schödl che ricopre interamente gli oggetti con una singola parola ripetuta più e più volte (ad esempio su un pezzo di granito incide reiteratamente la parola “granito”) da cui isola una lettera su cui applica della foglia d’oro. Senza dimenticare le splendide fotografie del boliviano, River Claure, che nella sua serie più conosciuta “Warawar Wawa” (2019-2020) ambientava il “Piccolo Principe” nella Bolivia contemporanea.

Un particolare dell’installazione premiata “Takapau” del collettivo Mataaho Photo © artbooms

Poi i tessuti ariosi, dai colori tenui e sorprendenti, ottenuti anche con pigmenti naturali, della keniota Agnès Waruguru; l’enorme installazione idraulica effimera del colombiano-francese, Daniel Otero Torres, fatta di oggetti recuperati qua e là, messi insieme per evocare il sistema di architettura a palafitte degli Emberà (stanziati lungo le rive del fiume Atrato, in Colombia), e progettata per raccogliere l’acqua piovana e fornire agli abitanti acqua non inquinata. E ancora, l’artista autodidatta peruviano, Santiago Yahuarcani, che dipinge con pigmenti naturali complesse scene che non fanno riferimento alla storia dell’arte occidentale ma a quanto narrato dai suoi antenati, alla conoscenza sacra delle piante medicinali, ai suoni della giungla e ai miti del suo popolo. Yahuarcani, che appartiene al clan dell’Airone Bianco della Nazione Uitoto (indigeni dell’Amazzonia settentrionale), era presente all’inaugurazione della Biennale e si è messo davanti ai suoi quadri a spiegare pazientemente alle persone di passaggio il perché di ogni singola immagine nelle complesse composizioni. In mostra c’è anche suo figlio, Rember Yahuarcani (e non sono gli unici due partecipanti legati da vincoli di sangue), che crea paesaggi onirici dai colori vivaci che tendono all’astrattismo e sono stati invece influenzati dall’arte dell’occidente.

Santiago Yahuarcani spiega al pubblico incontrato in Biennale il perchè delle rappresentazioni che animano le sue grandi opere Photo © artbooms

La parte dell’esposizione sviluppata all’Arsenale si conclude con una stanza dedicata interamente all’opera di un’altra stella nascente, il giovane artista statunitense di origini orientali, WangShui, che qui presenta dai grandi pannelli ossidati manualmente con la cocciniglia posti a schermare le finestre (solo una lama di luce filtra da ogni lato), insieme ad una grande scultura di led che pulsa ed emette suoni e rumori. L’effetto è straniante e drammatico.

Usciti di lì i visitatori troveranno non molto lontano il Padiglione Italiano (di cui Artbooms parlerà diffusamente più avanti), intitolato “Due qui / To Hear”, una installazione scultoreo-sonora, risolta con uno stile pulito dall’artista Massimo Bartolini, e davvero ben riuscita. Il curatore è Luca Cerizza. Bravi entrambi!

Al margine del giardino che completa il padiglione Italiano (che è stato pensato come una terza stanza e contiene un’ultima, impalpabile, opera di Bartolini) non va dimenticato di entrare nel piccolo edificio che ospita l’installazione site-specific, “Indo e Vindo”, dell’italiana di nascita ma brasiliana d’adozione, Anna Maria Maiolino, Leone d’oro alla carriera di quest’anno. Una quantità impressionante d’argilla modellata a mano ma anche suoni e odori che evocano l’inesauribile vitalità della natura e il ciclo della vita.

Stranieri Ovunque- Foreigners Everywere” di Adriano Pedrosa resterà a Venezia fino al 24 novembre e va assolutamente visitata. Sia perché si tratta di una splendida mostra che ha comportato un lavoro colossale, ma anche e soprattutto perché dopo questa Biennale (così come dopo quella che l’ha preceduta) la critica e la storia dell’arte non saranno più le stesse. Non potranno esserlo. Anche se nella prossima edizione dovesse essere nominato un curatore dall’approccio più convenzionale semplicemente non gli sarà possibile fare come se niente fosse. La 60esima Esposizione internazionale d’Arte è destinata ad avere un prima e un dopo.

Una ragazza osserva le opere di Abel Rodríguez al padiglione Centrale Photo © artbooms

Salman Toor, Night Grove, 2024  Oil on panel 195.6 × 267 cm 60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Particolare di un'opera di Greta Schödl 60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere Photo by: Marco Zorzanello Courtesy: La Biennale di Venezia

Un particolare della stanza dedicata a WangShui che completa il percoso all'Arsenale 60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Un'opera di River Claure Photo © artbooms

Daniel Otero Torres Aguacero , 2024 Mixed media 655 × 1100 × 1100 cm  60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere Photo by: Marco Zorzanello Courtesy: La Biennale di Venezia

Un particolare dell'installazione “Indo e Vindo”, del Leone d'oro  alla carriera Anna Maria Maiolino Photo © artbooms

Ottchil, la lacca tradizionale coreana sposa design modernista e sfacciate nuances di colore per Milano Design Week

Design Beyond East and West. All images © SpaceStudio, Photographer TaeHoJeong

Tra poco a Milano si potranno ammirare tavoli ma anche paraventi, sgabelli e scale dalle linee semplici, quasi moderniste, ma dai colori sgargianti. Tutti laccati secondo un metodo millenario. Tutti Ottchil.

Per celebrare i 140 anni di relazioni diplomatiche tra Corea e Italia, infatti, l’ADI Design Museum di Milano presenterà un’infilata di grandi oggetti laccati secondo la tecnica tradizionale coreana, l’Ottchil, appunto. I mobili sono stati realizzati apposta per la mostra e non si è trattato di cosa facile, visto che fino ad oggi così si erano fatte solo cose piccole, seguendo un copione antico e prettamente artigianale.

Gli scrigni laccati sono un classico oggetto del desiderio che richiama alla mente l’estetica orientale del passato. Non a caso i giapponesi già secoli fa ne producevano specificamente per esportarli in Europa (lacca Nanban). Diffusi soprattutto in Cina, Corea e Giappone si potevano trovare anche nelle case del Sud-Est Asiatico e si distinguevano per il tipo di intarsi. Il principio tuttavia era lo stesso: rendere durevole ciò che non lo era, proteggere i cibi o le cose dal deperimento e dagli insetti. Una volta applicata la lucida pellicola, difatti, materiali come legno, pelle e persino carta, si stabilizzavano e diventavano impermeabili. Oltre a guadagnare in bellezza.

In Corea si usava la finitura Ottchil, che consisteva nell’estrarre la linfa dagli alberi di rhus (si pratica un taglio nel tronco ma ne produzione è scarsa) per poi purificarla e concentrarla gradualmente. Questa lavorazione è sopravvissuta ma di solito serve a produrre la lacca sufficiente per coprire piccoli oggetti perchè richiede molto tempo e altrettanta mano d’opera.

Non è il caso degli elementi d’arredo creati per essere esposti al museo del design.

I mobili- hanno spiegato gli organizzatori- appositamente progettati per la mostra rappresentano uno sforzo pionieristico per fondere le moderne tecniche di produzione con i metodi tradizionali, ampliando in modo significativo l'uso di Ottchil da piccoli manufatti a mobili di considerevoli dimensioni (…) la mostra diffonde il valore del design contemporaneo che trascende tempo e spazio apportando un modello sostenibile.

Organizzata dal Centro di Cultura Orientale e Design e dall'ADI Design Museum, in collaborazione con le ambasciate di Italia e Corea, la mostra si intitola "Design Beyond East and West" ed è focalizzata sull’applicazione della laccatura tradizionale Ottchil ai mobili contemporanei. Si terrà all’ADI Design Museum dal 16 aprile al 5 maggio in modo da aggiungersi agli eventi previsti dalla Milano Design Week 2024 (dal 15 al 21 aprile).

A Palazzo Strozzi Anselm Kiefer ha ricongiunto l’arte di oggi a quella del Rinascimento in una mostra imperdibile

L'enorme dipinto “Engelssturz” (“Angelo Caduto”) nel cortile di Palazzo Strozzi-“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

Quando Palazzo Strozzi ha reso noto che Anselm Kiefer, in occasione della mostra a lui dedicata, avrebbe realizzato un’opera per il cortile rinascimentale dell’edificio, in molti hanno pensato che avrebbe presentato una delle sue torri apparentemente instabili; forse una di quelle fatte di containers o magari di rovine polverose, come già aveva fatto al Pirelli Hangar Bicocca ormai vent’anni fa (lo spazio espositivo milanese celebrerà la ricorrenza il 21 di aprile). Invece no, l’artista tedesco si è cimentato con una enorme tavola, forse una delle più grandi mai completate: un dipinto alto sette metri, talmente sovradimensionato da occupare interamente l’interno del loggiato e svettare fin quasi alle finestre del primo piano (l’opera è stata posizionata con il contributo della Fondazione Hillary Merkus Recordati). Engelssturz” (“Angelo Caduto”), così si chiama il quadro, dà il nome alla mostra, ne illustra il filo conduttore , ed è un monumentale confronto di Kiefer con la pittura del Rinascimento, risolto con un angelo lieve (quasi ineffabile, pure se in parte cupo e rugginoso), dipinto su un cielo piatto e sfavillante di foglia d’oro; che alla base dell’opera, ritrova però, i volumi materici tipici dell’artista, tanto densi che gli abiti vuoti, rigidi sulla superficie pittorica e poi ancora dipinti, a un primo sguardo, neppure si vedono.

“Engelssturz” è, per il momento, anche un’opera pubblica (chiunque per vederla o fotografarla sarà libero di entrare nel cortile di Palazzo Strozzi), per realizzarla, l’artista ha avuto bisogno di osservare lo spazio dall’alto. Questo è successo parecchio tempo fa, dato che Angeli Caduti” (“Fallen Angels”), l’importante personale di Anselm Kiefer che si è inaugurata venerdì scorso a Firenze, ha avuto una gestazione durata sette anni.

Lui, che qui propone vecchi lavori ma anche tante nuove produzioni (in tutto 25 pezzi, per la maggior parte di grandi dimensioni, tra cui una spettacolare e complessa installazione), una volta ha detto: “Lavoro a molti progetti contemporaneamente. Il risultato è simile a un giardino dove crescono molte piante contemporaneamente”.

Alcune opere della serie “Heroische Sinnbilder” (“Simboli Eroici”) in mostra a Firenze-“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

Una di quelle frasi che probabilmente avranno fatto storcere il naso ai suoi conterranei, che, a momenti gli rimproverano l’aria da austero vate, altre le radici antiche della sua arte, altre ancora l’erudizione. "Solo che noi in questo paese non abbiamo ancora capito bene cosa abbia da proclamare", ha commentato una volta un critico tedesco sul quotidiano Die Welt. Ma probabilmente il fatto è solo che le cose tra Kiefer e la Germania sono cominciate male. Alla fine degli anni ’60, infatti, l’artista presenta la serie “Heroische Sinnbilder (“Simboli Eroici”: titolo rubato a un articolo pubblicato nel ’43 sulla rivista ufficiale delle arti naziste), in cui si fa fotografare in vari luoghi europei (tra cui alcuni occupati dall’esercito) mentre indossa la divisa della Werhmacht del padre e alza il braccio destro in segno di saluto: apriti cielo! L’intenzione dell’artista era quella di spingere provocatoriamente al dialogo i suoi connazionali, esortandoli ad affrontare il rimosso; i tedeschi da parte loro, invece, si sono offesi a morte e non l’hanno mai completamente perdonato. Il ché a conti fatti è bizzarro, visto che Kiefer e la sua arte sono molto germanici.

A Palazzo Strozzi ci sono anche quattro fotografie della serie “Heroische Sinnbilder. Per l’occasione sono state stampate su lastra di piombo, lavorate a simulare degli stendardi, giacchè per lui nessuna opera è mai finita (finchè rimangono nel suo studio continua a lavorarci sopra, così, a volte, un pezzo cominciato negli anni 60 viene presentato in forma rivista nel 2024). E a vederle adesso, lievi sulla distesa argentea della superficie metallica, fanno pensare alla pittura romantica tedesca e a Caspar David Friedrich, con il suo “Viandante sul mare di nebbia”, in particolare. D’altra parte Kiefer è così: un indistricabile gomitolo di colti riferimenti pittorici, letterari, filosofici, poetici, teologici, astronomici, scientifici e persino cabalistici, che trovano inaspettatamente terreno fertile nello stile, nelle tecniche e nel pensiero, del tutto personali, dell’artista.

Una stanza della mostra, in fondo il dipinto con carciofi "Cynara"-“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

Kiefer è uno dei massimi artisti viventi- ha detto Direttore Generale della Fondazione Palazzo Strozzi e curatore della mostra, Arturo Galansino- e la sua ricerca attinge dalla letteratura, dalla filosofia e dalla storia, in una riflessione continua sulla natura dell’essere umano.

Di fronte all’ospite d’onore di un evento certe frasi sono dovute ma Kiefer è un artista al cospetto del quale la rilevanza del lavoro di chiunque altro si incrina. Uno degli unici due contemporanei esposti al Louvre, l’unico ad aver posato una complessa installazione permanente, pittorica e scultorea, al Pantheon di Parigi (nel 2020 su incarico di Macron in persona). Del resto i francesi lo adorano e lui li ricambia vivendo e operando nel loro Paese (sta a Parigi e ha uno studio di 3mila 300 metri quadri a Croissy-Beaubourg, alle porte della capitale; mentre l’ex fabbrica di seta di Barjac, La Ribaute, sua ex-abitazione-studio nel sud, in cui ha costruito un dedalo di gallerie e percorsi sotterranei, sculture, dipinti e padiglioni, è aperta al pubblico). Pluripremiato (anche dalla Germania con la Croce al Merito) è conosciuto per l’impegno che mette nel lavoro e per l’intransigenza verso un certo tipo di collezionismo e di mercato dell’arte (ad esempio si rifiuta categoricamente di esporre in famose fiere, nonostante sia rappresentato dalla prestigiosa Gagosian Gallery). Anche per questo fa dipinti così grandi (ritenuti dal mercato difficili da vendere e movimentare). Che non sono, oltretutto, per niente facili da portare a termine: Kiefer per dipingere viene issato con un carrello elevatore da cui applica il colore con delle spatole (non usa pennelli), come documentato dal regista Wim Wenders nel film “3D Anselm” (uscito lo scorso anno). Usa i materiali più disparati (piante, terra, vetri rotti, metalli, vestiti, semi, paglia, radici ecc.). Anche se predilige quelli che, in passato, usavano gli alchimisti (come il piombo). In mostra a Palazzo Strozzi c’è persino un dipinto (“Cyrana”, dedicato alla mitologia greca e alla storia della ninfa che respinse Zeus) in cui la foglia d’oro è disseminata di veri carciofi (seccati e dorati). E poi fa esperimenti, una volta ha spiegato: “Non uso colori convenzionali e nemmeno la vernice. Uso le sostanze. Una macchia sbiadita che pare rossa, per esempio è ruggine, semplicemente ruggine.” Dice che vuole estrarre "lo spirito che già vive dentro” i materiali e per farlo sottopone le opere a bagni acidi o si limita a colpirle con asce e bastoni.

Visitatori guardano l'installazione “Vestrahite Bilder”(“Dipinti Irradiati”)- “Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

Una delle stanze più stupefacenti della mostra fiorentina di Kiefer, definita da Galansino “una sala che è un colpo al cuore. (…) un ambiente veramente immersivo”, è quella dedicata all’installazione “Vestrahite Bilder(“Dipinti Irradiati”, 1983-2023), composta da sessanta opere di diverso formato, che sono stati irraggiate con il plutonio.

La distruzione è un mezzo per fare arte- ha detto- Io metto i miei dipinti all’aperto, li metto in una vasca di elettrolisi. La scorsa settimana ho esposto una serie di dipinti che per anni sono stati sottoposti a una sorta di ‘radiazione nucleare’ all’interno di container. Ora soffrono di malattie da radiazione e sono diventati temporaneamente meravigliosi”.

I quadri sono stati disposti l’uno accanto all’altro (come si usava anche nel Rinascimento), ad occupare tutte le pareti e l’intero soffitto, e lasciati nella penombra, mentre uno specchio a pavimento permette di vedere al di sopra della propria testa ma, nello stesso momento, dà l’impressione di precipitare (qui, come sempre succede con Kiefer, i riferimenti sono infiniti a cominciare dal tema dell’angelo caduto e dalla Sindrome di Stendhal, per arrivare alla fragilità della vita e alle catastrofi nucleari nella Storia). L’opera è vibrante e la cornice quattrocentesca dell’edificio, fiduciosa e leggere, la completa, le regala la forza (che in un luogo più cupo o privo di storia non avrebbe) per sostenere le reazioni viscerali del pubblico di fronte a un tale bombardamento di simboli e pittura. D’altra parte è Kiefer stesso a ripetere che l’arte è una questione di equilibrio tra ordine e caos. E poi Palazzo Strozzi, che ha visto per la prima volta a vent’anni nel corso di un viaggio in Italia, è uno dei suoi edifici storici preferiti.

“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

Nato l’8 marzo del ’45 a Donaueschingen (graziosa cittadina tedesca nel circondario della Foresta Nera), che proprio quella notte venne bombardata, Anselm Kiefer, avrebbe potuto morire appena nato se non fosse stato all’ospedale, visto che la loro casa venne abbattuta durante l’attacco. Da bambino giocava con le macerie con cui amava costruire casette e piccoli edifici, aveva anche una memoria straordinaria (ha dichiarato che in quel periodo sapeva a memoria 200 poesie) e leggeva molto (passione che non lo avrebbe mai abbandonato). E’ stato iscritto alla facoltà di Diritto e Lingue Romanze che ha però abbandonato per l’Accademia di Belle Arti di Friburgo in Brisgovia prima e l'Accademia d'Arte di Karlsruhe poi. Oggi è uno degli artisti più stimati al mondo e, almeno secondo una rivista mensile tedesca, anche uno dei più ricchi di Germania (lui dice di no) nonostante le sue quotazioni in asta non raggiungano quelle di altri professionisti (ad esempio, l’inglese David Hockney, l’italiano Maurizio Cattelan, o lo statunitense Jeff Koons), le sue opere sono esposte in un consistente numero di autorevoli musei nel mondo. Ha avuto due mogli e ben cinque figli. Chi lo ha conosciuto di persona, dice che, a dispetto dell’aria ascetica e nonostante la vasta cultura di cui dà prova, sia un tipo scherzoso e relativamente alla mano, oltre ad essere un appassionato di macchine e un guidatore impavido.

Con l’Italia ha un legame consolidato (già nell’80 ha esposto alla Biennale di Venezia, mentre nel ’97 è tornato in laguna in occasione dell’Esposizione Internazionale d’Arte per una personale al Museo Correr). Come ha testimoniato la grande mostra tenutasi a Palazzo Ducale di Venezia due anni fa (sempre in concomitanza con la Biennale) e adesso la personale a Palazzo Strozzi. Quest’ultima tuttavia, supera la precedente, perché se nel primo caso Kiefer ha bisticciato con la location per trasformarla in qualcosa di diverso, qui mette in fila le note dominanti della sua poetica modellandole intorno alla melodia degli angeli caduti. Un tema che parla del legame tra divino e terreno ma che fa pure un po' cattivo ragazzo e, anche se in una maniera tortuosa, gli si adatta.

Angeli Caduti” (“Fallen Angels”) la personale di Ansel Kiefer rimarrà a Palazzo Strozzi di Firenze fino al 21 luglio 2024. E’ una mostra assolutamente da non perdere.

“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

Arturo Galansino e Anselm Kiefer osservano i particolari di un'opera in mostra- “Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ludovica Arcero, SayWho.

Ansel Kiefer parla nella stanza in cui è collocata l'installazione "Dipinti Irradiati"- “Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ludovica Arcero, SayWho.