”No Memory without Loss” di Arcangelo Sassolino: un'opera cinetica in bilico tra pittura e scultura

Arcangelo Sassolino No memory without loss 2023 Olio, acciaio, sistema elettrico 330 x 330 x 40 cm Courtesy Arcangelo Sassolino ©

Scenografica e densa di riferimenti agli antichi maestri della storia dell’arte, l’opera di Arcangelo Sassolino, dietro il sentimento di curiosità misto ad ironia suscitato dai marchingegni di cui l’artista si serve, nasconde un’anima tragica. Un’intensa amarezza, che emerge anche dalla sua ultima fatica. L’installazione cinetica ”No Memory without Loss” (2023), infatti, recentemente esposta nella Basilica Palladiana di Vicenza (città d’origine di Sassolino) insieme al “San Girolamo” di Caravaggio e a “Le quattro età dell’uomo” di Antoon Van Dyck, parla dell’ineludibilità della perdita, attraverso un disco rotante ricoperto di pittura ad olio industriale ad alta viscosità in perenne movimento e caduta.

Questo però non ha dissuaso il pubblico che si è riversato numeroso nella sede espositiva. Tanto che “Caravaggio - Van Dyck – Sassolino Tre Capolavori a Vicenza” è arrivata a totalizzare 62 mila visitatori in sole sette settimane (che nei mesi più freddi dell’anno in una città di provincia sono davvero tanti).

Ci teniamo- ha commentato lo Studio Sassolino- a ringraziare l'intero team organizzativo e l'amministrazione (…).Un ringraziamento particolare va al curatore, Guido Beltramini, Direttore del Palladio Museum, e alla curatrice Francesca Cappelletti, Direttrice della Galleria Borghese, che con la loro competenza e dedizione hanno creato un legame unico tra le opere d'arte e l'architettura della Basilica Palladiana. Mentre si chiude il sipario, siamo entusiasti di annunciare che altri eventi sono in programma per i prossimi mesi”.

Nato nel ’67 a Vicenza. Arcangelo Sassolino, poco più che ventenne crea un gioco simile al cubo di Rubik attirando l’attenzione di Robert Fuhrer e della Nextoy, che ai tempi rappresentavano la Casio Creative Products. Assunto dalla società per l’ideazione e la produzione di prodotti elettronici si trasferisce a New York, dove rimane per sei anni e dove si avvicina all’arte. Una volta tornato in Italia ricomincia dalla lavorazione del marmo (va a perfezionarsi a Pietrasanta in Toscana), fino a quando non elabora il suo stile distintivo in cui le macchine spinte fino al loro estremo limite, si sposano alle tecniche artistiche più antiche per esprimere concetti di perdita, caducità, imprevedibilità, pericolo, fallimento, violenza. Da allora ha esposto in sedi prestigiose come il Palays de Tokyo di Parigi, o la Biennale di Venezia (ha rappresentato la Repubblica di Malta nel 2022, durante la 59esima edizione dell’Esposizione Internazionale d’Arte).

Rigorosamente analogici ma complessi, i macchinari di Sassolino, richiedono spesso la consulenza di un team di ingegneri ed esperti per suscitare sentimenti viscerali nell’osservatore. Un mix d’arte e fisica, che, oltre ai molteplici riferimenti ai maestri del passato, citando, tra le altre cose, le esperienze dell’arte cinetica europea fino a ricongiungersi agli interrogativi e alle ricerche di artisti contemporanei (ad esempio, in modi diversi, Sun Yuan & Peng Yu e Anish Kapoor).

Il mio obiettivo- ha detto in diverse occasioni- è liberare la scultura dal problema della forma”.

Un concetto che ritorna in ”No Memory without Loss”. L’opera è, infattti, composta da un grande disco, apparentemente collocato in modo precario a parete, ricoperto di colore ad olio ad alta densità di un rosso intenso e profondo (simile nel tono, sia al drappo che copre il San Girolamo di Caravaggio, che al sangue). Il disco ruota su se stesso impedendo al colore, liquido ma vischioso, di colare direttamente a terra. Non prima almeno di aver compiuto varie, e potenzialmente infinite, circonvoluzioni sulla superficie del supporto.

Il disco- ha spiegato lo Studio Sassolino- è un organismo che deve essere ricaricato, riportandovi l’olio colato al suolo. Da un lato è soggetto all’implacabilità del divenire, che conduce alla consumazione della sostanza. Dall’altro resiste alla caduta, a ciò che deve necessariamente accadere”.

La lotta tra la forza di gravità e la resistenza del colore rappresenta quella per la vita, la superficie circolare evoca una cupa cosmogonia. Ma l’opera, che fa anche riferimento all’Informale e all’Espressionismo Astratto, non respinge, è anzi piacevole da guardare; dotata di fascino tattile, ha un ché di ipnotico. In perfetto equilibrio tra pittura e scultura, lascia al caso il compito di scegliere i motivi in aggetto dallo spazio bidimensionale. Mentre il fatto che questi ultimi mutino continuamente mette in discussione l’immutabilità delle opere d’arte nello scorrere del tempo (malleabili alle diverse interpretazioni che segnano i periodi storici). Il colore industriale come la precisione ingegneristica indirizzano, infine, il pensiero verso le innovazioni tecnologiche, il mondo del design e della produzione industriale.

Arcangelo Sassolino ha un sito internet e un account instagram, che permettono di vedere diverse immagini di “No Memory without Loss” ma anche di altre sue opere, per farsi un’idea del loro complesso funzionamento e dell’energia che sprigionano.

Caravaggio - Van Dyck – Sassolino Tre Capolavori a Vicenza, Basilica Palladiana di Vicenza, veduta dell'installazione. Fotografia: Lorenzo Ceretta

Arcangelo Sassolino No memory without loss (particolare) 2023 Olio, acciaio, sistema elettrico 330 x 330 x 40 cm Courtesy Arcangelo Sassolino ©

Caravaggio - Van Dyck – Sassolino Tre Capolavori a Vicenza, Basilica Palladiana di Vicenza, veduta dell'installazione. Fotografia: Lorenzo Ceretta

La rinascita dell’arte di Pauline Boty, la prima artista Pop donna nella frizzante Londra degli Swinging Sixties

Pauline Boty, WITH LOVE TO JEAN-PAUL BELMONDO, oil on canvas, 1962 All images by Pauline Boty

Figura centrale nel vibrante clima londinese degli Swinging Sixtis, nonché unica artista donna a calcare la scena Pop britannica (che precorse quella americana), Paoline Boty, dopo essere stata a lungo dimenticata (tanto che i suoi dipinti fino agli anni ‘90 giacevano accatastati in un fienile) è tornata di moda. E mentre si parla di un’imminente importante retrospettiva un suo quadro ha sfondato il tetto del milione all’asta.

Pauline Boty, nata nel ’38 a Carshalton (una cittadina a sud di Londra), non ne trarrà però alcun beneficio, perché è morta giovanissima. A soli 28 anni durante un controllo ginecologico in vista della nascita del suo primo figlio, infatti, le venne scoperta una grave forma di leucemia. Avrebbe potuto tentare con la radioterapia ma decise di non farne niente per via della gravidanza (qui le fonti divergono: qualcuno dice perché temeva di compromettere la salute del bambino, qualcun altro perché all’epoca per legge avrebbe dovuto abortire e lei non voleva farlo). Una scelta che comunque le costerà la vita. E non andrà meglio ai suoi familiari: Il marito, l’agente letterario Clive Goodwin, mancherà dodici anni dopo e la figlia Katy (chiamata Boty in ricordo della madre), diventata artista a sua volta, se ne andrà per un’overdose la notte stessa della sua laurea (aveva 29 anni, un solo anno più della madre).

Così quando si parla del lavoro o della figura di Pauline Boty non si può fare a meno di evocarne la tragedia. Ed è strano perché Boty, bellissima e trasgressiva, doveva essere tutt’altro che cupa, come non lo è la sua colorata ed energica pittura. La designer Celia Birtwell (si, proprio quella che appare insieme allo stilista Ossie Clark ed alla loro micetta, nell’iconico dipinto di David HockneyMr and Mrs Clark and Percy”), che con lei si era trovata a fare la cameriera per ragranellare qualche soldo in più, nel locale, allora di tendenza, "Soup Kitchen" (del designer Terence Conran) e che in seguito, insieme al marito Ossie, ad Hockney e a molti altri, sarà ospite alle feste che si tenevano a casa di Boty e Goodwin, di lei dirà: "Era bellissima, con una risata meravigliosa: intelligente, molto brillante, una delle prime femministe." E Pauline Boty, capelli biondissimi, sempre truccata (una volta ha raccontato di aver riconcorso un ragazzo della scuola che le aveva chiesto perché si mettese tanto rossetto gridandogli: “Per baciarti meglio!”) e alla moda (naturalmente i mini-abiti di Mary Quant erano d’ordinanza), bella lo era davvero: alla Wimbledon School of Art di Londra la chiamavano "Bardot di Wimbledon" per quanto somigliava all’attrice francese.

Adesso ci farebbe pensare anche alla Barbie di Margot Robbie. Ed in effetti è vero anche che era convintamente e gioiosamente femminista: “C’è una rivoluzione in arrivo (…)- ha detto nel 63 - In tutto il Paese le ragazze si sono messe in moto, si agitano e gridano, e se vi spaventano, be’, è proprio quello che vogliono, e cominciano a fare un certo effetto anche sul resto del mondo”.

E non avrebbe potuto essere altrimenti. Figlia di un severo contabile che la spingeva continuamente a ricordare di essere una ragazza (non per ragioni positive) e di una madre che pronunciava frasi come “Questo è un mondo di uomini!” (sarà il titolo di due suoi famosi dipinti: “It’s a Men World I del ’64 e “It’s a Men World II” del ‘64/65), senza contare il fatto che anche lei avrebbe voluto fare l’artista ma il nonno di Pauline gliel’aveva impedito. Poi arrivata al Royal College of Art dove avrebbe studiato, non senza affrontare qualche mal di pancia del padre, Boty era stata costretta ad iscriversi al corso di vetrate colorate (adesso un suo autoritratto realizzato con questa tecnica è conservato alla National Portrait Gallery di Londra), perché le avevano detto che le possibilità per una donna di essere ammessa a quello di pittura erano pressoché nulle. D’altra parte, i bagni per le donne ai tempi al Royal College of Art nemmeno li avevano messi.

Il femminismo (la liberazione sessuale, lo sguardo delle donne sulla loro rappresentazione nei media e quello sulle icone maschili sexy dell’epoca) è un tratto che attraversa tutta la breve carriera di Boty e contribuisce a rendere ancora più interessanti le opere. Anche la sua sensibilità nell’uso del colore, vibrante, declinato in nuance fin troppo piacevoli e animato da pennellate ribelli che gli impediscono di cristallizzarsi in pesanti campiture, abbellito da elementi pop come cuori, tratteggi, ghirigori e soprattutto rose (si presume simboliche), è diversa da quella dei colleghi uomini. Spesso al centro della sua opera ci sono le star dell’epoca (usa il collage e un figurativo ingenuo e spontaneo ma ben calibrato), dice: “È quasi come dipingere la mitologia, una mitologia dei giorni nostri – star del cinema, ecc… gli dei e le dee del 20° secolo. Le persone hanno bisogno di loro e dei miti che le circondano, perché la loro vita ne viene arricchita. La pop art colora questi miti”. Diverso è anche lo spirito del racconto, e Boty, ad esempio, in “The only blonde in the world”, dipinto nei mesi successivi alla morte di Marilyn, ci appare partecipe del triste destino toccato alla diva.

Le opere di Boty, inoltre, sono un vero e proprio concentrato dei ruggenti Swinging Sixtis londinesi. Conia anche un’espressione che ne sintetizza lo spirito: “Nostalgia del presente”.

D’altra parte la pittrice fu anche attrice, ballerina, modella e scenografa; recitò in numerose rappresentazioni teatrali e televisive, condusse una trasmissione radiofonica di BBC (in cui fu una delle prime ad intervistare i Beatles), portò in giro per Londra uno sconosciuto Bob Dylan (si dice anzi che la canzone “Liverpool Gal” sia stata scritta per lei). E compare in una scena gioiosa del film Alfie (’66) di Lewis Gilbert a fianco di Michael Caine. E tutto questo nei pochi anni di vita che ha avuto a disposizione.

Recitare però per Boty era solo un riempitivo, quello che le interessava era imporsi come artista. E non si può dire che non fosse sulla strada per affermarsi: già nel ’62 ha partecipato al documentario “Pop Goes the Easel” (Pop va sul cavalletto) di Ken Russell trasmesso da BBC, insieme a Peter Blake, Derek Boshier and Peter Phillips e fa anche qualche mostra interessante. Incredibilmente dopo la sua morte viene dimenticata, ci penseranno il curatore David Allan Mellor e la critica femminista Sue Tate con l’aiuto della figlia (allora ventenne) dell’artista, a recuperare i suoi dipinti dal capanno nella fattoria di famiglia, dove giacevano coperti di ragnatele. Mellor allora li espone al Barbican nel 1993 in “Art in 60s London” (ci fu anche una monografia della Tate). Poi, vuoi perché di lei restano poche opere, vuoi perché il suo stile si discosta da quello degli artisti Pop maschi, Pauline Boty, viene nuovamente dimenticata.

Fino al 2016 quando compare nel romanzo "Autumn" di Ali Smith; nel 2019 il New York Times scrive di lei; adesso il dipinto "With Love to Jean-Paul Belmondo" (1962) di Pauline Boty, valutato da Sotheby intorno alle 800.000 Sterline, ha superato il milione sotto il martello del banditore. Forse è davvero la volta buona. (dall’articolo di Antonio Riello per Dagospia)

Pauline Boty, 5-4-3-2-1, 1963

Pauline Boty signed photo, by John Aston, 1962.

“Untrue – Unreal”: Anish Kapoor a Palazzo Strozzi si confronta con il Rinascimento tra pugni allo stomaco e pura bellezza

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi. Svayambhu, 2007; cera, vernice a base di olio. Endless Column, 1992; tecnica mista, pigmento. ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

Già dalla prima mattina il centro di Firenze è gremito, c’è gente di ogni nazionalità. Una coppia di giovani coreani si fa fotografare su Piazza del Duomo: sono eleganti e bellissimi, sembrano i protagonisti di una serie tv e forse lo sono davvero. Chissà se anche Anish Kapoor, durante i giri per le strette vie del capoluogo toscano, è stato scambiato per un comune turista? Anche se lui, nato a Mumbai da padre indiano e madre ebrea- irachena, dopo un periodo trascorso in Israele e una vita vissuta nel Regno Unito, ha trovato nell’Italia una nuova patria (possiede una casa a Venezia, città che da un anno e mezzo ospita il suo studio e, dal 2024, vedrà operativa pure la Fondazione Anish Kapoor a Palazzo Priuli Manfrin).

E poi era a Firenze per presentare la sua ultima, importante, mostra.

Anish Kapoor. Untrue Unreal”, infatti, è stata inaugurata lo scorso fine settimana a Palazzo Strozzi, edificio simbolo del Rinascimento e prestigiosa sede espositiva (prima dell’artista anglo- britannico ci sono state, ad esempio, le personali di: Ai Weiwei, Marina Abramović, Tomás Saraceno, Jeff Koons e Olafur Eliasson). Curata da Arturo Galansino (direttore di Palazzo Strozzi e presidente dell’omonima fondazione), era una mostra attesa, che ha richiesto anni di preparazione e presenta un’attenta selezione di alcune tra le opere più importanti del famoso scultore.

D’altra parte, Sir Anish Mikhail Kapoor, classe 1954, dottore onorario dell’Università di Oxford, dopo aver rappresentato l’Inghilterra alla Biennale di Venezia (che l’ha anche premiato), aver vinto il Turner Prize ed esposto al Tempio Ancestrale Imperiale (alle porte della Città Proibita di Pechino) o in santa sanctorum degli artisti come la Royal Accademy e la Turbine Hall della Tate Modern, ma soprattutto aver completato progetti d’arte pubblica che gli hanno regalato la fama planetaria (come la scultura “Cloud Gate” comunemente chiamata “The Bean”- “Il Fagiolo” ora simbolo di Chicago o “Orbit”, la Torre Archelor Mittal, posizionata al Parco Olimpico di Londra) e un discreto conto in banca (il suo turnover annuo è stimato in oltre 10 milioni di euro), non sembra uomo da accontentarsi con molto meno.

Sulla scia della nostra serie di esposizioni- ha detto Arturo Galansino- dedicate ai maggiori protagonisti dell’arte contemporanea, Kapoor si è confrontato con l’architettura rinascimentale. Il risultato è totalmente originale, quasi una sorta di contrapposizione dialettica, dove simmetria, armonia e rigore sono messi in discussione e i confini tra materiale e immateriale si dissolvono. Nelle geometrie razionali di Palazzo Strozzi, Kapoor ci invita a perdere e ritrovare noi stessi interrogandoci su ciò che è untrue o unreal”.

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi. Void Pavilion VII, 2023; tecnica mista, vernice. ©photoElaBialkowskaOKNOstudio. ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

Minuto, look classico- informale, Anish Kapoor, parla con piglio deciso, ride spesso ma sembra anche capace di spazientirsi velocemente, ha un bell’inglese fluente, garbatamente musicale, da quartieri alti, ma sa anche qualche parola in italiano che non si azzarda però a usare durante un’occasione ufficiale. Il che nel complesso è strano dato che in passato pare abbia sofferto di dislessia.

Il titolo della mostra è ‘Untrue- Unreal’- spiega- Perché ciò che è imperscrutabile e illusorio fa parte dell’essenza di ciò che noi siamo. In fondo in questa vita ci siamo per un tempo molto breve, non sappiamo cosa ci sia prima dell’inizio e cosa dopo a fine e questo fa parte della disperazione della condizione umana che è una costante”.

A Palazzo Strozzi c’è anche un lavoro progettato appositamente per il cortile (“Void Pavillion VII” cioè “Il padiglione del vuoto VII”, realizzato con il sostegno della Fondazione Hillary Merkus Recordati) che è accessibile a tutti gratuitamente.

Si tratta di una stanza totalmente bianca (posta al centro dello spazio delimitato dal loggiato) in cui sono posizionati tre rettangoli più neri del nero. Kapoor li ha dipinti con il famoso Vantablack (ideato dalla ditta britannica Surrey Nanosystems, che poi, suscitando polemiche, lo ha concesso in via esclusiva allo scultore, il quale lo ha rinominato Kapoorblack). Il colore, assorbe fino al 99,965% della luce, ed è più nero di un buco nero. Ne consegue che sia impossibile capire se si stà osservando una superficie bidimensionale, un oggetto o un precipizio.

Come fossero finestre sulla fallibilità dei nostri sensi, sulla piccolezza e inadeguatezza della nostra specie, gli scuri rettangoli, ci conducono in uno spazio psichico sull’orlo dell’abisso. D’altra parte, la paura della morte, le domande sull’esistenza, insieme alla sessualità, sono i temi ricorrenti alla base dell’intera opera di Kapoor (da decenni pratica la meditazione zen oltre ad essere stato a lungo in analisi, cose che l’hanno di sicuro influenzato). Così come la ritualità, i simboli e gli oggetti ideali (quelli che ci sono sempre stati senza bisogno che qualcuno li creasse).

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi. To Reflect an Intimate Part of the Red. 1981; tecnica mista, pigmento. ©photoElaBialkowskaOKNOstudio. ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

Ma, nel frattempo, Kapoor si interroga anche su altre questioni. Ad esempio, su come sovvertire l’armonica simmetria del palazzo rinascimentale (proiezione di un mondo ideale che non lascia spazio alla sofferenza ma nemmeno alla passione e ai colpi di testa). Dimensione, quindi, poco adatta a tutti gli abitanti della contemporaneità e men che meno a lui che con l’autorità e l’ordine precostituito ha sempre avuto problemi (figlio di un ammiraglio- cartografo e di una sarta- quasi stilista ha avuto prima contrasti con i genitori e poi con l’ambiente provinciale indiano ed israeliano incapace di accettare un apolide).

Void Pavillion VII” ci riesce assecondando la simmetria architettonica, per farla assorbire subito dopo dalle voragini oscure dipinte nelle pareti. Mentre per l’esposizione nel suo complesso l’operazione è stata più complicata. “Ha litigato a lungo con il palazzo!” ha detto con una certa dose di humor, Arturo Galansino.

C’è una successione classica di ambienti- ha, poi, spiegato Kapoor- e la difficoltà nel creare questa mostra è stata proprio nell’assecondare questo flusso, questa successione, ma anche nell’interromperlo o sconvolgerlo. E poi tutta la tematica della mostra è sull’oggetto vuoto ma, essendo io pieno di contraddizioni, gli oggetti che vedete sono pieni. Sono pieni di oscurità, sono pieni di riflessi degli specchi e ovviamente questa è una complicazione. Perché ho voluto crearlo in stanze che sono così classiche anche nel rapporto tra gli oggetti, più o meno piccoli, e l’ampiezza della sala”.

Ad ogni modo gli riesce perfettamente. ll rapporto tra i colori, le superfici, le forme e gli ambienti imprime una curvatura inaspettata al percorso del visitatore, dilatando il tempo, ingannando il colpo d’occhio. La mostra sembra più grande di altre che si sono tenute negli stessi ambienti, pur con un numero uguale o inferiore di opere.

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi. Svayambhu, 2007; cera, vernice a base di olio. ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

Tuttavia, con attitudine teatrale, Kapoor, cattura l’attenzione del pubblico ma non è indulgente verso di lui. Tanto che la prima opera in mostra è “Svayambhu” (termine sanscrito che definisce ciò che si genera autonomamente), una massa di cera rossa terribilmente scrivente, montata su una rotaia che si muove lentissimamente ma inesorabilmente da una stanza all’altra, attraversando una porta di poco più grande di lei. Tralasciando i rimandi alla carnalità espliciti e violenti che possono suscitare impressione, l’opera non perdona: il visitatore che si avvicina troppo si macchierà scarpe o abiti e dovrà buttare tutto nell’immondizia.

Lo è di più con l’architettura. Le sale risultano abbellite dai pigmenti vivi di opere come “To Reflect an Intimate Part of the Red” o “Endless Column” (in cui le cromie si accumulano alla base delle sculture facendo pensare di rivestire oggetti invisibili o fatti direttamente con polvere colorata) ma anche quando incontrano le sue sculture riflettenti (in mostra ce ne sono parecchie). Forme, spesso concave, prive di linee di saldatura, che restituiscono la realtà in maniera molto originale (deformano, rovesciano, fanno apparire e scomparire le persone senza motivo) mentre valorizzano invariabilmente gli ambienti in cui vengono esposte.

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi. Vertigo, 2006, acciaio inossidabile cm 225 × 480 × 60; Mirror, 2018, acciaio inossidabile cm 195 × 195 × 25; Newborn, 2019, acciaio inossidabile, cm 300 × 300 × 300  ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

E se “Angel”, composta da grandi pietre di ardesia che sembrano leggere ricoperte come sono da strati di un pigmento blu intenso, quasi ultraterreno, suggerisce pace e dà l’impressione di ammirare dei frammenti di cielo caduti, la serie in cui usa resine e pittura abbinata ai titoli (sempre, comunque, centrali nel lavoro di Kapoor) può arrivare a suscitare disgusto. Stesso discorso per la sessuale “A Blackish Fluid Excavation”..

La mostra “ Untrue Unreal” di Anish Kapoor, rimarrà a Palazzo Strozzi di Firenze fino al 4 febbraio 2024.

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi Angel, 1990 ardesia, pigmento ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi. Sala 6: Tongue Memory, 2016 silicone, vernice, cm 250 × 130 × 70 Today You Will Be in Paradise 2016 silicone, vernice cm 250 × 195 × 45 Three Days of Mourning 2016 silicone, tecnica mista, vernice cm 250 × 120 × 70 First Milk, 2015, silicone, fibra di vetro, vernice ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi Gathering Clouds, 2014 fibra di vetro, vernice cm 188 × 188 × 39 ciascuno ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi Gathering Clouds, 2014 fibra di vetro, vernice cm 188 × 188 × 39 ciascuno ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi. Vertigo, 2006, acciaio inossidabile cm 225 × 480 × 60; Mirror, 2018, acciaio inossidabile cm 195 × 195 × 25; Newborn, 2019, acciaio inossidabile, cm 300 × 300 × 300  ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi. Sala 6: A Blackish Fluid Excavation, 2018 acciaio, resina cm 150 × 140 × 740 Tongue Memory, 2016 silicone, vernice, cm 250 × 130 × 70 Today You Will Be in Paradise 2016 silicone, vernice cm 250 × 195 × 45 Three Days of Mourning 2016 silicone, tecnica mista, vernice cm 250 × 120 × 70 First Milk, 2015, silicone, fibra di vetro, vernice ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi. Void Pavilion VII, 2023; tecnica mista, vernice. ©photoElaBialkowskaOKNOstudio. ©photoElaBialkowskaOKNOstudio