La rinascita dell’arte di Pauline Boty, la prima artista Pop donna nella frizzante Londra degli Swinging Sixties

Pauline Boty, WITH LOVE TO JEAN-PAUL BELMONDO, oil on canvas, 1962 All images by Pauline Boty

Figura centrale nel vibrante clima londinese degli Swinging Sixtis, nonché unica artista donna a calcare la scena Pop britannica (che precorse quella americana), Paoline Boty, dopo essere stata a lungo dimenticata (tanto che i suoi dipinti fino agli anni ‘90 giacevano accatastati in un fienile) è tornata di moda. E mentre si parla di un’imminente importante retrospettiva un suo quadro ha sfondato il tetto del milione all’asta.

Pauline Boty, nata nel ’38 a Carshalton (una cittadina a sud di Londra), non ne trarrà però alcun beneficio, perché è morta giovanissima. A soli 28 anni durante un controllo ginecologico in vista della nascita del suo primo figlio, infatti, le venne scoperta una grave forma di leucemia. Avrebbe potuto tentare con la radioterapia ma decise di non farne niente per via della gravidanza (qui le fonti divergono: qualcuno dice perché temeva di compromettere la salute del bambino, qualcun altro perché all’epoca per legge avrebbe dovuto abortire e lei non voleva farlo). Una scelta che comunque le costerà la vita. E non andrà meglio ai suoi familiari: Il marito, l’agente letterario Clive Goodwin, mancherà dodici anni dopo e la figlia Katy (chiamata Boty in ricordo della madre), diventata artista a sua volta, se ne andrà per un’overdose la notte stessa della sua laurea (aveva 29 anni, un solo anno più della madre).

Così quando si parla del lavoro o della figura di Pauline Boty non si può fare a meno di evocarne la tragedia. Ed è strano perché Boty, bellissima e trasgressiva, doveva essere tutt’altro che cupa, come non lo è la sua colorata ed energica pittura. La designer Celia Birtwell (si, proprio quella che appare insieme allo stilista Ossie Clark ed alla loro micetta, nell’iconico dipinto di David HockneyMr and Mrs Clark and Percy”), che con lei si era trovata a fare la cameriera per ragranellare qualche soldo in più, nel locale, allora di tendenza, "Soup Kitchen" (del designer Terence Conran) e che in seguito, insieme al marito Ossie, ad Hockney e a molti altri, sarà ospite alle feste che si tenevano a casa di Boty e Goodwin, di lei dirà: "Era bellissima, con una risata meravigliosa: intelligente, molto brillante, una delle prime femministe." E Pauline Boty, capelli biondissimi, sempre truccata (una volta ha raccontato di aver riconcorso un ragazzo della scuola che le aveva chiesto perché si mettese tanto rossetto gridandogli: “Per baciarti meglio!”) e alla moda (naturalmente i mini-abiti di Mary Quant erano d’ordinanza), bella lo era davvero: alla Wimbledon School of Art di Londra la chiamavano "Bardot di Wimbledon" per quanto somigliava all’attrice francese.

Adesso ci farebbe pensare anche alla Barbie di Margot Robbie. Ed in effetti è vero anche che era convintamente e gioiosamente femminista: “C’è una rivoluzione in arrivo (…)- ha detto nel 63 - In tutto il Paese le ragazze si sono messe in moto, si agitano e gridano, e se vi spaventano, be’, è proprio quello che vogliono, e cominciano a fare un certo effetto anche sul resto del mondo”.

E non avrebbe potuto essere altrimenti. Figlia di un severo contabile che la spingeva continuamente a ricordare di essere una ragazza (non per ragioni positive) e di una madre che pronunciava frasi come “Questo è un mondo di uomini!” (sarà il titolo di due suoi famosi dipinti: “It’s a Men World I del ’64 e “It’s a Men World II” del ‘64/65), senza contare il fatto che anche lei avrebbe voluto fare l’artista ma il nonno di Pauline gliel’aveva impedito. Poi arrivata al Royal College of Art dove avrebbe studiato, non senza affrontare qualche mal di pancia del padre, Boty era stata costretta ad iscriversi al corso di vetrate colorate (adesso un suo autoritratto realizzato con questa tecnica è conservato alla National Portrait Gallery di Londra), perché le avevano detto che le possibilità per una donna di essere ammessa a quello di pittura erano pressoché nulle. D’altra parte, i bagni per le donne ai tempi al Royal College of Art nemmeno li avevano messi.

Il femminismo (la liberazione sessuale, lo sguardo delle donne sulla loro rappresentazione nei media e quello sulle icone maschili sexy dell’epoca) è un tratto che attraversa tutta la breve carriera di Boty e contribuisce a rendere ancora più interessanti le opere. Anche la sua sensibilità nell’uso del colore, vibrante, declinato in nuance fin troppo piacevoli e animato da pennellate ribelli che gli impediscono di cristallizzarsi in pesanti campiture, abbellito da elementi pop come cuori, tratteggi, ghirigori e soprattutto rose (si presume simboliche), è diversa da quella dei colleghi uomini. Spesso al centro della sua opera ci sono le star dell’epoca (usa il collage e un figurativo ingenuo e spontaneo ma ben calibrato), dice: “È quasi come dipingere la mitologia, una mitologia dei giorni nostri – star del cinema, ecc… gli dei e le dee del 20° secolo. Le persone hanno bisogno di loro e dei miti che le circondano, perché la loro vita ne viene arricchita. La pop art colora questi miti”. Diverso è anche lo spirito del racconto, e Boty, ad esempio, in “The only blonde in the world”, dipinto nei mesi successivi alla morte di Marilyn, ci appare partecipe del triste destino toccato alla diva.

Le opere di Boty, inoltre, sono un vero e proprio concentrato dei ruggenti Swinging Sixtis londinesi. Conia anche un’espressione che ne sintetizza lo spirito: “Nostalgia del presente”.

D’altra parte la pittrice fu anche attrice, ballerina, modella e scenografa; recitò in numerose rappresentazioni teatrali e televisive, condusse una trasmissione radiofonica di BBC (in cui fu una delle prime ad intervistare i Beatles), portò in giro per Londra uno sconosciuto Bob Dylan (si dice anzi che la canzone “Liverpool Gal” sia stata scritta per lei). E compare in una scena gioiosa del film Alfie (’66) di Lewis Gilbert a fianco di Michael Caine. E tutto questo nei pochi anni di vita che ha avuto a disposizione.

Recitare però per Boty era solo un riempitivo, quello che le interessava era imporsi come artista. E non si può dire che non fosse sulla strada per affermarsi: già nel ’62 ha partecipato al documentario “Pop Goes the Easel” (Pop va sul cavalletto) di Ken Russell trasmesso da BBC, insieme a Peter Blake, Derek Boshier and Peter Phillips e fa anche qualche mostra interessante. Incredibilmente dopo la sua morte viene dimenticata, ci penseranno il curatore David Allan Mellor e la critica femminista Sue Tate con l’aiuto della figlia (allora ventenne) dell’artista, a recuperare i suoi dipinti dal capanno nella fattoria di famiglia, dove giacevano coperti di ragnatele. Mellor allora li espone al Barbican nel 1993 in “Art in 60s London” (ci fu anche una monografia della Tate). Poi, vuoi perché di lei restano poche opere, vuoi perché il suo stile si discosta da quello degli artisti Pop maschi, Pauline Boty, viene nuovamente dimenticata.

Fino al 2016 quando compare nel romanzo "Autumn" di Ali Smith; nel 2019 il New York Times scrive di lei; adesso il dipinto "With Love to Jean-Paul Belmondo" (1962) di Pauline Boty, valutato da Sotheby intorno alle 800.000 Sterline, ha superato il milione sotto il martello del banditore. Forse è davvero la volta buona. (dall’articolo di Antonio Riello per Dagospia)

Pauline Boty, 5-4-3-2-1, 1963

Pauline Boty signed photo, by John Aston, 1962.

Dipinti in Italia 40 anni fa, i “Modena Paintings” di Jean-Michel Basquiat, si possono ammirare insieme per la prima volta in Svizzera

Jean-Michel Basquiat, The Guilt of Gold Teeth, 1982 Acrylic, spray paint, and oil stick on canvas, 240 x 421.3 cm Nahmad Collection © Estate of Jean-Michel Basquiat. Licensed by Artestar, New York Photo: Annik Wetter

Morto 27enne per overdose dopo soli 10 anni di seppur intensa attività, Jean-Michel Basquiat, resta uno degli artisti più importanti della seconda metà del XX secolo. Il primo afroamericano ad avere successo in un mondo dominato dai bianchi. Tra le sue opere, che riunivano astrattismo e figurazione, parola e immagine, elementi di cultura pop e satira sociale, un gruppo di lavori è particolarmente significativo. Basquiat li dipinse in soli otto giorni in un magazzino della Pianura Padana, a Modena, in Italia, per una mostra che non si fece mai. Sono passati alla storia come i “Modena Paintings”.

Adesso la Fondazione Beyeler di Basilea (Svizzera) li ha riuniti per la prima volta in una mostra che si intitola semplicemente: “Basquiat. The Modena Paintings” (inaugurata il 10 giugno durerà fino al 27 agosto). E che intende approfondire il ruolo che queste opere ebbero nella carriera di Basquiat oltre alle loro caratteristiche peculiari. Tra loro c’è il record d’asta “Untitled (1982 Basquiat devil painting)”.

Nato nel 1960 a Brooklyn da padre haitiano e madre di origini portoricane, Jean-Michel Basquiat, era il secondo di quattro figli (al fratello sarebbe toccato il destino di morire prima della sua nascita mentre le due sorelle minori gli sarebbero sopravvissute). Del suo talento artistico, dimostrato fin da bambino e assecondato dalla madre, si sarebbe parlato a lungo, così come delle sue amicizie e conoscenze: quelle dei tempi della scuola o di poco successive (con Keith Haring, ad esempio), così come di quelle che verranno dopo (tra loro, il rapporto con Francesco Clemente). Anche se il sodalizio con Andy Warhol resta il suo legame più famoso (sulle opere che crearono insieme, si concentra la mostra “Basquiat × Warhol. Painting four hands”, in corso alla Fondation Louis Vuitton di Parigi, fino al 28 agosto). Le sue incursioni del mondo della musica, della moda e della cultura metropolitana di quell’epoca in genere, non avrebbero fatto che accrescere la fama di un artista che a metà degli anni '80, poco più che ventenne, guadagnava già 1,4 milioni di dollari all'anno e riceveva somme forfettarie di 40.000 dollari dai mercanti d'arte. Qualcuno dice che l’abuso di droghe, che l’avrebbe ucciso, sarebbe stato figlio di quella fama, anche se l’infanzia tribolata di Basquiat sembra un’indiziata più probabile. Nella sua opera, caratterizzata da pennellate potenti e molto espressive ma anche libere, oltre che da colature di colore e tratti incisi, coesistono elementi ispirati al vodoo come all’anatomia, parole tratte dai testi più vari, mentre figure nere, rappresentate come santi ed eroi, si guadagnano la ribalta in una giungla urbana pullulante di tratti e polimorfa.

I “Modena Paintings” sono otto quadri di grandi dimensioni che nel 1982 (considerato l’anno più fortunato nella produzione dell’artista newyorkese), Jean-Michel Basquiat, avrebbe dovuto esporre nella galleria di Emilio Mazzoli a Modena (sia lo spazio espositivo che il mercante sono ancora in attività). Per dipingerli, all’inizio dell’estate di quell’anno, Basquiat venne in Italia e Mazzoli gli mise a disposizione il materiale e un magazzino in cui lavorare.

Sono grandi, le opere più grandi mai prodotte fino ad allora da Basquiat, perché il giovane artista statunitense trovò quelle enormi tele bianche nel magazzino e decise di usarle. Lì incontrò anche le opere di Mario Schifano, che aveva dipinto nello stesso spazio parecchie volte. Tuttavia, Basquiat, non era felice, anzi era profondamente contrariato (un insieme di stati d’animo che sarebbero confluiti nei “Modena Paintings”).

Tanto per cominciare, già l’anno precedente aveva fatto una mostra da Mazzoli con lo pseudonimo di SAMO© (quello che usava quando faceva graffiti sugli edifici di edifici di Lower Manhattan insieme all’amico Al Diaz) ma era stata un disastro (non era stato venduto un solo quadro). Adesso ci avrebbe riprovato con il suo nome di battesimo, dopo il successo clamoroso della mostra autografa alla galleria newyorkese di Annina Nosei, dopo aver cominciato a lavorare con Gagosian (da cui Basquiat si sarebbe presentato con la fidanzata del momento, una giovane e ancora sconosciuta Madonna).

Ma non è solo questo a renderlo inquieto. Arrivato a Modena, infatti, all’artista viene detto che la mostra è più che imminente e che avrebbe avuto a disposizione solo 8 giorni per preparare tutto il materiale da esporre. Basquiat si sente preso in giro, è allo stesso tempo arrabbiato e ferito. In seguito commenterà l’episodio con queste parole: o “fare otto quadri in una settimana, per la mostra della settimana successiva. Era una delle cose che non mi piacevano. Li ho fatti in questo grande magazzino lì. […] Era come una fabbrica, una fabbrica malata. L'ho odiato. Volevo essere una star, non una mascotte da galleria”.

Tuttavia dipinge. Con furia, con ispirazione, dipinge. Otto tele in otto giorni, di almeno 2 metri per quattro. Dietro ognuna, l’artista, indica il luogo di produzione (Modena) e appone la sua firma. Si tratta delle opere più grandi che abbia mai realizzato e anche delle migliori. Tant’è vero che una di loro, “Untitled (1982 Basquiat devil painting)”, nel 2022, verrà venduta dalla casa d’aste britannica Phillips per 85 milioni di dollari. Nonostante ciò, la mostra naufraga prima di salpare: i galleristi Nosei e Mazzoli non si accordano e l’esposizione viene annullata.

Adesso quelle tele di Jean-Michel Basquiat, considerate capolavori, sono sparse in collezioni private di Stati Uniti, Asia e Svizzera. “Basquiat. The Modena Paintings” alla Fondazione Beyeler, le riunisce di nuovo dopo 40 anni. E’ la prima volta in assoluto che vengono messe in mostra tutte in gruppo.

Jean-Michel Basquiat, Untitled (Devil), 1982 Acrylic and spray paint on canvas, 238.7 x 500.4 cm Private Collection © Estate of Jean-Michel Basquiat. Licensed by Artestar, New York Photo: © 2023 Phillips Auctioneers LLC. All Rights Reserved

Jean-Michel Basquiat, Profit 1, 1982 Acrylic, oil stick, marker, and spray paint on canvas, 220 x 400 cm Private Collection, Switzerland © Estate of Jean-Michel Basquiat. Licensed by Artestar, New York Photo: Robert Bayer

Jean-Michel Basquiat, Boy and Dog in a Johnnypump, 1982 Acrylic, oil stick, and spray paint on canvas; 240 x 420.4 cm Private Collection © Estate of Jean-Michel Basquiat. Licensed by Artestar, New York Photo: Daniel Portnoy

Jean-Michel Basquiat, Untitled (Angel), 1982 Acrylic and spray paint on canvas, 244 x 429 cm Private Collection © Estate of Jean-Michel Basquiat. Licensed by Artestar, New York Photo: Robert Bayer

Jean-Michel Basquiat, Untitled (Cowparts), 1982 Acrylic, spray paint, and oil stick on canvas, 239.4 x 420 cm Aby Rosen Collection, New York © Estate of Jean-Michel Basquiat. Licensed by Artestar, New York Photo: Adam Reich

Jean-Michel Basquiat, The Field Next to the Other Road, 1982 Acrylic, enamel paint, spray paint, oil stick, and ink on canvas, 221 x 401.5 cm Private Collection © Estate of Jean-Michel Basquiat. Licensed by Artestar, New York Photo: Adam Reich

Jean-Michel Basquiat, Untitled (Woman with Roman Torso [Venus]), 1982 Acrylic and oil stick on canvas, 241 x 419.7 cm Private Collection © Estate of Jean-Michel Basquiat. Licensed by Artestar, New York Photo: Robert Bayer

La Pop Art provocatoria e surreale di Mel Ramos

Mel Ramos, Della Monty, 1972. Courtesy Galerie Gmurzynska

Nato a Sacramento nel ‘35 da una famiglia portoghese, Mel Ramos, fu uno dei primi artisti Pop. Si distinse dai colleghi della east-coast per il colore californiano e una certa libertà rappresentativa, ma soprattutto per aver rivisitato, con insistenza, il tema del nudo femminile in chiave pop.

Aveva esplorato l’astrattismo per poi dedicarsi ad opere figurative. Fu allievo e poi amico di Wayne Thiebaud (che di Ramos si è spinto a dire: “Farò una dichiarazione molto audace e dirò che Mel è un pittore molto più importante, interessante e più grande di Andy Warhol"), ma ebbe un rapporto molto stretto anche con Roy Lichtenstein. Di cui in seguito raccontò : “Ero a New York con un mio amico che si chiama Roy Lichtenstein, la cui fidanzata all'epoca lavorava nella mia galleria. E quando ero a New York […] di solito stavamo da lui nel suo loft. E andavamo a cena fuori e parlavamo di arte e di vita".

Dipingeva i personaggi dei fumetti (fu uno dei primi a farlo) e bellissime ragazze nude che affiancava ai prodotti di consumo. Queste ultime, sbucavano dal fondo monocromo, privo di profondità, per nascondersi (ma mai più di tanto) dietro a bottiglie di ketchup o tubetti di dentifricio, facendo il bagno in enormi coppe di Martini o emergendo da banane e pannocchie.

La maggior parte di queste rappresentazioni era ingenuo e le donne di Ramos troppo stereotipate per essere pensate come esseri reali. Altre immagini, però, erano meno candide, ai limiti della pornografia.

In generale, le signore ammiccanti nei dipinti di Ramos, ricordano le pin-up della pubblicità degli anni ‘50-’60 del secolo scorso. Quindi le sue opere possono essere viste come un commento critico al consumismo. Ed in effetti, così vennero interpretate all’inizio. Ma con il tempo, e l’affermarsi dei movimenti femministi, il lavoro dell’artista venne guardato meno benevolmente dalla critica, che cominciò a sottolineare come le donne nei lavori di Ramos si facessero oggetti. Un critico donna, negli anni ‘70, parlò apertamente di natura feticista e umiliante dell’immagine femminile nella sua opera.

Ramos si giustificò in vari modi nel corso del tempo, ma sempre negando queste letture. Diceva che le donne apparivano così nel suo lavoro, perchè per lui, in quanto uomo, erano oggetto di desiderio.

D’altra parte, se Thiebaud, dipingeva file di cheese cakes o apple pies pronte al consumo, invece di mazzi di fiori o quant’altro fino ad allora aveva definito la Natura Morta, non era strano che Ramos sostituisse le modelle in carne ed ossa con le loro rappresentazioni deformate da un nuovo immaginario collettivo. A loro volta tramutate in merci.

"Non credo che i dipinti parlino di erotismo e non credo che siano dipinti erotici. Penso che abbiano a che fare con un'intera idea sociale che viene perpetuata e alimentata. I dipinti si concentrano semplicemente su quella condizione sociale, non necessariamente la confermano o la negano".

In compenso, va detto che le donne di Ramos, anche quando hanno il volto di personaggi famosi (da Marilyn a Uma Thurman), non sono affatto realistiche. A cavallo tra le conigliette di Play Boy e le rappresentazioni dei fumetti, sono strettamente bidimensionali anche quando di dimensioni ne hanno tre. Oltre ad essere un pò kitch.

Lui parlando in generale della sua opera, negli anni ‘80 ha spiegato: "Il mio lavoro è radicato nel Surrealismo, sicuramente (...) Ogni serie di dipinti che ho fatto sembra avere come tema centrale e pervasivo questa nozione di congiunzione, cioè di un simbolo con un altro simbolo". 

Sia come sia, i nudi di Ramos anticipano certe soluzioni adottate in seguito da Jeff Koons e, dietro la loro apparente leggerezza, si fanno carico del peso di una società lacerata da un cambiamento dei costumi inesorabile e psicologicamente violento. Adesso la sua opera è conservata in importanti collezioni tra le quali quella del Guggenheim Museum di New York, del MoMa di New York, del MOCA di Los Angeles, del Museum Moderner Kunst di Vienna e del Whitney Museum of Art (ancora New York).

Per qualche inesplicabile ragione, l’opera di Mel Ramos, è stata sempre particolarmente apprezzata in Germania. Forse anche per questo, la sede di Zurigo della famosa Galerie Gmurzynska, gli ha dedicato un’ampia mostra. Intitolata, “The Suspence is Terrible, I Hope it will Last: Mel Ramos”, mette in fila quattro dipinti e ben undici sculture (alcune opere sono iconiche). L’esposizione è stata, inoltre, organizzata in contemporanea con la retrospettiva di Wayne Thiebaud alla Fondation Beyeler, nella non lontana Basilea ed è accompagnata da un bel catalogo. Si concluderà il 31 maggio.

The Suspence is Terrible, I Hope it will Last: Mel Ramos Installation view. Courtesy Galerie Gmurzynska

The Suspence is Terrible, I Hope it will Last: Mel Ramos Installation view. Courtesy Galerie Gmurzynska

The Suspence is Terrible, I Hope it will Last: Mel Ramos Installation view. Courtesy Galerie Gmurzynska

The Suspence is Terrible, I Hope it will Last: Mel Ramos Installation view. Courtesy Galerie Gmurzynska

The Suspence is Terrible, I Hope it will Last: Mel Ramos Installation view. Courtesy Galerie Gmurzynska

Mel Ramos, Peek a Boo Blonde, 1988. Courtesy Galerie Gmurzynska

The Suspence is Terrible, I Hope it will Last: Mel Ramos Installation view. Courtesy Galerie Gmurzynska

Mel Ramos in his studio Courtesy Galerie Gmurzynska