Yoyoi Kusama per Louis Vuitton torna dopo 10 anni nei negozi e sui cartelloni. Compresi quelli 3d

Dopo 10 anni dalla storica e amatissima collaborazione tra Yayoi Kusama e Louis Vuitton, il destino dell’artista giapponese è tornato a incrociare quello del marchio di moda francese. Ne è uscita un’intera collezione che ha suscitato pareri contrastanti. E una campagna pubblicitaria che richiama in pochi iconici elementi (i puntini, i colori primari, in particolare il giallo e il rosso, le zucche e le sfere argento riflettenti) il lavoro di Kusama.

Tra gli ambienti creati da Vuitton per celebrare la collaborazione con Yayoi Kusama, i video e le immagini destinate ai cartelloni e alle riviste patinate, il tabellone anamorifico in 3d di Tokio è stato probabilmente il più strabiliante (lo potete vedere qui sopra in un filmato condiviso dalla stessa casa di moda su You Tube).

Ma anche la mega scultura, più o meno iperrealista, di Kusama che abbraccia l’intero palazzo (ricoperto di pois multicolore per l’occasione) negli Champs-Élysées di Parigi dove ha sede lo store LV, non è molto da meno. Mentre le grandi zucche, che hanno da poco preso il loro posto in Piazzza San Babila a Milano, potebbero anche dare un po’ meno nell’occhio.

Ormai 93enne, Yayoi Kusama, lavora instancabilmente dagli anni ‘50. Nella sua vita ha spesso sperimentato allucinazioni che hanno fortemente influenzato la sua arte.

Newyorkese d’adozione in un periodo di particolare fervore creativo e cambimenti sociali (dal ‘57 al ‘73, anno in cui farà ritorno in Giappone). Abbraccerà la controcutura hippy e farà esperimenti di ogni genere nel campo dell’arte ma anche della moda. Fondata la Kusama Fashion Company nel 1968, infatti, l’artista lavorerà tra gli altri con i grandi magazzini Bloomingdale's. Poi avvierà la Nude Fashion Company che, come si evince dal nome, avrà il merito di creare capi, magari poco portabili ma decisamente innovativi, come il vestito capace di contenere al suo interno fino a 25 persone.

Anche a quel periodo, fa (castamente, rispetto agli eccessi della Kusama di allora) riferimento, la parte della collezione creata con LV, “Psychedelic Flowers”. Questa serie di capi, declinati sui toni dell’argento, del bianco e nero e del rosso e bianco, infatti, se da una parte cita il precoce talento artistico di Yayoi Kusama (ma soprattutto il tema del fiore che sarà fondamentale in opere come “Flower Obsession”), dall’altra porta impresso uno dei motivi a puntini più ipnotici, teatrali e appunto, psichedelici dell’artista giapponese.

Per il resto, la collezione, davvero molto vasta (oltre 400 articoli, compresa una tavola da surf e due profumi), ricorda sia le “Infinity Mirror Rooms” (la prima delle quali debutta nel 1965), che i “Narcissus Gardens” (le cui sfere riflettenti, fanno il loro ingresso nel mondo di Kusama alla Biennale di Venezia del ‘66, per tornare, ad esempio, nel Connecticut in tempi recenti).

Ci sono poi le iconiche zucche declinate sotto forma di ciondoli e quant’altro.

Anche se, nauralmente, la ripetizione ossessiva, che è uno degli elementi fondanti del lavoro di Kusama, e i pois che ben la incarnano, sono il perno su cui si regge l’intero lavoro stilistico.

Soprattutto le borse (che saranno anche il focus della parte della collezione che verrà presentata a marzo), con i loro pois multicolori in rilievo, ottenuti attraverso un metodo di stampa parzialmente artigianale, danno la misura dell’impegno profuso. Nulla è stato lasciato al caso. E così è giusto che sia. Il risultato, nel bene e nel male, non è altro che una conseguenza di questo dato di fatto.

Louis Vuitton X Yayoi Kusama. Piazza San Babila, Milano. via L'Officiel

A Milano la fotografia surreale e teatrale di Yelena Yemchuck

Yelena Yemchuck, Guinevere #18, 2018 Courtesy l’artista

Se esiste un risvolto positivo della guerra in Ucraina, è di sicuro la grande visibilità dedicata negli ultimi tempi agli artisti provenienti dall’ ex paese dell’ Unione Sovietica (soprattutto in Europa). Tra questi anche la fotografa, pittrice e regista,Yelena Yemchuck, che è attualmente in mostra nel concept store milanese dello stilista Antonio Marras. L’esposizione si intotola “Characters” e vorrebbe tratteggiare l’universo di personaggi che popola l’immaginazione di Yemchuck attraverso dipinti e foto.

Yelena Yemchuck è originaria di Kiev ma fin dall’adolescenza vive a Brooklyn (New York). Anche adesso, piuttosto nota, sposata con l’attore Ebon Moss-Bachrach e madre di due figli, non ha cambiato ne quartiere ne città. Il corpo principale del suo lavoro è costituito dalla fotografia di moda, anche se è molto conosciuta in particolare per la collaborazione (in qualità di regista, direttore della fotografia ecc.) per il gruppo rock alternativo statunitense, Smashing Pumpkins.

A Milano ci sono due serie di lavori, la recente YYY Depart Pour L’image, (2022) e Ten Years After (2006) nata dalla collaborazione (appunto) con Antonio Marras. Tutte le opere sono permeate da un’atmosfera surreale. Le fotografie, spesso teatrali, curate nei minimi particolari, in cui Yemchuck dimostra la straordinaria abilità (la sua passione per quest’arte nasce a 14 anni, quando il padre le regala la prima macchina fotografica), sono giustapposte con altre diverse nello stile, che sottolineano l’indole narrativa delle immagini.

Si tratta di racconti aperti. L’atmosfera è quella di una favola nera, enigmatica, surreale. Anche se i costanti riferimenti a violenza e sesso, che si ritrovano in diverse fotografie e in moltissimi dipinti, la rendono decidamente scabrosa, per quanto bella e patinata possa apparire.

La mostra Characters di Yelena Yemchuk è stata inaugurata al Nonostante Maras in occasione del Photo Vogue Festival 2022 (che si è tenuto a Milano tra il 17 e il 20 novembre), ma proseguirà fino all’8 gennaio 2023.

ATTENZIONE: L’esposizione è inadatta ai bambini.

Yelena Yemchuck, Flowers, Kyiv, 2019 Courtesy l’artist

Yelena Yemchuck, Warrior Girls #2, 2020 Courtesy l’artista

Yelena Yemchuck, Hands, Puglia, 2018 Courtesy l’artista

Yelena Yemchuck, Mykolaiv, 2019 Courtesy l’artista

Yelena Yemchuck, 120, Rue de la Gare, 2017 Courtesy l’artista

Yelena Yemchuck, Somewhere I Don’t Know Where, 2001 Courtesy l’artista

Yelena Yemchuck, ana and Triss, 2019 Courtesy l’artista

Yelena Yemchuck, Mirabelle Bloody Nose, 2018 Courtesy l’artista

La maschera del medico della peste è l'antenata delle mascherine indossate negli ospedali COVID

Maschera del medico della peste (1650/1750) . Deutsches Historisches Museum

Maschera del medico della peste (1650/1750) . Deutsches Historisches Museum

Sembra il costume da mettere per simulare l’aspetto di un buffo personaggio dei cartoni animati. Un piccione parlante o un pollo saccente. Invece è una maschera del medico della peste, indossata da un dottore per avvicinarsi ai pazienti infetti tra il 1650 e il 1750 (attualmente conservata al.Deutsches Historisches Museum). Ed è da questo curioso capo d’abbigliamento che discendono le mascherine, gli occhiali e i copricapi usa e getta che proteggono gli odierni medici impegnati nella lotta al coronavirus.

L’esigenza di proteggere chi per mestiere doveva avvicinarsi ai malati durante un’epidemia nasce già nel XIV secolo, ed è allora che vengono inventate queste strane cappe. In realtà, quello che sembra un becco era dotato di due buchi per far entrare l’ossigeno, e all’interno conteneva erabe aromatiche o essenze e quasi sempre spugne imbevute d’aceto.

Per molto tempo come veniva diffusa la peste rimase un mistero. Le teorie più popolari erano che fosse colpa di una congiunzione sfavorevole tra Giove e Saturno o di acqua contaminata. Ma erano soprattutto i venti cattivi" e l'aria sporca, chiamata "miasma" a concentrare su di se la preoccupazione. Per questo solo le finestre esposte a nord erano ritenute sicure per la ventilazione, e si riempivano le maschere dei medici di piante profumate. La vera causa della peste venne scoperta solo nel 1894, insieme ai veicoli di diffusione che erano i ratti e le persone stesse che scappavano dal male.

Oltre al becco le cappe contenevano lenti per proteggere gli occhi del dottore (che allora si pensava potessero essere infettati dallo sguardo del paziente). Nel 1619 la curiosa maschera del medico della peste, prendendo ispirazione dalle armature dei soldati, venne completara da una veste idrorepellente in tela cerata lunga fino ai piedi, comprensiva di guanti, scarpe e cappello a tesa larga. Insomma, considerata l’epoca, una tenuta non molto dissimile da quella che i medici impegnati a fronteggiare un’epidemia usano tutt’ora.

Pur riproducendo il profilo di un uccello la cappa seicentesca era puramente funzionale, e non si può paragonare quindi ad altri capi d’abbigliamento a forma di animali o insetti, come lo splendido elmo libellula, che veniva indossato dai samurai giapponesi nello stesso periodo.

La maschera del medico della peste conservata al Deutsches Historisches Museum è entrata senza fatica nella sfida lanciata da un museo dello Yorkshire agli altri spazi espositivi a condividere sui social l’oggetto più inquientante delle loro collezioni (ma di questo parlerò in seguito). (via dhm blog)

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