“Stranieri Ovunque”: la Biennale degli indigeni e dei parenti di Adriano Pedrosa

Claire Fontaine ( Founded in Paris, France, 2004 - Based in Palermo, Italy ) Foreigners Everywhere – Spanish (2007) Suspended, wall or window mounted neon, framework, electronic transformer and cables - installation view 98 × 2.16 × 45 cm The Traveling Show, curated by Adriano Pedrosa, La Colección Jumex, Mexico / Photo by Studio Claire Fontaine / © Studio Claire Fontaine / Courtesy Claire Fontaine and Mennour, Paris 

Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere”, la sessantesima Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, che si inaugurerà la prossima primavera (dal 20 aprile, al 24 novembre 2024), è un progetto ambizioso; mastodontico (riunisce 332 nomi di tutte le nazionalità ma per lo più provenienti dal sud del mondo); che è già stato definito un “colpo di coda woke”. In questa edizione, curata dal brasiliano Adriano Pedrosa (laureato in legge e artista con un master in arte e scrittura critica al California Institute of the Arts, che si è fatto un nome per l’eccellente lavoro svolto al Museu de arte de São Paulo in Brasile), infatti, “la migrazione e la decolonizzazione saranno le tematiche chiave”.

"Adriano Pedrosa - ha detto il presidente uscente della Biennale Roberto Cicutto (cui succederà Pietrangelo Buttafuoco)- è il primo curatore della Biennale Arte proveniente dall’America Latina, scelto perché portasse il suo punto di vista sull’arte contemporanea rileggendo culture diverse come fosse un controcampo cinematografico". 

Se, così su due piedi, l’idea dell’ennesima mostra su migranti e rifugiati potrebbe deludere, in realtà Pedrosa definitosi “il primo curatore della Biennale che lavora nel sud del globo”, oltre ad essere il primo curatore “queer” dichiarato, ha scelto di affrontare il tema in maniera profonda e guardandolo da molteplici punti di vista: “L’espressione Stranieri Ovunque – ha spiegato - ha più di un significato. Innanzitutto, vuole intendere che ovunque si vada e ovunque ci si trovi si incontreranno sempre degli stranieri: sono/siamo dappertutto. In secondo luogo, che a prescindere dalla propria ubicazione, nel profondo si è sempre veramente stranieri”. Così oltre agli artisti provenienti dal sud del mondo (non tanto quelli che si sono trasferiti in Occidente a lavorare ma soprattutto quelli che sono rimasti in paesi in via di sviluppo), la mostra presenterà artisti dalla sessualità non binaria (“l’artista queer, che si muove all’interno di diverse sessualità e generi ed è spesso perseguitato o messo al bando”), artisti outsider e folk. In merito a questi ultimi, Pedrosa, in un’intervista rilasciata tempo fa, aveva affermato: “In Europa e negli Stati Uniti, ‘decolonizzare’ implica includere Africa, America Latina e Asia. In Brasile (e per estensione nei paesi non occidentali ndr), penso che ‘decolonizzare’ significhi guardare al popolare, all’autodidatta, all’outsider, al vernacolare”.

Poi sarà dato ampio spazio agli artisti indigeni (“spesso trattati come stranieri nella propria terra”), che andranno guardati con particolare attenzione, perchè uno dei motivi per cui Padrosa si è guadagnato rispetto e ammirazione nel mondo dell’arte, è proprio per il lavoro (per niente facile) di ricerca e studio dell’arte indigena che il curatore brasiliano ha cominciato da prima della sua nomina (e su cui quindi ha avuto più tempo per concentrarsi). “Il prossimo passo cruciale per noi- ha detto qualche anno fa parlando del museo di San Paolo- nel 2021, è l’inclusione dell’arte indigena. L'intero anno sarà dedicato alle storie degli indigeni, non solo brasiliani ma anche internazionali: Australia, Nuova Zelanda, Canada, Messico, Perù, Scandinavia e così via”. E poi, l’arte indigena nel 2024 sarà protagonista anche del Padiglione Stati Uniti (solitamente uno dei più belli del nucleo storico dei paesi espositori) che con l’artista di origine Cherokee, Jeffrey Gibson, sarà rappresentato per la prima volta in 129 anni di storia da un nativo americano (il padiglione sarà curato dalla nativa americana Kathleen Ash-Milby e da Louis Grachos e si intitolerà: “The space in which to place me”). Prima volta anche per la Danimarca, che si affiderà all’artista groenlandese Inuuteq Storch. L’Australia invece sarà incarnata da un singolo artista aborigeno per la seconda volta nella sua storia (l’onore sarà di Archie Moore).

Il titolo della mostra “Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere”, ha origine da una serie di sculture al neon realizzate a partire dal 2004 dal collettivo Claire Fontaine (nato a Parigi e con sede a Palermo) che recitavano in un numero imprecisato di lingue, appunto: “Stranieri Ovunque”. Sempre Pedrosa in una recente intervista ha spiegato: “Si tratta di un’espressione con molti livelli di significato: si può leggere come ‘ovunque tu vada ci sono stranieri e immigrati’ ma anche come ‘ovunque tu vada sei sempre uno straniero’. Trovo che abbia una connotazione sia poetica che politica, e persino psicanalitica; in questo senso ho pensato che fosse un buon punto di partenza”.

Installation view: Cité internationale des arts Paris, Monmartre, Paris, 2004 Claire Fontaine Foreigners Everywhere (Italian), 2004 Suspended, wall or window mounted neon, framework, electronic transformer and cables. Courtesy of the artist. Photo by Studio Claire Fontaine Copyright Studio Claire Fontaine Courtesy of Claire Fontaine and Galleria T293, Rome

Saranno privilegiati gli artisti che non hanno mai partecipato alla mostra della Biennale (al massimo possono aver rappresentato un paese o essere stati chiamati per un progetto collaterale). Non a caso i loro nomi, già di per sé parecchio ostici, sono in gran parte sconosciuti e comunque non ci saranno super-star. Almeno tra i nostri contemporanei, mentre per quanto riguarda quelli del passato la questione cambia, visto che tra loro c’è pure la famosissima Frida Kahlo. Inoltre, se è vero che il numero degli artisti chiamati a partecipare è altissimo, quelli che lo faranno consapevolmente si restringe di oltre un terzo: sono infatti solo un centinaio i viventi. Alcuni tra loro sono già anziani, altri lo sono decisamente. In questo senso la Biennale di quest’anno, sembra essersi autolimitata nel suo ruolo di osservatorio sul presente e su quello di istituzione votata a cogliere le tendenze, a prevedere il futuro. Come fosse un grande museo (magari del sud del globo) che riflette sulla storia, anzichè una delle maggiori e più influenti manifestazioni di arte contemporanea del mondo.

Come sempre la mostra si articolerà tra Padiglione Centrale ai Giardini e Arsenale. Quest’ultimo sarà lo spazio dedicato alla contemporaneità, in cui troverà posto pure un progetto vecchio stile, quasi nostalgico del ’68: “Il Nucleo Contemporaneo ospiterà nelle Corderie una sezione speciale dedicata a Disobedience Archive, un progetto di Marco Scotini che dal 2005 sviluppa un archivio video incentrato sulle relazioni tra pratiche artistiche e attivismo”. Mentre nel primo ci sarà un gruppo di opere storiche, così suddiviso: due sale dedicate ai ritratti (per lo più dipinti di persone non bianche), una sala all’astrattismo al di fuori dell’Occidente e poi una terza sala dedicata alla diaspora artistica italiana nel mondo lungo il corso del XX secolo (qui Pedrosa ha forzato un po' la mano, perché gli artisti di qualsiasi nazionalità da che mondo è mondo si spostano spesso).

Per quanto riguarda i linguaggi: l’arte generativa, la computer-art e l’arte che stringe legami con la scienza per creare opere innovative, avranno poco o niente spazio. Domineranno, invece, la scena, pittura, scultura e pratiche artigiane varie, con una corsia preferenziale per gli artisti che lavorano su tessuto (non a caso uno dei due leoni d’oro alla carriera andrà alla bravissima italiana naturalizzata brasiliana, Anna Maria Maiolino; l’altro, invece, se l’è aggiudicato la turca residente a Parigi, Nil Yalter). Ampio spazio poi verrà riservato alla performance art (con una serie di spettacoli organizzati per l’occasione ma anche con alcuni giovani artisti in mostra che usano anche il corpo in chiave post-umana nella loro pratica).

A sorpresa, questa Biennale di Venezia darà infine spazio ai rapporti parentali tra gli artisti (!): zio e nipote, zia e nipote, fratelli, madre e figlia, padre e figlio, più di una coppia (“Andres Curruchich e sua nipote Rosa Elena dal Guatemala; Abel Rodriguez e suo figlio Aycoboo dalla Colombia; Fred Graham e il figlio Brett, artisti Maori di Aotearoa/Nuova Zelanda; Juana Marta e sua figlia Julia Isidrez dal Paraguay; il Makhu, Movimento dos Artistas Huni Kuin, ossia il collettivo Huni Kuin della parte occidentale della regione amazzonica brasiliana; Joseca e Taniki Yanomami, della parte settentrionale della stessa zona; Santiago Yahuarcani e il figlio Rember dal Perù; Susanne Wenger e suo figlio adottivo Sangódáre Gbádégesin Ajàla dalla Nigeria e i fratelli Philomé e Senèque Obin da Haiti e Jewad e Lorna Selim, marito e moglie dall’Iraq e dalla Gran Bretagna”).

Le partecipazioni nazionali saranno complessivamente 90. Quattro i Paesi che parteciperanno per la prima volta: Repubblica del Benin, Etiopia, Repubblica Democratica di Timor Est e Repubblica Unita della Tanzania. Nicaragua, Repubblica di Panama e Senegal, invece, partecipano per la prima volta con un proprio padiglione. 

Per concludere bisogna ricordare che il Padiglione Italia (quest’anno alle Tese delle Vergini in Arsenale) sarà di Massimo Bartolini. Un artista con una bella carriera alle spalle, già ospite della Biennale in passato oltre che di Documenta e Manifesta (fa parte della scuderia di Massimo de Carlo, la storica galleria di Maurizio Cattelan), che lavora sul rapporto tra uomo, natura e spazio architettonico e che di certo varrà la pena di essere visto.

Installation view: Cité internationale des arts Paris, Monmartre, Paris, 2004 Claire Fontaine Foreigners Everywhere (Italian), 2004 Suspended, wall or window mounted neon, framework, electronic transformer and cables. Courtesy of the artist. Photo by Studio Claire Fontaine Copyright Studio Claire Fontaine Courtesy of Claire Fontaine and Galleria T293, Rome